Garavini e Rifondazione, l’altra sinistra (im)possibile

Garavini e Rifondazione, l’altra sinistra (im)possibile

di Giuliano Garavini 
Ripubblichiamo, con il permesso dell’autore, l’articolo che Giuliano Garavini ha dedicato al padre Sergio ieri su Il Fatto quotidiano nel ventennale della scomparsa. Sergio Garavini è stato uno dei più autorevoli dirigenti del movimento operaio italiano della storia repubblicana e il primo segretario nazionale del nostro partito.
Domani fanno vent’anni dalla morte di Andrea Sergio Garavini che, tra molte altre cose, è stato anche mio padre. Sergio, come lo chiamavano i suoi compagni, ha partecipato alla resistenza a Torino e ne ha guidato la Camera del lavoro negli anni 50, gli “anni duri” della repressione padronale in Fiat. Allora il sindacato seppe reagire con un’analisi innovativa delle condizioni lavorative che costituì il retroterra culturale per la riscossa operaia degli anni 60, sfociata poi nel “sindacato dei consigli”. Nella Cgil è stato segretario dei tessili, segretario confederale, segretario dei metalmeccanici. È stato anche il leader sindacale più vicino all’ultimo Enrico Berlinguer, quello della “questione morale”, ma anche della lotta contro l’abbandono della “scala mobile”.
 
A lungo membro del comitato centrale e della direzione del Pci, appartenente alla variegata “sinistra” comunista, Sergio è stato anche il coordinatore del movimento per la Rifondazione comunista nato nel febbraio 1991, per divenirne il primo segretario nazionale quando questo si trasformò in partito. Senza pretesa di obiettività mi piace rievocarne scampoli di pensiero, anche perché proprio quest’anno è caduto il centenario della nascita del Partito comunista d’Italia, nonché il trentennale dello scioglimento del Pci.
 
Difficile incasellare Sergio nelle categorie del velleitarismo, del settarismo o, peggio, della nostalgia per l’Urss – il cui ruolo nell’Europa dell’Est criticò già all’indomani dell’invasione dell’Ungheria nel 1956. Con l’eccezione dei gruppi filosovietici legati ad Armando Cossutta che, pur preziosi in fase organizzativa, furono poco influenti sulla linea di Rifondazione, i (pochi) dirigenti che si impegnarono in Rifondazione provenivano semmai dal “comunismo libertario”. La loro proposta di trasformazione del Pci in una federazione fra varie anime, tra le quali una comunista in grado di esprimere una propria autonomia politica e culturale, fu respinta da Achille Occhetto e dal gruppo dirigente del nascente Pds.
 
I temi principali del gran rifiuto emergono piuttosto chiaramente nei discorsi e negli scritti di Sergio durante il cruciale biennio 1991-1992. Il primo riguarda la collocazione internazionale del nuovo partito (erede della più grande organizzazione politica di massa del mondo occidentale) e la sua identificazione con un Occidente unilaterale e militarizzato. A seguito della crisi del Kuwait e della partecipazione italiana alle operazioni militari contro Saddam Hussein, Sergio riteneva che gli scenari di un governo mondiale a carattere pacifico, evocati da Achille Occhetto, rappresentassero una fuga dalla realtà: “La guerra non è una parentesi che si apre e si chiude, ma una logica di dominio e di potenza da combattere democraticamente e pacificamente”. A vincere era invece la legge del più forte che bombardava gli ex alleati invasori del Kuwait, senza muovere un dito per i territori occupati palestinesi.
 
Il secondo tema riguardava il rifiuto della strategia della “concertazione sindacale” che portò alla sigla degli accordi tra governo e parti sociali del 1992 e ’93. L’analisi di Sergio era che l’attenzione al tema dei “diritti” e l’accettazione dell’abolizione della scala mobile fossero un salto nel buio, proprio mentre il capitalismo esprimeva la sua vocazione più selvaggia e le pressioni alla riduzione della spesa sociale si facevano più forti. I progressi tecnologici non certo miglioravano la situazione: “La tecnologia non marginalizza il lavoro e non lo libera ma aggrava lo sfruttamento perché si sostituisce alla sua componente di progetto”. Occorreva rafforzare il legame con i lavoratori e stimolarne il protagonismo piuttosto che accreditarsi con Palazzo Chigi, per esempio con leggi sulla rappresentanza sindacale e referendum sui contratti. Sergio denunciava la burocratizzazione dei confederali che sembravano delineare “un sindacato con una struttura forte all’esterno dei luoghi di lavoro – basti pensare ai ben più di 20mila funzionari nelle tre confederazioni – che tutela i lavoratori in un rapporto stretto con le istituzioni e le rappresentanze imprenditoriali”.
 
Il terzo tema di distanza dalla “svolta” che considerava di carattere liberale e “governista” era l’esigenza di mantenere viva una critica, non solo accademica, al sistema capitalistico. Una critica incarnata in Italia dal movimento comunista, il cui nome “implica una critica al sistema capitalistico, la contestazione di quello che siamo abituati a definire ‘compatibilità di sistema’ ”. Evocando la forza di un movimento che aveva già superato il completo isolamento nelle fabbriche nel 1955 (“eravamo una riserva indiana”), Sergio rifiutava le regole stabilizzatrici delineate dai parametri di Maastricht e la moderazione sindacale imposta da Confindustria, mentre riteneva necessario riaffermare le ragioni del “controllo sociale” sull’impresa.
 
Potevano sembrare idee minoritarie, eppure nelle prime elezioni Politiche del 1992, senza una struttura organizzativa, Rifondazione ottenne il 5,6% dei voti, un terzo di quelli della “macchina da guerra” del Pds. Dopo imponenti mobilitazioni di piazza, alle elezioni amministrative del giugno 1993, Rifondazione – candidando figure radicali ma unitarie – ottenne in qualche caso più voti del Pds (a Torino il 14,64% contro il 9,55%; a Milano l’11,36% contro l’8,81%). Sergio considerò Rifondazione pronta ad imbarcarsi in un percorso federativo, aprendo a sensibilità come quelle dell’ambientalismo (Verdi) e della legalità (Rete), per dar vita ad uno schieramento maggioritario nella sinistra italiana. Su questo progetto si trovò in minoranza e si dimise.
 
Il modo più scontato per ricordare il lascito di uomini politici è quello di sottolinearne la modernità. Un trentennio di militarismo e unilateralismo americano, accompagnato dalla sostanziale inesistenza di un contraltare europeo di carattere pacifico e cooperativo, un trentennio di declino dei salari reali (e aumento del precariato) con rendite e profitti messi al riparo dalla concertazione, un trentennio di incapacità della sinistra italiana di elaborare alternative all’inevitabile fallimento del capitalismo su ambiente e giustizia sociale, dovrebbe tornare a farci riflettere sullo scioglimento del Pci e sulla vocazione a farsi del male dei dirigenti post-comunisti (almeno per quelli che non si sono arricchiti).
 
L’insegnamento più importante di Sergio, parlo per me, resta quello di non fuggire mai l’analisi del mondo reale (“in un sistema capitalistico l’unica variabile indipendente è il profitto”), di non rifugiarsi sempre nell’idea nello Stato come soluzione di ogni problema, ma di mantenere vivo un orizzonte utopistico fatto di democrazia, di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese e di utenti alla gestione dei servizi.

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