GIOVANNI ORCEL E LA PRIMA ALLEANZA CITTA’-CAMPAGNA NELLA STORIA ITALIANA. UN CENTENARIO

GIOVANNI ORCEL E LA PRIMA ALLEANZA CITTA’-CAMPAGNA NELLA STORIA ITALIANA. UN CENTENARIO

di Giuseppe Carlo Marino*

Cento anni fa, il 15 ottobre 1920, per una ferita di arma da taglio infertagli alle spalle, fu ucciso a Palermo il sindacalista Giovanni Orcel, Segretario locale della Fiom, dirigente della Camera del Lavoro. L’iniziativa commemorativa promossa dalla Cgil e dall’Anpi si è realizzata solo parzialmente, con una cerimonia simile a un funerale, per le limitazioni imposte dall’emergenza pandemica; ma ne stato diffuso un comunicato ufficiale nel quale la responsabilità dell’assassinio viene genericamente attribuita alla “violenza fascista”, mentre è vero che dal fascismo, a quella data, la Sicilia aveva ancora ben poco da temere perché al massimo se ne aveva un’appena confusa conoscenza, e non proprio di un qualche dilagante fenomeno in corso, ma soltanto di un lontano evento milanese di cui i pochissimi che lo presero in considerazione (i vecchi sorelliani e i sindacalisti rivoluzionari del poeta Vito Marcadante) con il proposito di fondare un “fascio” anche a Palermo apprezzavano soprattutto il carattere di un’eresia, tra il patriottico e il rivoluzionario, del socialismo ufficiale.
E’ vero, invece, che l’assassinio è da attribuirsi a quel protagonista reale e ben radicato nella società e nella politica dell’isola, che era già allora la mafia. Per la corretta spiegazione del caso, di “violenza mafiosa” si deve pertanto parlare. Ne ebbe confusa intuizione (e invero non era di per sé una difficile intuizione) l’Avanti che parlò di “delitto della borghesia”, certo con la genericità del linguaggio tutto ideologico di quel socialismo d’epoca, ma che in terra siciliana non avrebbe potuto avere un senso concreto se non precisando che di “borghesia mafiosa” dovesse necessariamente parlarsi, poiché non altra era la vera natura del dominio di classe che per decenni aveva fatto capo al potere della grande famiglia imprenditoriale dei Florio e che politicamente si esprimeva in un “partito liberale” (articolato elettoralmente sul territorio in una selva di “partiti personali” e di diramazioni massoniche talvolta determinate a dirsi persino  “democratiche”) che aveva annoverato, appunto, un “liberale” dalla caratura dell’ onorevole Vito Palizzolo (noto mandante del delitto Norabartolo e poi co-fondatore della Mano nera negli Usa) e che si pregiava del prestigio nazionale di Vittorio Emanuele Orlando, il presidente della Vittoria che da lì a qualche tempo non si sarebbe fatto scrupolo persino di dichiarare pubblicamente di essere “fieramente mafioso”.
C’è da aggiungere che l’Avanti non avrebbe che potuto tacere dello stato di subalternità delle componenti locali del sindacato, della Camera del lavoro e del partito, e persino della loro complicità, nei confronti di quella “borghesia mafiosa”, per gli effetti di una lunga pratica opportunistica all’ombra del potere dei Florio. Tale potere aveva avuto modo di esercitarsi nella stessa area del cosiddetto “socialismo riformista” (rappresentato da “socialisti” della pasta di Alessandro Tasca principe di Cutò) e si era consolidato sia nelle clientele “liberali” di Vittorio Emanuele Orlando che in quelle “democratiche” di Andrea Finocchiaro-Aprile. Era quello, qui sommariamente descritto, il mondo politico-sociale nel quale fu ucciso Orcel, il coraggioso oppositore di tale mondo, tanto provinciale e periferico, quanto incisivo sulla storia nazionale come importante capitolo del nostro Sud. 
Ma in che cosa consisteva la sua pericolosa opposizione e perché era diventato opportuno, e forse necessario, per i suoi avversari ucciderlo? Per una risposta a questa domanda occorre guardare molto al di là della Sicilia, all’intera storia nazionale del periodo. Il delitto, infatti, fu compiuto nelle giornate finali di quella singolare e confusa vicenda di mobilitazione di massa del movimento operaio nel “biennio rosso” conclusasi nella precaria pacificazione tra padronato e forze sindacali conseguita dal vecchio  Giolitti ritornato al governo e ancora capace di far uso delle sue sperimentate pratiche mediatrici, una vicenda il cui culmine si era raggiunto nei mesi precedenti – dopo le agitazioni e lo sciopero generale dell’aprile (di cui gli “ordinovisti” guidati da Gramsci avevano assunto la direzione in Piemonte) – nell’occupazione delle fabbriche metallurgiche e poi di quasi tutte le altre (agosto-ottobre 1920) sotto la direzione incerta e confusionaria della Fiom di Bruno Buozzi.

Gli ordinovisti torinesi, con Gramsci alla direzione del movimento, avevano ravvisato nella dinamica dei fatti le condizioni per un’azione insurrezionale che, per avere successo, avrebbe richiesto azioni decisive di attacco alle strutture politiche ed economiche del potere e la formazione in battaglia di un fronte unito operai-contadini (ovvero, quell’alleanza tra “città” e “campagna” disegnata allora dalla strategia gramsciana) che non si realizzarono per le carenze di coraggio e di ideazione strategica, nonché per le contraddizioni irrisolte sia della direzione politica che di quella sindacale della Sinistra in sede nazionale: Il partito, il Psi, uscito dal recente Congresso di Bologna (5-8 ottobre 1919) con una maggioranza
“massimalista” stretta intorno a Giacinto Serrati, lanciava infuocati messaggi “rivoluzionari” e incitava a lotte risolutive che poi si mostrava del tutto incapace di avviare ad azioni concrete e meno ancora di guidare verso l’insurrezione; piuttosto, di fatto, stava consegnando le sorti delle masse operaie impegnate nelle fabbriche occupate (che stavano impressionando persino i padroni per le loro capacità di autogestione degli impianti!) all’inconsistente ed opportunistica azione sindacale della Confederazione del lavoro ( CGdL) che era allora totalmente nelle mani di una maggioranza di “riformisti”, diretti da Ludovico D’Aragona, per i quali il tutto avrebbe dovuto restringersi e risolversi (come poi davvero si risolse) in una mera questione di orari e di miglioramenti salariali. La Fiom, a sua volta, stretta nella morsa della CGdL cui afferiva, non fu in grado di gestire il fuoco rivoluzionario (tenuto vanamente vivo nel partito dai pur generosi ma impotenti incitamenti di Giacinto Serrati) che essa stessa aveva acceso e largamente se ne ritrasse, sicché quando alla fine Giolitti riuscì nell’intento di ripristinare l’”ordine” con la sua astuta mediazione, furono soprattutto gli operai metallurgici ad avvertire la frustrazione di una “rivoluzione mancata”.
Ora, tra questi operai usciti spossati e delusi da una lotta fallimentare, c’era in Sicilia Giovanni Orcel e non solo, perché era il segretario della Fiom a Palermo, ma anche perché aveva organizzato e diretto l’occupazione della principale e azienda metallurgica della città, cioè il Cantiere navale che era la più
imponente tra le realizzazioni con rilevante impiego di maestranze (oltre 1800 operai) della lunga esperienza imprenditoriale dei Florio. Fu lui a condurre a Napoli, per conto del Sindacato – sulla base del Memoriale-FIOM contro le “gabbie salariali” che condannavano i metallurgici siciliani a retribuzioni inferiori a quelle dei loro compagni del Settentrione e che era valso da piattaforma dell’agitazione già iniziata nel marzo dell’anno precedente – le trattative con la dirigenza aziendale del Cantiere, pur nella condizione di dovere accondiscendere a quanto convenutosi a livello nazionale in un accordo tra la CGdL e il padronato industriale che sanciva alcuni modesti aumenti salariali e il riconoscimento formale del Consigli di fabbrica (ma tutt’altro che quelli immaginati da Gramsci come possibili “soviet” italiani!) e non ripagava affatto il movimento dei sacrifici sopportati, in oltre due mesi, con l’inedita impresa dell’occupazione delle fabbriche. Orcel reagì al colpo come gli fu possibile, tentando un’ingenua resistenza: a caldo, tentò persino di ritardare la diffusione della notizia del compromesso tra gli operai; poi, manifestò il suo aperto dissenso rifiutandosi di organizzare al Cantiere e nelle altre fabbriche palermitane il referendum indetto dalla Segreteria nazionale della Fiom per la ratifica del “concordato”; riuscì persino a convincere le maestranze del Cantiere a non smobilitare almeno per convincere i padroni al “pagamento delle giornate di lavoro fatte durante l’occupazione e in base alla produzione reale”. Ma la sconfitta gli fece esplodere dinanzi il vaso nel quale erano stati compressi, durante il corso entusiasmante della lotta, i “veleni” interni al Sindacato. La sua stessa autorevolezza di leader stava per essere travolta. I “riformisti” della CGdL (in prima linea i più subalterni al padronato, quali gli agitatori Raimondi, Prestigiacomo e Portera) insufflavano la discordia e disgregavano le residue forze operaie ancora disponibili , il giorno 29 settembre, l’ultimo dell’occupazione del Cantiere, per la prosecuzione della lotta. Conseguentemente l’agitazione – come chi qui scrive ha documentato nel libro nel quale sia la biografia di Orcel che l’intera esperienza politico-sociale di quegli anni è stata per la prima volta sottratta a un lungo oscuramento (Partiti e lotta di classe in Sicilia da Orlando a Mussolini, Bari, De Donato, 1976) – «si trasformò in rissa; l’affannosa ricerca di capri espiatori per la sconfitta annientò la “fraternità di classe”; nel caos di riunioni improvvisate tra i capannoni, montò l’affanno di precostituire – fuori del Sindacato e magari contro di esso – alibi personali a salvaguardia del posto di lavoro di fronte alle prevedibili ritorsioni padronali: il fronte unico delle prime giornate degenerò in un tumulto di voci acrimoniose e la necessità di racimolare mezzi di sussistenza, ad integrazione dei magri e radi sussidi del “soccorso rosso”, fu più forte dell’imperativo di difendere il prestigio dell’iniziativa operaia e provocò persino un indecoroso tentativo di requisizione dei beni privati del direttore generale, sotto gli occhi di un imboscato della “squadra politica” della Questura».

Nonostante il peso (al quale era condannato dal suo stesso ruolo di dirigente sindacale) di aver dovuto alla
fine firmare il deludente accordo con la controparte padronale imposto in sede nazionale dalla Fiom, Giovanni Orcel, ben più come politico che come sindacalista, aveva da vantare sia il conseguimento di un’avveniristica coscienza ideologica della sua militanza nel Psi, sia gli esiti di un altrettanto avveniristico impegno di lavoro organizzativo nelle masse del proletariato siciliano. La coscienza ideologica alla quale qui ci si riferisce è quella che gli veniva da una precoce acquisizione (insieme a compagni quali Giuseppe Berti, Salvatore Filiberto, Oreste Gargalini, Francesco Guarrata e la “pasionaria” Maria Giudice, provenienti dalla corrente “massimalista” del Psi) dell’intera lezione leninista della “rivoluzione d’ottobre” che ne faceva già all’indomani della guerra mondiale un comunista prima ancora della fondazione ufficiale di un partito comunista e che lo aveva guidato nel dettare, insieme al Berti, la linea dell’organo di stampa, La Dittatura proletaria, della corrente in Sicilia.
Nel contempo, l’avveniristico lavoro organizzativo che gli va accreditato è la tenace azione svolta nel “biennio rosso” per saldare in un comune fronte strategico l’avanguardia operaia urbana con le masse contadine in lotta per la riforma agraria (nell’immediato, per l’applicazione dei decreti sulle “terre incolte o mal coltivate” varati dopo la grande guerra dal governo Nitti) che avevano occupato i latifondi, un 
movimento di cui era il più abile ed autorevole rappresentante e la guida nell’entroterra palermitano il colto contadino socialista (anche lui, a suo modo, un proto-comunista) Nicola Alongi, sul filo di una memoria, ancora non del tutto spenta, dell’originale esperienza dei Fasci dei lavoratori di fine Ottocento.
Orcel e Alongi furono saldamente insieme, finché resistettero entrambi in vita, nel fuoco del “biennio rosso”; insieme si erano mossi nello scenario pubblico delle lotte e non soltanto per contingenti istanze di reciproco solidarismo ; insieme avevano fatto confluire contadini in città a sostegno delle rivendicazioni operaie e operai nelle campagne a sostegno delle rivendicazioni contadine; insieme era pervenuti alla consapevolezza dell’importanza decisiva, per una svolta di tipo rivoluzionario, insieme perseguita, dell’alleanza operai-contadini, realizzata da Lenin con la rivoluzione russa e invocata in Italia da Antonio Gramsci.
Come si legge nel libro sopra citato, «era stato Orcel ad organizzare nei locali del Circolo operaio, il 10 ottobre 1919, il comizio cittadino “per tener viva l’agitazione dei contadini in Sicilia”; era stato Orcel ad organizzare successivamente, nello stesso circolo, un altro comizio dal quale sortì l’effetto di una convinta adesione della base della Federazione dei metallurgici alle ragioni e alle finalità degli scioperi agricoli; furono i metallurgici, ancora sotto la spinta di Orcel, a divulgare nelle piazze di Palermo la tesi secondo la quale i contadini avrebbero dovuto condurre la loro lotta fino all”esproprio dei terreni”; mentre i capi riformisti Drago e Raja nelle piazze dei Comuni rurali invitavano i contadini a riprendere disciplinatamente il lavoro nelle campagne».

Per dirla in breve, Alongi ed Orcel, Orcel ed Alongi a pari titolo, erano diventati gli avversari più fastidiosi, all’interno del Psi e dello stesso Sindacato, dei cosiddetti “riformisti” (da decenni, nella Camera del lavoro di Palermo, opportunisti dediti a subalterni rapporti con il padronato e in specie per lunghi anni , come si è già ricordato, con i Florio); e nel contempo erano diventati i nemici più pericolosi e dichiarati tanto dei “padroni” dell’imprenditoria industriale e dei loro rispettivi referenti politici, quanto dei latifondisti (e della loro principale risorsa di potere nei latifondi costituita dagli affittuari parassitari, ovvero, dai cosiddetti gabelloti), minacciati nei loro interessi dalle lotte contadine per la riforma agraria . Gli interessi delle due parti padronali già si stavano saldando in un fronte comune di autodifesa la cui forza (un’astuta forza di condizionamento politico e non di rado quasi un’impropria “forza militare”) era la mafia. E la mafia, infatti, non tardò a colpire, scegliendo quelli che dal suo punto di vista erano i bersagli giusti.
Il 29 febbraio 1920 fu assassinato a Prizzi, un paese montano del Palermitano a pochi chilometri da Corleone, Nicola Alongi. Pochi mesi dopo, come già sappiamo, la medesima sorte toccò ad Orcel che aveva appena provveduto ad onorare pubblicamente il compagno Alongi battezzando con il suo nome una nave che i metallurgici erano riusciti a costruire nel Cantiere in regime di occupazione proletaria. Nessuna
inchiesta e nessun procedimento penale avrebbero poi svelato i mandanti dei due assassinii (neanche i loro
autori materiali), così come suole accadere, quasi sempre, per i delitti di mafia. Ma le finalità che ne stavano alle loro origini sono chiarissime e indiscutibili: eliminando Alongi ed Orcel il fronte politico-mafioso decapitò il nascente fronte rivoluzionario (un fronte già di per sé comunista ante litteram) di quella che può senz’altro indicarsi come la prima organica “alleanza tra città e campagna” della storia d’Italia, l’”alleanza” invano ricercata da Antonio Gramsci nell’Italia del Nord, dove ancora stentava a manifestarsi soprattutto per l’immaturità politica del mondo delle campagne.
Per quanto si fosse risolta in una sconfitta (un’ennesima sconfitta dopo quella subita dalle forze popolari in
Sicilia ,trent’anni prima, dall’imponente movimento dei Fasci dei lavoratori) , fu quella una grande storia regionale che avrebbe potuto incidere, con effetti certi anche se imponderabili, sull’intera storia nazionale, sempre che – com’è ovvio – non fosse poi sventuratamente intervenuto, ancora una volta dal Nord, il fascismo a sopraffarla e ad occuparla. Ma, va detto, fu destinata a diventare per decenni e decenni una storia ignorata, sia per carenza di memoria civile dei testimoni, sia per le conseguenze di una certa memoria “nordista” incline a relegare gli avvenimenti del Sud nell’insignificanza e nell’arretratezza. Si pensi che Angelo Tasca, allora collaboratore di Gramsci e prossimo dirigente comunista – che aveva individuato, scrivendone su L’Ordine Nuovo, un promettente legame fra alcune occupazioni di terre nel Bolognese e il movimento che si batteva per i Consigli di fabbrica – non ebbe sentore del processo in corso, di organica alleanza città-campagna, che si stava sviluppando, per la prima volta, in Sicilia. E gli stessi fatti relativi all’occupazione delle fabbriche da parte degli operai siciliani e il ricordo di Orcel e di Alongi sarebbero caduti nel dimenticatoio prima ancora che qualcuno a quei fatti potesse riconoscere una qualche
importanza anche per la storia specifica del movimento operaio in Italia.
Ben venga adesso un’occasione centenaria: per uno strano e paradossale gioco del tempo, i cento anni trascorsi dal suo sacrificio sembra che siano il prezzo che Giovanni Orcel ha dovuto pagare per un pieno riscatto della sua gloriosa vicenda da un ingiusto oblio. E c’è da sperare che questo riscatto non sia vano per il futuro.

* GIUSEPPE CARLO MARINO, già ordinario di Storia Contemporanea nell’Università di Palermo è autore – oltre che di varie opere sulla storia del potere e sulla società in Italia (nell’età della “prima repubblica”, e specificamente sulle dinamiche della politica nazionale, sul Pci e sul movimento operaio,sugli intellettuali e il fascismo, sul Sessantotto, sulle generazioni politiche e sul fenomeno mafioso) – del libro “Partiti e lotta di classe in Sicilia. Da Orlando a Mussolini” (Bari, De Donato, 1976) che per primo ha riscoperto e riproposto all’attenzione il “caso Orcel” nel quadro delle lotte politico-sociali del Mezzogiorno. 


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