Socialismo, Costituzione: riappropriamoci delle parole

Socialismo, Costituzione: riappropriamoci delle parole

di Paolo Ciofi*

Socialismo, Costituzione: riappropriamoci delle parole*

Universalità e diversità dei socialismi. La conquista storica della Costituzione italiana

 

I

«Quando l’economia è ridotta a un casinò vuol dire che le cose non vanno affatto bene» sosteneva Keynes. Il capitalismo nelle cui mani siamo finiti – aggiungeva – «non è bello, non è giusto, non è virtuoso – e non fornisce alcun bene». Una profezia che si è avverata. Dopo il crollo del muro di Berlino, la globalizzazione capitalista ha generato un mondo instabile e pericoloso, percorso da disuguaglianze insostenibili, e da un’insostenibile condizione umana e climatico-ambientale. A rischio è l’esistenza stessa del pianeta, nel degrado della politica e della democrazia, pur in presenza di una rivoluzione scientifica e tecnica che consentirebbe con il lavoro digitale di salvaguardare la natura, conquistando condizioni di vita più elevate per tutte e tutti.

Sono noti i dati diffusi da Oxfam, che descrivono la sconcertante concentrazione della ricchezza e della proprietà a fronte della crescente diffusione della povertà, in Italia e nel mondo. La realtà è talmente dura che dagli stessi portavoce più accorti del capitale si levano significative voci critiche. Da più parti il capitalismo è in discussione come accertano anche numerose ricerche. In Italia, invece, il tema è tabù. Fa una certa impressione sentir dire da esponenti del Pd il che il problema è salvare il capitalismo. Non ripensare il socialismo, non salvarci dal capitalismo ma salvare il capitalismo. Proprio così, quando riaffiora la parola socialismo, in particolare nel mondo anglosassone dopo le controverse vicende del socialismo in America Latina.

Non si tratta soltanto di innovative ricerche culturali, come il manifesto Un femminismo per il 99%, secondo il quale femminismo vuol dire rovesciare il potere delle corporation, non dare loro un volto femminile. O, per citare un altro esempio, il Manifesto socialista per il XXI secolo di Bhaskar Sunkara. Il dato più rilevante a sinistra, non solo culturale ma politico, è che nei punti alti del finanzcapitalismo delle piattaforme sta emergendo una proposta di alternativa socialista. In particolare per iniziativa di Sanders negli Stati Uniti, dove l’esperimento della rivista marxista Jacobin diretta da Sunkara andrebbe attentamente valutato. «L’America non sarà mai un Paese socialista», ha proclamato l’immobiliarista plurimiliardario, agitatore dell’America first, che risponde al nome di Trump. Ma le indagini sul campo segnalano che nel suo Paese la maggioranza dei giovani ha un’opinione positiva del socialismo. E’ una nuova scoperta dell’America.

Naturalmente c’è anche chi sogna (o fa finta di sognare) un capitalismo equo e solidale – che è come chiedere a una balena di volare – e chi si propone di «riparare il capitalismo». Ma domandiamoci: cosa ha fatto il riformismo socialdemocratico, se non fornire pezzi di ricambio per riparare la macchina del capitale? E nella realtà con la parola riformismo si sono messe in opera la peggiori controriforme. Il punto di arrivo è sotto gli occhi di tutti: un sistema dominante ma decadente, corroso dalle sue interne contraddizioni. Siamo in presenza non di una “normale” crisi ciclica dell’economia, ma di una crisi universale di un’intera formazione storica, che insieme all’economia investe la società e la natura, la politica e la cultura.

Se questa è la portata del problema che quotidianamente si rovescia sulla vita di miliardi di persone, la soluzione non sta nel rinculo nazionalista verso le piccole patrie, nell’esclusione dei poveri e dei diversi, nella guerra ai migranti e di tutti contro tutti, nell’accumulo di bombe atomiche che accresce i rischi di un conflitto nucleare. Sta nell’affermazione di un universalismo alternativo portatore di pace e solidarietà, di democrazia e libertà, amico e protettore della natura, fermo e determinato nella lotta per rimuovere le cause dello stato di cose presente.

Una visione e una pratica, una teoria e una prassi, e anche una condotta morale, alle quali non so dare altro nome se non quello di nuovo socialismo, per differenziarlo dall’esperienza sovietica e dal modello socialdemocratico. Una civiltà più avanzata in cui l’ordinamento economico-sociale sia posto al servizio degli esseri umani e a tutela della natura. Non, viceversa, nella disponibilità totalitaria di pochi proprietari universali, che depredano gli uni e l’altra in piena libertà.

Ma non puoi cambiare la società dominata dal capitale se non sai cos’è e come funziona il capitale, al di là delle infinite forme e degli adattamenti proteiformi in cui si manifesta. Scopriamo allora con Marx, proprio nella fase suprema del suo dominio, che «il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale mediato da cose», ossia da una immane raccolta di merci. Un rapporto tra esseri umani, socialmente e storicamente determinato, nel quale una parte monopolizza gli strumenti della produzione, della comunicazione e della finanza. Mentre un’altra parte, che costituisce la stragrande maggioranza, monopolizza solo le proprie abilità fisiche e intellettuali racchiuse nel corpo di ciascuno e di ciascuna, denominate forza-lavoro.

Dunque, secondo la visione di Marx, al di là dell’immane raccolta di merci e della finanziarizzazione del sistema, lo sfruttamento di esseri umani da parte di altri esseri umani sulla base di determinati rapporti di proprietà costituisce il codice genetico del capitale. E poiché il processo di produzione finalizzato all’ottenimento del profitto riproduce al tempo stesso il rapporto sociale tra i produttori, ne deriva che la distribuzione della ricchezza dipende in ultima analisi dalla distribuzione della proprietà.

D’altra parte, osserva ancora Marx, la natura è la fonte dei valori d’uso altrettanto quanto il lavoro. Ciò significa che il proprietario capitalista per ottenere il profitto deve poter disporre, oltre che della forza-lavoro umana, anche della natura, coinvolgendo entrambe in un unico processo di sfruttamento. Di conseguenza, come ha osservato Emanuele Severino, è inevitabile che nella corsa al profitto il capitalismo distrugga la terra, «la sua base ‘naturale’». Esattamente ciò che si sta verificando nella guerra senza limiti – che talora oltrepassano anche quelli della guerra guerreggiata – al fine di accaparrarsi le limitate risorse naturali di cui dispone questo mondo.

 

II

Le contraddizioni del sistema sono diventate esplosive. In modo drammatico si presenta la divisione tra chi compra e chi vende la forza-lavoro. Tra chi è proprietario dei mezzi finanziari e di produzione, delle più sofisticate conquiste della scienza e della tecnica, dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi, e li usa per sfruttare il lavoro, e chi è proprietario soltanto del proprio corpo e dei mezzi per vivere.

Il punto di massima tensione si raggiunge allorché è la scienza stessa a configurarsi come forza direttamente produttiva. Osserva Marx che «quando l’intero processo di produzione (…) si presenta come applicazione tecnologica della scienza» il lavoro non scompare ma assume un livello superiore di conoscenze. Fino a formare l’intelligenza generale dell’intera comunità, il «cervello sociale» che inventa le macchine, le usa e le controlla. Ciò che comporta un elevamento culturale generalizzato, affinché ciascuno, uomo e donna, nella sua individualità possa diventare padrone del proprio destino. Nel superamento non della proprietà individuale, ma della proprietà capitalistica.

Aver abbandonato il dirompente pensiero critico di Marx per un riformismo liberal-liberista senza anima e senza classi si è rivelata una scelta retrograda, subalterna e perdente. Giacché non è crollato il pensiero critico di Marx, come ha osservato Aldo Tortorella. È crollato l’imparaticcio pseudo marxista, che già ai suoi tempi aveva spinto Marx a dichiarare di non essere marxista. Al di là delle varie ortodossie che lo hanno imprigionato in poche ordinarie formulette, oggi andrebbero liberate le enormi potenzialità del suo metodo per mettere a nudo la realtà del nostro tempo, e per poterla trasformare.

A lui era estranea l’idea che il passaggio a una civiltà più avanzata, oltre il capitalismo, si possa compiere per spontanea evoluzione, come pure l’affermazione infondata e primitiva secondo cui ci si debba affidare a un modello unico, valido ovunque e in ogni tempo. Marx non ha mai detto che una società socialista si costituisce sulla statizzazione integrale dei mezzi di produzione. Ricordo che nel discorso pronunciato ad Amsterdam nel 1872, dopo avere affermato che gli sfruttati devono «prendere il potere politico per fondare una nuova organizzazione del lavoro», aggiungeva: «Non abbiamo affatto preteso che per arrivare a questo scopo i mezzi fossero dappertutto identici. Sappiamo quale importanza abbiano le istituzioni, i costumi, le tradizioni di vari Paesi». E perciò riteneva che nei Paesi più avanzati «i lavoratori possono raggiungere il loro scopo con mezzi pacifici».

Sul piano politico, in Italia non resta pressoché nulla del pensiero critico di Marx. E delle conquiste storiche del movimento operaio, che a quel pensiero e a quella prassi si ispiravano. È significativo il fatto che di pari passo viene cancellata la memoria della lotta antifascista, e di ciò che ha significato per l’Italia l’abbattimento del fascismo con la conquista della Costituzione, che fonda sul lavoro la Repubblica democratica.

Eppure, sebbene se ne sia perduta la consapevolezza, questa Costituzione progettuale, un progetto inedito di nuova società, è il disegno più alto di liberazione umana raggiunto in Europa. Il risultato di una convergenza originale del pensiero d’ispirazione marxista del Pci e del Psi di allora e di quello d’ispirazione cristiana dei cattolici democratici della Dc, cui ha concorso anche il pensiero liberale nel campo del diritto civile. Un progetto senza precedenti, al quale il Partito comunista di Gramsci e Togliatti ha contribuito in modo decisivo con la strategia della democrazia progressiva, in cui si sostanziava la via italiana al socialismo.

In questa fase di crisi organica del sistema del capitale, il progetto della Costituzione non è una reliquia del passato, bensì una bussola per avventurarsi nel futuro. Salvaguardando e mettendo in opera i punti cardinali, e aggiornando il percorso in quei territori che ai padri costituenti erano ancora sconosciuti, come la crisi climatico-ambientale o la rivoluzione digitale. Ma mantenendo ferma la rotta innovativa sull’asse della libertà e dell’uguaglianza. E lottando perché i principi fondamentali che segnano la rotta, in gran parte inattuati, diventino realtà. «Intorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale», ha osservato papa Francesco. Perciò «togliere lavoro alla gente o sfruttare la gente (…) è anticostituzionale». Ma l’appello non è stato raccolto.

Il fondamento del lavoro è una precisa scelta di campo. Significa che, nella dualità capitale-lavoro e nel conflitto che la caratterizza, la preminenza spetta alle persone che per vivere devono lavorare, non ai detentori del capitale. Il proprietario cittadino, posto a fondamento della democrazia liberale, lascia il posto al lavoratore cittadino. Un principio che equivale a una conquista storica, reso esplicito dall’articolo 3. Dove, come sappiamo, premesso che tutte e tutti sono uguali davanti alla legge, si stabilisce che la Repubblica rimuove gli ostacoli economici e sociali che limitano la libertà e l’uguaglianza, e quindi «impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

In altre parole, per costruire una democrazia effettiva, fondata sulla partecipazione di chi lavora e nella quale le lavoratrici e i lavoratori possano farsi classe dirigente, non basta intervenire nella sfera distributiva della ricchezza, occorre porre mano al rapporto di produzione, ovvero al rapporto di proprietà. È il principio dell’uguaglianza sostanziale. Senza di che la libertà diventa un mito irraggiungibile.

Ne deriva che, al fine di conquistare la piena occupazione indicata nell’articolo 4 e di porre in atto la fitta trama dei diritti sociali, nei quali si sostanzia l’uguaglianza e la libertà di ogni persona, è sì indispensabile che tutti concorrano alle spese «in ragione della loro capacità contributiva» secondo «criteri di progressività» (art.53). Ma in pari tempo occorre conformare la proprietà e l’iniziativa economica in modo tale da consentire la concreta attuazione delle finalità sociali.

Parliamo, in sintesi, della «tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni»; della parità di trattamento economico tra uomini e donne; di «una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro», comunque sufficiente ad assicurare «una esistenza libera e dignitosa» con riposo settimanale e ferie retribuite. E inoltre del diritto alla tutela della salute, alla pensione, all’assistenza sociale. Nonché, «per i capaci e i meritevoli anche se privi di mezzi», del diritto di raggiungere i più alti gradi degli studi, dopo l’istruzione di base gratuita per tutti. Ricordo anche che «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

Di conseguenza, per conseguire tali finalità insieme alla piena occupazione, non è previsto il monopolio della proprietà capitalistica privata. Chiarito che «la proprietà è pubblica o privata» e che «i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati», si stabilisce: che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art.41); che alla proprietà privata vengono posti limiti per assicurarne la funzione sociale e l’accessibilità a tutti (art. 42); che è possibile trasferire non solo allo Stato e a enti pubblici, ma anche a comunità di lavoratori e di utenti, imprese che si riferiscano a servizi, a fonti di energia e a situazioni di monopolio (art. 43). Si tratta di scelte e disposizioni in linea con gli articoli successivi riguardanti il limite alla proprietà terriera e l’uso razionale del suolo, la funzione sociale della cooperazione, la tutela del risparmio e il controllo del credito. Nonché il diritto dei lavoratori a collaborare nella gestione delle imprese.

 

III

Sarebbe necessario assumere l’intero impianto costituzionale come riferimento per un ampio e articolato movimento di massa con concreti obiettivi di cambiamento. Avendo ben chiaro che l’ordinamento istituzionale non si difende se non si lotta per l’occupazione e per l’attuazione dei diritti sociali che attengono alla vita delle persone. E muovendo dalla consapevolezza, oggi oscurata, che la conquista storica della Costituzione del 1948 rovescia a vantaggio della classe lavoratrice il tradizionale paradigma del conflitto tipico delle democrazie liberali, fondate sul dominio del mercato.

La Carta che regola il patto tra gli italiani non cancella e non sanziona il conflitto tra le classi. Al contrario, lo riconosce, e ponendolo sul terreno dello sviluppo della democrazia lo tutela come strumento per la conquista dell’uguaglianza sostanziale e della libertà. Decisivi sono i rapporti di forza. Ma chi lotta per il lavoro e per i diritti ha dalla sua parte la Carta, al contrario di chi sfrutta il lavoro e calpesta i diritti. Questo è il senso di una conquista storica, che consente una rivoluzione per via democratica e costituzionale, la rivoluzione del nostro tempo.

Le lavoratrici e i lavoratori, oltre alla libertà sindacale e al diritto di sciopero, condizioni essenziali per potersi dichiarare liberi, con la Costituzione conquistano il diritto di farsi classe dirigente, associandosi in partito politico «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», come recita l’articolo 49. Sappiamo che la vecchia forma partito è in crisi e non è ripetibile. E tuttavia nessun cambiamento reale appare possibile, al di là di movimenti imprevedibili come quello delle sardine, senza una libera associazione delle lavoratrici e dei lavoratori del nostro secolo, che si organizzano e impiegano le più avanzate acquisizioni della scienza e della tecnica nella lotta contro lo sfruttamento di sé e della natura.

Nell’insieme, dalla Costituzione emerge un quadro inedito dell’assetto economico-sociale e politico-culturale in movimento, nel quale il pluralismo delle forme di proprietà e la presenza di una economia mista in funzione dell’utilità sociale, valorizzando il lavoro, consentono in pari tempo la valorizzazione della persona. Si configura in tal modo una relazione unica, del tutto originale e ricca di implicazioni per il presente, tra individualità e solidarietà, tra persona e classe sociale, tra impresa e società, tra economia e ambiente naturale, che dà alla Costituzione italiana il respiro di un disegno strategico di grande portata non solo per questo Paese, ma per l’Europa e il mondo.

Nati nella specificità della lotta antifascista in Italia, i principi e i diritti costituzionali che ho ricordato, insieme al ripudio della guerra «come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e di risoluzione delle controversie internazionali», assumono un valore universale nella diversità dei percorsi storici di ogni Paese. E possono essere la trama su cui costruire una piattaforma per la lotta di liberazione dalla dittatura del capitale non solo in Italia ma nell’intera Europa. Se l’obiettivo è la conquista di una civiltà più avanzata, questa Costituzione, che già contiene elementi di socialismo, indica la strada.

Paolo Ciofi

www.paolociofi.it

 

*Testo della relazione al convegno sul tema: «A trent’anni dal crollo del muro di Berlino. La fine della sinistra, la crisi del capitalismo e l’esigenza di un nuovo socialismo», promosso da Futura Umanità-Associazione per la storia e la memoria del Pci in collaborazione con il Dipartimento di Filosofia dell’Università La Sapienza. Roma, Villa Mirafiori, 7 febbraio 2020

 

 

 


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