Qualche idea (impopolare) su politica e denaro

Qualche idea (impopolare) su politica e denaro

di Emilio Carnevali -
Il binomio “Petrolio e politica” evoca solitamente scenari poco rassicuranti. Sarà perché l’ultimo presidente petroliere degli Stati Uniti – George W. Bush – non ha lasciato un grande ricordo di sé, anche e sopratutto per una guerra disastrosa in una zona del mondo nota più per il petrolio che per gli impianti termali. E sarà anche perché l’affettuoso carteggio fra il subcomandante Marcos e Massimo Moratti non rappresenta un buon indicatore dei “gusti medi” – in fatto di frequentazioni e di simpatie politiche – del “petroliere medio”.

“Petrolio e politica” è, non a caso, anche il titolo di un libro uscito qualche anno fa a firma di Mario Almerighi. Sottotitolo: “Il padre di tutti gli scandali raccontato dal magistrato che lo scoprì” (Editori Riuniti, 2006). Si tratta di una vicenda che risale ai primi anni Settanta, quando si scoprì che l’Eni e diverse altre aziende petrolifere private foraggiavano generosamente i partiti dell’allora maggioranza di governo (costituita da Dc, Psi, Psdi, Pri) per ottenere una legislazione favorevole al loro settore industriale. Con l’inchiesta, scrive Almerighi nel suo libro, «emerge in modo chiaro che l’Unione petrolifera italiana è il centro di elaborazione dei provvedimenti legislativi e amministrativi che interessano i petrolieri sotto il profilo dell’aumento dei loro profitti; che esiste un collegamento organico tra i petrolieri e il potere politico al governo; che tale collegamento si concretizza in uno spazio di trattativa in ordine al quantum dei pagamenti, che i petrolieri devono pagare per ottenere i provvedimenti loro favorevoli. Tenuto conto che i decreti legislativi emanati dal governo sono convertiti in leggi dello Stato e che, come è noto, le leggi vengono approvate dal Parlamento, non posso che concludere che alla base del fenomeno vi è una sorta di compravendita continuata del Parlamento italiano da parte del potere petrolifero».

Fu in seguito a quello scandalo che il 2 maggio 1974 il Parlamento approvò la legge per il finanziamento pubblico ai partiti politici. Si intendeva così garantire ai soggetti preposti alla rappresentanza degli interessi dei cittadini una certa “autonomia” rispetto ai grandi gruppi economici e finanziari che con le loro elargizioni di denaro – lecite e illecite – avrebbero potuto condizionare gli orientamenti delle istituzioni pubbliche. Votarono a favore tutte le formazioni politiche, ad eccezione del Partito liberale.

Sappiamo bene, dalla storia che ne è seguita, come questa misura non solo non sia stata sufficiente a prevenire l’intreccio strettissimo fra partiti e potere economico, ma come lo stesso meccanismo del finanziamento pubblico abbia subito diverse degenerazioni, diventando a sua volta, in non pochi casi, una fonte di sprechi, ruberie, illegalità.
Ma la consapevolezza di tali degenerazioni, e l’urgenza di porvi rimedio, non devono far perdere di vista né la questione di principio né i fatti molto concreti dai quali tutto ebbe origine.

L’autonomia della politica è un prerequisito fondamentale per la salute della democrazia. Vorrà pur dire qualcosa se a livello europeo solo in Svizzera e a Malta non sono previsti finanziamenti pubblici per i partiti. E in tutti gli altri Paesi sì.
Significativo è l’esempio della Germania, campione continentale nella virtù della parsimonia e modello irreprensibile quanto a gestione austera e trasparente delle finanze pubbliche (fin troppo austera, a dire la verità, visto che spetterebbe proprio ai paesi che se lo possono permettere il compito di fare un po’ di politiche espansive in questa fase di recessione e riavviare la domanda interna europea. Ma questo è un altro discorso, che ci porterebbe troppo lontano… Rimaniamo sui partiti, dunque).

La Germania prevede il finanziamento pubblico sin dal 1958, per una cifra che attualmente si aggira intorno ai 133 milioni di euro l’anno. È un ordine di grandezza sostanzialmente analogo a quello dell’Italia: 165 milioni di euro sono i rimborsi elettorali previsti per il 2013 nel nostro Paese. Quando l’attuale legislazione andrà a regime, nel 2015, la quota si assesterà sui 143 milioni. Ciò che spesso non viene detto quando si citano questi numeri è che in Germania le fondazioni culturali legate ai partiti (Ebert per i socialdemocratici, Adenauer per i cristiano sociali, Naumann per i liberali, Böll per i verdi, Luxemburg per la Linke) ricevono sovvenzioni generosissime, pari a circa 400 milioni di euro, per le loro attività.

E ciò che viene detto ancora meno, con riferimento all’Italia, è che si tratta di cifre del tutto trascurabili se paragonate all’ammontare del nostro debito pubblico, per raggiungere il quale bisognerebbe moltiplicare i milioni dei rimborsi elettorali annui per 15.000. È un calcolo molto rudimentale, ma può essere utile a sgombrare il campo dal malizioso equivoco secondo il quale il contenimento dei costi della democrazia abbia qualcosa a che fare con una possibile soluzione per il risanamento di finanze pubbliche dissestate.

Se poi rivolgiamo lo sguardo oltreoceano, negli Usa del “fenomeno Obama”, è bene stare molto attenti a non confondere le narrazioni più o meno edulcorate con la realtà, le leggende metropolitane con i duri dati di fatto. Anche, e sopratutto, quando ci si confronta con la personalità indubbiamente affascinante come quella del primo presidente nero della storia degli Usa.

Nella campagna elettorale del 2008, quella dell’Hope, delle grandi promesse di cambiamento, della poderosa mobilitazione popolare e giovanile cresciuta attorno alla sua candidatura, Obama riuscì nell’impresa di raccogliere la stratosferica somma di 747 milioni di dollari, più del doppio dei 351 dollari raccolti dallo sfidante repubblicano John Mc Cain. Si magnificò, allora, il prodigio del sistema delle “piccole donazioni” individuali: tanti lillipuziani che avevano piegato il Gulliver del grande capitale finanziario alleato del Partito repubblicano.

La verità è che la cifra messa insieme con somme inferiori ai duecento dollari non superò il terzo dell’ammontare complessivo. Ora: davvero si pensa che quel fiume di finanziamenti privati che è confluito nelle casseforti di entrambi i candidati presidenziali, come in quelle dei tanti candidati al Congresso, non abbia influenzato la politica americana di questi anni? Si pensa davvero, per fare un esempio molto preciso, che l’abbandono dell’“opzione pubblica” nella grande riforma sanitaria varata nel 2010 non abbia a che fare con l’enorme potenza della lobby delle assicurazioni private e la loro capacità di “catturare” anche parti consistenti del Partito democratico?

Obama ha ottenuto risultati straordinari dentro il sistema in cui si è trovato a operare. Prenderlo a modello per celebrare proprio i vincoli del sistema contro i quali si è dovuto scontrare è un assoluto nonsenso.
Eppure c’è chi continua a ripetere che la buona politica si può anche fare a costo zero. Il successo del Movimento 5 Stelle, che non usufruisce di finanziamenti pubblici, ne sarebbe una prova.

Ma, anche qui, è molto singolare che una potenza mediatica ed economica come quella radunata intorno al blog di Grillo e alla società di Gianroberto Casaleggio venga portata ad esempio di una politica fatta a costo zero. E questa è una considerazione preliminare a qualsiasi ulteriore interrogativo riguardo alla sua opaca gestione, come quello che Milena Gabanelli ha sollevato al termine dell’ultima puntata di Report: «L’house organ del movimento, di fatto, è il blog», ha detto la giornalista. «La voce politica del movimento passa da lì. I proventi [pubblicità, vendita di prodotto on line, ecc], vanno anche al movimento, oppure no?».

C’è naturalmente una robusta obiezione all’(appassionato) tentativo di difesa del finanziamento pubblico che si è tentato di fare in questo articolo.
Il referendum del 1993 in cui 90,3% dei votanti si è espresso a favore dell’abrogazione del finanziamento statale ai partiti politici. Giustissimo. In democrazia la volontà della maggioranza deve essere rispettata.

Ma in democrazia è anche lecito che l’opinione della maggioranza venga criticata da voci anticonformiste. Voci che non devono sottoporsi all’immediato giudizio degli elettori e dunque operano in una condizione ben più comoda e protetta di chi esercita in modo diretto la difficilissima arte della politica e della conquista del consenso. Sono queste voci che hanno il dovere di contribuire a mantenere un salutare pluralismo all’interno del dibattito pubblico. Anche perché, come è noto, la (liberal)democrazia non consiste solo nel governo della maggioranza (del popolo), ma nel rispetto delle garanzie attraverso le quali la minoranza un giorno possa diventare maggioranza con la forza persuasiva delle proprie idee.

È ciò a cui allude un grande teorico della democrazia, Jürgen Habermas, quando scrive che «la formazione democraticamente ‘costituita’ dell’opinione e della volontà resta sempre dipendente dall’apporto di opinioni pubbliche informali che si generano nelle strutture di una sfera pubblica non manipolata» (Fatti e norme). Non manipolata, si intende, dalla colonizzazione che il sistema economico, e i relativi i rapporti di forza sedimentati nell’apparato della riproduzione della vita materiale, operano nei confronti del “mondo della vita”, cioè del sistema della riproduzione simbolica e linguistica che è fondamento ultimo della razionalità moderna.

È questa necessità di una netta separazione fra potere politico, potere economico e potere mediatico – la nuova “triade del potere” nelle società industriali avanzate – che dovrebbe riportare ad una riflessione più serena e approfondita anche sui mezzi più congrui per il finanziamento delle politica. Il rischio è di tornare a quel che un altro filosofo tedesco, ben più sanguigno del pacato e discorsivo Habermas, liquidava come il «comitato di affari della borghesia». Non senza ragioni: ieri …come domani.

da Micromega online


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