Aldo Tortorella: A trent’anni dal crollo del muro di Berlino. La fine della sinistra, la crisi del capitalismo e l’esigenza di un nuovo socialismo

Aldo Tortorella: A trent’anni dal crollo del muro di Berlino. La fine della sinistra, la crisi del capitalismo e l’esigenza di un nuovo socialismo

Pubblichiamo il testo della relazione introduttiva del compagno Aldo Tortorella al convegno “A trent’anni dal crollo del muro di Berlino. La fine della sinistra, la crisi del capitalismo e l’esigenza di un nuovo socialismo”, organizzato a Roma dall’associazione Futura Umanità lo scorso 7 febbraio. 

Lo scopo di questo incontro è riassunto dal titolo che indica come oggetto di “analisi  e di confronto” un periodo storico – “a trent’anni dalla caduta del muro di Berlino” – due affermazioni – “la fine della sinistra e la crisi del capitalismo” – e un auspicio, quello di “un nuovo socialismo”. Intorno a questa materia concettuale tanto coraggiosamente estesa, c’è ormai, come si sa, una letteratura molto vasta, difficile o impossibile da maneggiare tutta, sicchè si può capire bene l’esitazione ad accogliere la cortese sollecitazione del compagno Ciofi ad una introduzione. Ma, avendolo accettato, si può incominciare interrogandosi su parole del titolo che paiono aver perso significato. A partire dalla parola “sinistra”.

Parola che, riferendosi a chi siede a sinistra del presidente nelle aule della rappresentanza, da che e finchè una rappresentanza esiste indica un luogo che sarà sempre occupato fisicamente da qualcuno, generando la denominazione di forze politiche storicamente, e cioè a seconda del tempo e della comunità statale cui partecipavano, molto diverse tra loro per valori morali e per sollecitazioni materiali, cioè economiche. La grande ampiezza di queste motivazioni, dal giacobinismo alla destra socialdemocratica, rende complicato affermare una volta per tutte ciò che abbia da essere una forza di sinistra. Si può dire senz’altro, però, che la sua prima origine sia in un insieme di valori – la giustizia sociale, la libertà, l’eguaglianza, la fraternità come solidarietà operativa- visti dalla parte delle classi subalterne e che si incontrano con i loro bisogni e con il loro moto spontaneo. Un desiderio di miglioramento civile e morale   senza gli oppressi finisce come la repubblica napoletana del ‘99, come già fu spiegato da un protagonista sopravvissuto (il grande Vincenzo Cuoco). Ma gli oppressi e gli sfruttati privi degli strumenti ideali per la propria liberazione non possono che essere sconfitti o ritornare plebe. 

 Credo che, da parte della sinistra politica non solo italiana, sia stato un errore ignorare l’esigenza di tenere ben presenti queste due esigenze di identificazione, quella materiale e quella ideale, e, anzi, di eluderle entrambe. Non è stato così per le classi dominanti. La nota proposizione della Thatcher “la società non esiste, esistono individui, famiglie, uomini e donne” implica una concezione etica e un programma economico e deriva da una lunga tradizione di pensiero che ha seguito e accompagnato l’affermarsi del capitalismo. Il medesimo Trump dell’“America first”, com’è evidente, è portatore e altoparlante di una ideologia la cui  compattezza non è minore della sua talora disgustosa grossolanità. 

Più nobilmente, all’inizio del secolo passato, la teorizzazione del rapporto tra etica   protestante e spirito del capitalismo, per quante contestazioni siano state fatte a quel saggio famoso (di Max Weber), richiamò l’attenzione sull’intreccio tra due sfere già messe in relazione dai due giovani autori del Manifesto del comunismo nel chiarire l’etica nuova espressa dalla centralità del profitto. Una relazione che Gramsci approfondirà in contrasto con la vulgata del tempo suo per convincere coloro che lo avrebbero letto, a partire dai suoi compagni, della necessità di impegnarsi su entrambi i fronti, cosa che avvenne per un certo tempo nel suo partito anche se con limiti ed errori. Errori su cui riflettere ancora oggi dato che il ripudio del passato in luogo del suo esame critico, lascia nudo chi lo compie, senza identità e senza avvenire, come si è visto in una ridda di autonegazioni senza fine del proprio nome e del proprio essere, e impedisce di capire con esattezza dove si è veramente sbagliato, ripetendo gli errori.

 

Lo sfondamento da destra e la vittoria planetaria del modello capitalistico, sia pure in varietà di regimi politici, è stata ovviamente determinata  dal suo innegabile successo quantitativo nella produzione di merci di cui era difficile vedere le conseguenze negative (nella distribuzione della ricchezza e nella distruzione dell’ambiente naturale) per effetto di una campagna ideologica di grande efficacia perché essa interveniva sulle sclerosi  del pensiero e sulle tragedie della sinistra novecentesca. E anche perché si accompagnava a presunte evidenze logiche bene espresse dal motto (di Deng Xiaoping) “non importa se il gatto è rosso o nero, l’importante è che prenda il topo”, motto contadino auto-evidente che, però omette di dire che ci vorrebbe un gatto di strepitosa cultura per non mangiarsi un topo avvelenato.

L’efficacia di quella campagna ideologica derivava anche da un retroterra culturale molto aggiornato dato che, come ci spiegano i docenti della materia, non mancano, anzi abbondano i testi contemporanei che, sottolineano il significato morale a loro giudizio positivo sia dell’individualismo proprietario, sia di determinati fondamenti etici nelle relazioni su cui si fonda il capitalismo anche di autori di orientamenti diversi (come, ad esempio, il rapporto di fiducia che presiede alle relazioni finanziarie, secondo Amartya Senn, oppure il valore vitale dell’emergere del più forte come in Robert Nozick, polemico contro una teoria della giustizia, pure assai prudente, come quella del concittadino statunitense Rawls). Un retroterra notevole a prescindere dagli sforzi fatti consapevolmente dallo stato guida, cioè dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, per sorreggere e divulgare la propria ideologia di sostegno, i propri intellettuali organici, i propri prodotti culturali.

Pensare che dopo il crollo della esperienza sovietica potesse esistere una sinistra senza una ridefinizione della propria essenza, se così posso dire, cioè senza un ridefinizione dei propri valori e della propria concezione della struttura economica, non poteva che essere esiziale. Ciò non riguardava solo il movimento comunista terzinternazionalista a lungo convinto, anche qui da noi, che il socialismo si fosse già stabilmente avviato nella pur terribile e tragica esperienza del primo stato che aveva soppresso radicalmente la proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio. Il bisogno di una propria ridefinizione riguardava anche quelle parti del movimento comunista che quella esperienza avevano respinto o combattuto in nome della democrazia, come da un certo momento in poi accadde anche al partito italiano, ma senza portare a termine un riesame di se stesso, tentato dall’ultimo Berlinguer, dinnanzi alle modificazioni nel capitalismo, in qualche misura previste alla lontana da Marx, e avvenute sotto la spinta dell’avanzamento della scienza e della tecnologia.

Ma la interpretazione, data dalla maggioranza della sinistra del tempo di un tale bisogno di auto riforma, fu disastrosa. Di fronte allo sconvolgimento planetario di quel crollo e alla vittoria di un capitalismo lontano  e opposto a Keynes, guidato dal neoliberismo della restaurazione conservatrice reaganiana,  parve ai più anche nel movimento socialista, che pure poteva vantare la sua fede democratica, che il riesame di se stessi e del proprio esserci dovesse significare una piena adesione al modello vincente e il ripudio di quanto nel proprio passato potesse ricordare una qualche somiglianza con il mondo sconfitto. Il “new labour” di  Blair e la SPD come “neue mitte”, nuovo centro,  di Schroeder ne furono il frutto mentre, qui da noi, il partito socialista scompariva a causa di una simile precedente involuzione e il partito comunista, ancora maggioritario a sinistra, compiva la sua abiura, la sua metamorfosi e la sua scissione, anziché discernere tra errori e meriti nel proprio impianto fondativo e nelle proprie politiche. Si affermava la piena e acritica adesione non solo alla società data e ai suoi valori ma alla stessa gestione nei liberista dell’economia. Prevaleva la linea della governabilità su quella della rappresentanza delle classi lavoratrici. L’accesso al governo diveniva un valore in se stesso, come fine e non come mezzo per attuare un programma serio nell’interesse del paese, e cioè innanzitutto delle classi subalterne. Le conseguenze pesanti di questa linea per molta parte delle classi lavoratrici in occidente e per tanti popoli travolti dalle guerre neocoloniali si videro particolarmente con la crisi del 2007-2008.

 Non deve stupire, però, che quel che rimane seduto sugli scranni di sinistra del nostro parlamento sia prevalentemente espressione di quel cedimento a tendenze moderate o persino ultra moderate. O addirittura destrorse, come si è visto nella nuova scissione del partito democratico operata dal suo inverosimile ex capo, quello che sostituiva lo scontro con il sindacato dei lavoratori alla spinta egualitaria, e tramutava la lotta per l’attuazione della Costituzione nel suo contrario. Non deve stupire perché l’adesione acritica alle compatibilità date e ai valori vincenti ha portato ad un relativo mutamento di base sociale: se rimanevano o arrivavano settori di ceto medio e popolari gran parte dei settori più disagiati delle classi subalterne si è sentita ed è stata abbandonata offrendosi alle paure fomentate da destra e ad una sorta di contraffatto linguaggio di classe (il popolo contro l’elite). Né potevano aver presa settori detti alternativi ma sostanzialmente nostalgici sia pure di tradizioni diverse.

Molto tempo è stato perduto. Uno che fu dirigente autorevole del PD e presidente del consiglio ha detto che la sinistra (la sua) ha dimenticato di criticare il capitalismo. Meglio tardi che mai per l’autocritica. Ma bisogna anche interrogarsi su quale critica sia oggi necessaria. Non basta constatare che il capitalismo ha generato, com’è nella sua natura, un abisso tra i ricchi e i poveri a livello dei singoli stati e entro di essi e che l’idea dello sviluppo infinito su cui il capitalismo si sorregge ha determinato una devastazione dell’ambiente tale da far temere per il destino della specie. Contemporaneamente esso si è appropriato di quello che Marx chiamava il cervello sociale, cioè il sapere scientifico e tecnologico, usandolo allo scopo del profitto e della sua medesima perpetuazione. Il capitalismo delle piattaforme informatiche non è la medesima cosa di quello dell’industria seriale che pure sopravvive e sfrutta nei paesi emergenti una classe operaia mai così vasta nel mondo come oggi. Mentre nelle metropoli il terziario è diventato ultra maggioritario e la comunanza dei lavoratori diventa più difficile che mai per le diversità, la precarietà, lo sminuzzamento delle competenze. Lo sfruttamento è più vero di prima ma si fa più arduo comprenderlo per organizzare una risposta solidale.

E bisogna chiedersi se basta la difesa pur necessaria dello stato sociale, invenzione originata   dal bisogno di pace sociale del conservatorismo illuminato e legata alla prosperità e dunque in crisi quando il ciclo economico capitalistico va in declino. Una sinistra ha bisogno di verità. Non si può lottare per una nuova politica economica qui ed ora senza chiedersi quale sia il margine di oscillazione entro cui è possibile operare a livello nazionale nel tempo presente, all’interno di un mercato globale dominato dal capitale finanziario e all’interno di una associazione sovranazionale come quella europea dominata dal paese più forte in cui la costruzione unitaria non è diventata autonomia internazionale in modo che si è instaurata la doppia fedeltà, alla comunità e all’impero. E’ ovvio che una aggregazione europea autonoma corrisponde ad una necessità storica a garanzia di pace, ma è stato un errore abbandonare la bandiera della nazione ai supposti sovranisti pronti a prostrarsi al paese guida: come ha mostrato il capo leghista applaudendo il Trump del drone assassino e così andando oltre il pur vergognoso silenzio dei governanti europei.

Il tempo si è fatto così buio che siamo arrivati  alla vergogna della risoluzione del parlamento europeo che per compiacere i più reazionari dei regimi dell’est cambia la storia  e mette i nazisti, che generarono una guerra spaventosa, decine di milioni di morti, il genocidio degli ebrei e dei rom, delitti e distruzioni immani, sullo stesso piano dell’Unione Sovietica, che, per quanto aspre siano le critiche da fare ai suoi dirigenti, ha contribuito in modo determinante a salvare l’Europa e il mondo dalla barbarie. Riappropriarsi della memoria storica delle grandi lotte del passato del movimento operaio e dei suoi partiti è essenziale, non per riprodurle come furono, non per giustificare gli errori, ma per ricordare che sono anche quelle lotte che hanno fatto progredire il mondo e la democrazia. Bisognerebbe alzare con orgoglio la testa per tutto ciò che di buono è stato fatto.

Il pericolo è grande ma anche le forze di movimenti alternativi sono numerose e forti. Il nuovo femminismo non è più un movimento d’elite, al contrario è stato ed è uno dei più potenti negli stessi Stati Uniti. Il movimento ecologista se da noi è fragile è grande in Europa. I   sindacati dei lavoratori paiono ritrovare una nuova unità. La rabbia degli esclusi è grande. Il movimento antimafia mobilita ancora tanti giovani. Ma il mondo dei movimenti e della proposta alternativa è sommamente diviso. Riscoprire e rimotivare la necessità dell’unione senza pretese di priorità dovrebbe essere il primo problema.

 Noi siamo confortati oggi dal fatto che la parola socialismo e i valori socialisti fino ad ieri totalmente tabù nel paese guida dell’impero hanno ritrovato cittadinanza laggiù per merito di un vecchio compagno socialista, Sanders, e ora per un giovane che, oltre a tutte le sue qualità,   noi sentiamo vicino anche come figlio di Buttigieg, presidente della International Gramsci society da non molto scomparso, caro amico e compagno di sentimenti. Sentiamo che in molti paesi gli sfruttati scendono in lotte spontanee. E assistiamo al fatto inaudito che una ragazzina tiene testa al più potente e arrogante uomo del mondo, dicendo la verità sulla rovina ambientale.

Qui da noi è stato detto dal governatore emiliano vincente che le sardine hanno ricordato alla sinistra la necessità di scendere in piazza. Non hanno ricordato solo questo. Quei giovani iniziatori del movimento hanno chiamato a scendere in piazza perché sentivano offesi dei valori comuni e per ricordarli a tutti. La correttezza istituzionale, spregiata da un ex ministro dell’interno e dalla sua coorte. L’esclusione della violenza fisica e verbale dal dibattito politico. Il rifiuto della riduzione a slogan semplicistici di problemi complessi. Il valore della   Costituzione italiana, una Costituzione che è un lascito grande dell’antifascismo e della resistenza e indica misure neglette o abbandonate che sono, invece, da attuare. Una Costituzione che contiene principi di tipo socialistico, innanzitutto quello dell’uguaglianza sostanziale e non solo formale. E alla fine da quelle piazze si levava il canto dei partigiani. Sono questi sentimenti e questi valori che dovrebbero essere realmente vissuti da chi vuol chiedere la rappresentanza popolare e vuol proporsi di ripensare una sinistra. Unitamente alla consapevolezza del tempo nuovo creato dal sapere, delle nuove aspre difficoltà ma anche delle nuove possibilità per una volontà trasformatrice.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Sostieni il Partito con una



 
Appuntamenti

PRIVACY







o tramite bonifico sul cc intestato al PRC-SE al seguente IBAN: IT74E0501803200000011715208 presso Banca Etica.