Claudio Falchero
Ho provato a tracciare sommariamente, a modo mio, una interpretazione di quello che è accaduto e sta accadendo nelle fabbriche, e nelle vite di chi, non per scelta, ma per necessità, ha dovuto e deve ancora lavorare.
Non sono note tecniche, ma sensazioni, ritorno ad una analisi elementare, ad un sentimento di base, che non dà forse soluzioni immediate, ma spero possa costruire un inizio per ricominciare.
Oggi non abbiamo la forza per poter dare un senso concreto alla nostra idea.
Il lavoro, trasformato nel suo apparire, non nel suo essere, non crea coscienza di classe.
Nella nuova realtà virtuale costruita dal padrone l’oppressione generata dal lavoro è stata occultata, reindirizzata nella supremazia, nell’odio raziale, nella differenza di genere.
Esiste un confine tra quello che eravamo e quello che siamo diventati.
Dobbiamo riconoscere quel confine, comprendere quella trasformazione avvenuta tra le colpe e gli inganni di una classe, non solo politica, ma sociale, che non ha creduto fino in fondo nei propri ideali.
Una generazione intera non ha saputo o voluto resistere al canto delle sirene ed ha perso la rotta naufragando poi nel mare di una disperata rassegnazione.
Il mondo virtuale ha occultato con l’inganno la vita reale, si è impadronito del nostro pensiero, delle nostre coscienze, del nostro futuro.
Ma sono tempi in cui la nostra stessa soppravvivenza impone scelte importanti, irrinunciabili.
Su queste scelte dovremo intervenire.
“Ricorda, io so che quando tutto è perduto, o anche solo quando tutto sembra perduto, è l’ora di ricominciare dall’inizio.” [A. Gramsci] 2
Sulla strada che da Carrara sale verso Colonnata, tra le cave di marmo viveva uno scultore.
Uno dei tanti uomini semplici e giusti che popolano quelle terre. Un giorno mi lasciò una sua piccola opera.
Su entrambi i lati del marmo bianco era scolpito di profilo il viso di un uomo in modo che lo sguardo fosse rivolto su due opposti orizzonti.
Mi disse: “Questo ti ricorderà che bisogna sempre camminare verso il futuro senza togliere lo sguardo dal passato”.
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Sin da ragazzo mi è stato facile capire di essere figlio di quella parte del mondo che godeva, allora come sempre, di immeritati quanto ingiusti privilegi.
Un pensiero, un primordiale senso di ingiustizia, che insinua un lieve senso di colpevolezza.
Ero in Italia. Un Paese, una nazione intera offesa dal fascismo, riscattata dalla resistenza, in pieno bum economico. Erano i tempi del petrolio, dell’acciaio, del cemento.
Una ricostruzione frenetica che presto avrebbe lasciato il posto ad un consumismo sfrenato.
Studente, percorrevo a piedi Via Roma per recarmi all’ Avogadro, in C.so San Maurizio, e mi capitava spesso di incontrare cortei di lavoratori in lotta.
Avevano grossi bidoni di lamiera che usavano come tamburi. Quasi tutti indossavano tute blu, ma il colore che più riempiva gli occhi era il rosso.
Il rosso delle bandiere e degli striscioni. Davanti a loro i negozzi abbassavano le saracinesche.
Erano i metalmeccanici di Torino !
Arrivavano da Mirafiori, ma anche da fuori città , riempivano strade e piazze.
Quello che Marx ed Engels più di un secolo prima, paventavano esortando i proletari di tutto il mondo alla lotta di classe non era più lo “spettro che si aggirava per l’Europa”.
Quello che allora poteva sembrare un fantasma aveva preso corpo.
L’oppressione concretizzata nel lavoro aveva generato la coscienza di classe.
Le idee socialiste si diffondevano e si radicavano nel mondo intero. Da Cuba arrivavano le immagini della vittoriosa rivoluzione di Fidel Castro. Dalla Piazza Rossa a Mosca, il 9 maggio, la parata per la Festa della Vittoria, tra fiumi di popolo e con i rappresentanti di mezzo mondo con il pugno chiuso sul mausoleo di Lenin.
Pur tra divergenze e divisioni, sembrava che il mondo stesse scegliendo la sua strada e nulla potesse fermare l’onda.
Era un sogno collettivo, un lasciarsi indietro altri spettri, quelli veri: secoli di imperialismo, di schiavitù di sofferenze.
“Io ho un sogno”, diceva Martin Luther King, ed in quel sogno molti abbiamo creduto.
Abbiamo creduto di poter cambiare il mondo.
Ma già con l’inizio degli anni ’80 le cose iniziavano a cambiare, ma in altro modo. Quella massa inarrestabile di lavoratori veniva poco a poco frantumata, divisa. La fabbrica trasformata. Gli automatismi, lentamente continuavano a sostituire l’uomo. L’organizzazione stessa del lavoro mutava, per annientare la forza di quella enorme massa di lavoratori.
Non potendo più aumentare il prezzo del prodotto, per far salire i profitti si abbattevano i costi.
Erano le prime crisi del capitalismo, che per creare profitto ai pochi, produceva più del necessario.
Iniziavano i licenziamenti collettivi. La cassa integrazione come primo strumento di nazionalizzazione delle perdite del capitale. 3
Quello che era un sogno collettivo lasciava il posto all’individualismo. Le inarrestabili sconfitte sindacali alimentavano un crescente disinteresse alla politica aprendo, ancora una volta, la strada alle destre, che con Berlusconi, Bossi e Fini dilagavano negli anni ’90.
Il socialismo tornava utopia e si scioglieva come neve al sole.
Esplodeva il desiderio di primeggiare sugli altri. “L’individuo artefice del suo destino” era il nuovo sogno. Rispolverati i vecchi concetti di meritocrazia, in fabbrica, mentre pochi invocavano la riduzione oraria per far fronte alla disoccupazione, esplodeva il lavoro straordinario, strumento per dividere i lavoratori.
“Se non puoi dare di più a me, almeno dai meno a lui”.
Una vecchia ricetta: “Impoverendo qualcuno hai dato l’illusione della ricchezza ad un altro”.
Lo stato, cedendo al ricatto degli industriali, continuava a nazionalizzare le perdite delle imprese avviando un processo inarrestabile di degrado sociale.
Per far fronte ai costi, i beni pubblici venivano progressivamentre privatizzati, svendendo le ricchezze del Paese. Lo stato sociale, considerato un costo inutile, ridotto in minimi termini.
Parallelamente la globalizzazione, consentiva la delocalizzazione delle produzioni più redditizie verso paesi con costi del lavoro più bassi.
Ma prima che la disoccupazione diventi problema di controllo sociale sarà avviato un ulteriore processo di trasformazione del lavoro.
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Senza un piano industriale ed investimenti adeguati per la ricerca, oggi l’unica cosa rimasta da fare è accettare la sconfitta, il crollo finale, per poi scavare tra le macerie e recuperare quelle poche cose che ti consentono di passare una “notte buia e fredda”, poi si vedrà.
Mirafiori, tradita da decenni di false promesse, non potendo produrre automobili pensa di produrre batterie. Mahle non potendo più produrre pistoni, perchè li fanno altrove, produce pezzi di plastica.
Iveco, leader mondiale nella prodizione di veicoli commerciali è sulla bancarella del mercato. Taranto si domanda se vale ancora la pena riconvertire gli impianti per produrre acciaio, quando l’acciaio si può acquistare da chi questi impianti li ha già riconvertiti.
E’ così per tutto e diventa arduo comprendere come oggi sia possibile ad un paese esportare batterie ed importare automobili.
Un unico punto è chiaro. Tutto questo non ha assolutamente futuro. Non serve a nulla.
Guardato il passato, come raffigurato nel marmo bianco di Carrara, affrontiamo questo incerto futuro.
Tra i tanti analiziamo un esempio di degrado industriale.
La Mahle, già Mondial Piston dal dopoguerra fino alla metà degli anni ’80.
Leader mondiale nella produzione di pistoni per motori endotermici.
Cessata attività per gli stabilimenti di La Loggia e Saluzzo nell’ ottobre 2019 con ricollocazione delle produzioni in Polonia e Turchia. Per 453 lavoratori è una tragedia.
Ad un anno dalla cessata attività tra illusioni, promesse e disillusioni, la situazione non è ancora chiusa.
Sin da inizio 2020, in seguito a risoluzioni incentivate proposte in modo individuale dall’azienda, i lavoratori assegnati ai due stabilimenti scendevano a 312, di cui 50, più prossimi al pensionamento, intenzionati alla risoluzione del contratto di lavoro come previsto dall’accordo sindacale.
I lavoratori che tra fine 2019 ed inizio 2020 hanno accettato la risoluzione del rapporto di lavoro proposto unilateralmente dall’azienda, hanno in parte trovato collocazione in lavori precari, a tempo determinato, ma 4
comunque indispensabili almeno per aver accesso alla naspi, non essendo questa garantita dal licenziamento volontario dalla Mahle.
Per questi lavoratori gli effetti della pandemia sono stati particolarmente devastanti in quanto hanno perso il lavoro dopo i pochi mesi previsti dal nuovo contratto a termine, con pochissime speranze di poter rietrare in fabbrica. Altri in parte utilizzando l’incentivo al licenziamento, in parte indebitandosi, hanno aperto un’attività in proprio, subito bloccata dai decreti emergenziali varati dal governo.
Durante l’estate un nuovo acquirente si è proposto per la reindustrializzazione dei due stabilimenti garantendo la piena occupazione della residua forza lavoro.
Il trasferimento della proprietà doveva essere ultimata nel mese di dicembre 2020, ma ad oggi non risulta ancora completata. La CIGS ottenuta al MiSE ad inizio 2020 per la durata di un anno ed in scadenza a febbraio 2021 è stata rinnovata solo in questi giorni per reindustrializzazione.
Una ventina di lavoratori sono stati trasferiti alla sede Mahle di Grugliasco e, con un futuro molto incerto, si occupano di gestire l’ attività residuale di logistica necessaria a garantire la fornitura degli stabilimenti italiani.
Poche unità sono in servizio presso lo stabilimento I.M.R. di Mondovì (sito piemontese della nuova proprietà) dove hanno impattato in una situazione ambientale a dir poco ostile, sia per i rapporti umani che si sono venuti a creare con i nuovi colleghi, sia per le condizioni di lavoro totalmente differenti da quelle presenti negli stabilimenti ex Mahle.
Va precisato che l’azienda subentrante opera nel settore materie plastiche e produce particolari in plastica, cruscotti, paraurti, ecc. per vetture e veicoli industriali. Ai lavoratori che hanno aderito alla reindustrializzazione, pur mantenedo per ora il contratto metalmeccanico, è stato azzerato il superminimo, ridotta di un livello la qualifica, bloccati gli scatti di anzianità, riassorbito il TFR. Il tutto dando origine ad una retribuzione inferiore di almeno un terzo rispetto a quella percepita da Mahle.
In aggiunta a questo molte figure professionali non presenti nella nuova organizzazione, non sono state integrate, con relativi demansionamenti e conseguenti ulteriori perdite economiche. Altri hanno dovuto accettare trasferimenti extra regionali per poter continuare a lavorare.
Al momento, salvo le poche unità in servizio a Mondovì, nessuno dei lavoratori ha trovato occupazione .
Per gli altri 50 lavoratori più vicini al pensionamento, dopo una lunga odissea, tra imbrogli e truffe in un contesto pandemico che non ha certo aiutato, si è aperta la naspi.
Una situazione tra tante, comunque rappresentativa di una pesante trasformazione del mondo del lavoro e della deindustrializzazione del territorio.
Purtroppo una trasformazione a cui gli stessi lavoratori non danno più alcuna importanza. Privati ormai di tutto quello che poteva farli sognare un futuro migliore si consegnano rassegnati al loro destino.
E’ davvero curioso scoprire come a volte qualcun altro, totalmente estraneo a queste banali necessità, al dover lavorare per mangiare, si rattristi anche lui, “animo gentile”, pur non avendo mai conosciuto queste sofferenze.
Ricorda un po’ quel pensiero di solidarietà, di vicinanza ad una razza in estinzione, che, anche se assolutamente falso, nasconde quel certo timore che questa imminente scomparsa possa nascondere un danno trasversale sconosciuto, un qualcosa che ti possa colpire in un imminente futuro.
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In questi giorni ricorre il centesimo anniversario della nascita del Partito Comunista d’ Italia.
Come è possibile reinterpretare e difendere il pensiero dei lavoratori di oggi ?
Di che cosa hanno bisogno questi lavoratori? Cosa si può fare per loro ? 5
Ragazze, ragazzi, giovani disoccupati, falsi occupati, nuovi schiavi che vagano invisibili nelle nostre città.
Hanno tanto bisogno di futuro, di sogni.
Ma hanno anche bisogno di un aiuto concreto.
Anestetizzati da decenni di liberismo selvaggio, rassegnati a subire sempre e comunque, non conoscono più alcun sentimento di ribellione, di conflittualità sociale.
Ci sono lavoratori che accettano per poco denaro un licenziamento, un mancato pagamento di spettanze contrattuali, ma anche condizioni di lavoro al limite della schiavitù, senza conoscere quei pochi diritti rimasti, senza oppore la minima resistenza.
Su questo il sindacato deve interrogarsi perchè non è privo di colpe.
Quando la cassiera del supermercato ti invita a passare alla cassa automatica “per fare prima”, o l’addetta ad uno sportello ti dice che questa operazione puoi farla da casa, devi dirgli con coraggio che non deve dire questo. Devi dirgli che sta sbagliando !
Molti di questi lavoratori si sono persi ed ora vagano, soli, senza meta, hanno bisogno di tanto aiuto.
E’ su questo che bisogna lavorare. Ritornare all’analisi critica dei nostri comportamenti. Comprendere i nostri errori per non diventarne ancora una volta vittime.
Cambiando prospettiva, evitando di osservare il mondo del lavoro sempre e solo con gli occhi del lavoratore, o comunque di chi ritiene imprescindibile il lavoro dalla vita dell’uomo. Si può tentare un’altra analisi.
Le attività umane sono state da sempre finalizzate ad un concetto di crescita. Tale concetto è trasversale ad ogni pensiero politico, ad ogni classe sociale, ad ogni condizione umana.
Il concetto risiede nel desiderio innato di avere di più. Di più da qualsiasi punto di vista: più denaro, più cibo, più beni di consumo, più auto, più “GIGA”, ma anche più beni immateriali come più potere, più libertà, più amicizie, e così via.
Pensiamo alla vita umana e alla stessa Terra che ci ospita in una condizione assolutamente finita nello spazio e nel tempo.
Nel mondo, così come lo conosciamo, esiste per tutto un inizio ed una fine, ed in questo perimetro non può trovare spazio nulla di infinito.
Come è possibile dunque crescere in modo infinito occupando uno spazio ed un tempo finito.
Non esiste altra risposta se non quella di ammetere che il concetto di crescità sia semplicemente un alibi per giustificare i privilegi degli uni sugli altri.
E’ dunque lecito pensare che questi “privilegiati” non possano essere chiamati i “fortunati” della Terra ma bensì gli “sfruttatori”.
Se domani decidessimo di non produrre più per creare profitto, ma per pura necessità. Di produrre solo quello che serve, che è realmente utile, e solo nelle quantità necessarie. Se decidessimo di non consumare risorse ma di riutilizzare le cose che abbiamo già costruito, di usare energie rinnovabili, di rispettare l’ambiente.
Se decidessimo di non crescere più.
Se decidessimo che da domani il nostro lavoro principale sarà quello di prenderci cura dei mari, dei fiumi, dei monti, dei laghi, di tutti gli animali e le piante che popolano questo pur finito, ma immenso pianeta.
Un sogno collettivo che non è più solo quello di strappare la produzione dalle mani dei padroni, ma quello di cambiare il concetto stesso di produzione, di fermare la crescita. Di portare la lotta su un altro terreno. Di tornare a sognare.
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Dover accettare una sconfitta è cosa difficile. Non ha sbagliato solo una classe politica, ma abbiamo fallito noi che su questa classe politica dovevamo vigilare, noi per primi abbiamo tradito, non abbiamo saputo resistere al consumismo, a quello che abbiamo sempre combattuto.
Abbiamo superato quel confine tra la vita reale e quella virtuale che si è impadronita del nostro pensiero, del nostro futuro.
Penso ora a vecchi compagni che, per eccesso di autocritica, si rimproveravano di aver sbagliato, di non aver compiuto adeguatamente il lavoro, di non aver seminato bene, come si dice qui in campagna.
Allora li ascoltavo e diventavo triste, ora credo che non è sempre così.
Come nell’orto un anno crescono bene i pomodori ed invece il raccolto delle melanzane è scadente, così accade per i fatti del mondo.
L’impegno, la costanza, la dedizione, non sempre producono i risultati attesi, a volte intervengono fattori diversi, estranei al nostro agire. A volte succede che quel seme riposto con cura nella terra, innafiato e curato con amore non voglia dare i sui frutti, forse solo per pigrizia o forse perché vuole rimanere estraneo a questo mondo.
Ma non perché il raccolto non ha dato i frutti che speravamo, all’arrivo della prossima primavera, non semineremo più.
Anzi, lo faremo.
Lo faremo meglio !
Durante il freddo e lungo inverno ci siederemo vicino al camino e parleremo con gli altri contadini per capire come fare meglio. E tutti insieme prepareremo il terreno per la futura semina con rinnovato entusiasmo,
ed avremo quel buon raccolto che avevamo da sempre sognato,
sarà un bellissimo giorno
e soffierà forte il vento.
Claudio Falchero