L’Immigrazione spinge le classi popolari a destra?

L’Immigrazione spinge le classi popolari a destra?

Francesco Campolongo, Valeria Tarditi, Davide Vittori -

Si dice che l’ostilità verso i migranti derivi dalla difficile convivenza in periferia ma una ricerca mostra che i timori non sono frutto di esperienze dirette. Il voto a destra cresce quando le proposte economiche della sinistra sono simili a quelle di destra
In questi anni si è radicata l’idea che l’affermazione della destra radicale nel mondo sia il prodotto della capacità di conquistare le menti delle classi popolari rispondendo in maniera efficace alle ansie e alle paure dei «perdenti della globalizzazione». La composizione sociale del voto delle destre, in realtà, non è uniforme e se in alcuni contesti la destra radicale conquista il voto della classe media impoverita e delle classi popolari (come in Francia), in altri raccoglie il consenso degli strati sociali più ricchi (come Vox in Spagna). Rimanendo all’Italia, però, le indagini post-elettorali confermano che la maggioranza dei settori sociali che, nell’immaginario collettivo, una volta componevano l’elettorato di riferimento della sinistra, alle elezioni europee hanno votato per la Lega. L’exploit di Salvini presenta un’impressionante trasversalità anagrafica e sociale, con la Lega più votata dai poveri, dai precari e dagli operai, così come dai giovanissimi al loro primo voto. Cionondimeno, è fondamentale ricordare che in questa tornata i flussi elettorali indicano una dinamica di voto ben precisa: la Lega è stata capace di attrarre voti da Forza Italia, molto di più rispetto ad altri bacini elettorali. Segno che l’area di riferimento da cui ha pescato il proprio rinnovato consenso è ideologicamente meno trasformista di quanto si possa pensare.

Il voto delle classi popolari vira a destra?
Partiamo dall’assunto che non sempre è facile distinguere chi appartiene a una classe e chi no. Specie nei sondaggi che vengono condotti per analizzare le intenzioni di voto. Non si tratta solo di una questione di «coscienza», ma anche di valutare a partire da quali parametri si giudica chi è «dentro» e chi è «fuori». E questa decisione spetta sempre a chi maneggia i dati, in prima istanza. Ciò premesso, per capire il voto di classe attuale dobbiamo spendere un po’ del nostro tempo per capirne l’evoluzione. Diversi studiosi hanno sottolineato che nel tempo la relazione tra classe e voto si sia indebolita. In parole spicce, la ripartizione della frattura tra capitale (i cui esponenti votano storicamente a destra) e lavoro (i cui esponenti votano storicamente a sinistra) si è indebolita a causa dell’emersione di altre fratture che hanno condizionato le scelte di voto di milioni di persone in Occidente: da temi tipicamente «progressisti» come l’ambiente e l’espansione dei diritti civili a temi più legati all’ambito conservatore-reazionario quali quelli identitari, religiosi e anti-multiculturali, le direttrici del voto si sono disperse e sono andati scomparendo i cosiddetti blocchi storici. A ciò hanno contributo anche le trasformazioni sociali, tecnologiche e lavorative dell’ultimo trentennio oltre al sempre più cruciale ruolo della leadership nell’orientare le scelte di voto in un periodo di particolare debolezza dei partiti. Questo disallineamento tra classe e voto ha portato a una maggiore proletarizzazione dei partiti di destra-radicale, capaci di attrarre elettori incasellati nella triade «tradizionalista»-«autoritaria»-«nazionalista» e di rendere temi legati a questi tre ambiti sempre più salienti nello spazio politico europeo e non. Più recenti ricerche hanno mostrato, tuttavia, una relazione tra determinate professioni e comportamento di voto, segno che nonostante tutto l’esperienza lavorativa conta ancora. Ciononostante anche tra le diverse professioni emerge una differenziazione culturale, con i professionisti salariati che tendono a supportare la diversità culturale e l’autonomia dell’individuo (declinabile in termini di diritti civili) e i lavoratori non professionalizzati e i piccoli imprenditori che, al contrario, mostrano una preferenza per l’omogeneità culturale e una demarcazione rigida in termini di confini nazionali. C’è quindi una tenuta di alcuni tratti caratterizzanti il voto storico della sinistra e della destra, ma sono stati erosi negli anni, soprattutto per l’avvicinamento delle piattaforme socialdemocratiche a quelle neoliberali dei partiti di centro-destra. Questo spostamento ha creato un incentivo agli imprenditori politici della destra radicale per poter attrarre un elettorato non-borghese.

Sino a che la competizione politica si è mossa lungo un solo asse – sinistra-destra – e l’identificazione politica nei concetti di sinistra-destra/progressista-conservatore è rimasta rilevante, l’autoritarismo di una parte delle classi meno abbienti veniva riassorbito all’interno della dimensione economica. Quando invece alla dimensione economica si è aggiunta quella culturale (liberalismo-autoritarismo), sinistra e destra quali concetti onnicomprensivi delle attitudini di voto hanno parzialmente perso salienza. Seppure è innegabile che la congiuntura economica abbia influenzato le scelte di voto, altri valori sono stati ugualmente importanti non solo per spiegare il voto alla destra radicale, ma per comprendere quello alla sinistra dei partiti socialdemocratici. Se si eccettua il caso greco, in cui il conflitto anti-austerità vs Memorandum europei è stato il nucleo dell’ascesa di Syriza, valori per antonomasia «interclassisti» quali la disaffezione verso la politica e i politici, lo scetticismo nei confronti della democrazia rappresentativa, la battaglia contro la corruzione del «sistema» sono risultati cruciali per comprendere il voto ai partiti anti-establishment (tra cui anche Podemos e la France Insoumise). Oltre a questi temi legati alla cosiddetta opzione «populista di sinistra», sono emersi con sempre più insistenza quelli legati alla questione migratoria, divenuti centrali nel dibattito pubblico e su cui i partiti di destra radicale fondano la propria imprenditorialità politica.

Immigrazione e classi popolari
La questione migratoria è una delle issue più politicizzate e al centro dello scontro politico ed elettorale anche in Italia. In particolare, il partito che più ha beneficiato in termini di visibilità mediatica della politicizzazione di questo tema è certamente la Lega. Ma cosa pensano le classi popolari dell’immigrazione? Sono affascinate e conquistate dai discorsi etnocentrici, nazionalisti e anti-immigrazione di partiti come la Lega? Trovano in questi discorsi rappresentanza delle loro idee?

La risposta a tali domande è ancora più interessante se si considera che i dati reali degli arrivi dei migranti in Italia smentiscono l’esistenza di un’invasione. Eppure, una parte della vulgata comune, rintracciabile anche a sinistra, sostiene che l’ostilità delle classi popolari verso i migranti provenga dalla difficile convivenza nelle disastrate periferie italiane di cui solo la destra avrebbe il coraggio di farsi carico.

Nelle interviste che abbiamo condotto come Cantiere delle Idee nelle periferie delle quattro città italiane – Milano, Firenze, Roma e Cosenza – il riferimento all’immigrazione si ritrova a più riprese e con una connotazione prevalentemente negativa. I migranti popolano realmente le preoccupazioni e le inquietudini di gran parte degli intervistati, legate a tre argomentazioni: la difficoltà di convivenza con persone di altre culture; la paura per la criminalità e il degrado urbano; la preoccupazione di perdere il proprio benessere economico. Rispetto alla prima, che appare meno diffusa delle altre due, emerge nelle parole di alcuni intervistati la convinzione che ci sia un numero troppo elevato di migranti da cui potrebbe scaturire l’indebolimento della coesione della comunità. In base alla seconda argomentazione, i migranti contribuirebbero al degrado dei quartieri e si renderebbero spesso protagonisti di atti illeciti approfittando, tra l’altro, della nostra accoglienza. Infine, la terza area di inquietudini riguarda la sfera economica e consiste nella percezione dei migranti come minaccia per il mantenimento del welfare e delle opportunità di lavoro per gli italiani. Coloro che arrivano nel nostro Paese, sottraendosi a conflitti e povertà e alla ricerca di un futuro e di una vita dignitosa, sarebbero per molti intervistati dei «privilegiati», godendo di un canale preferenziale per il riconoscimento del diritto alle case popolari e potendo usufruire dei fantomatici (e del tutto inesistenti) 30 euro giornalieri che gli garantirebbero una vita migliore di quella degli italiani.

Il senso di appartenenza alla nazione – l’italianità – si riattiva soltanto come criterio di gerarchizzazione dei diritti sociali in un gioco a somma zero in cui l’ipotetico riconoscimento dei diritti ai nuovi arrivati sarebbe direttamente connesso alla diminuzione dei diritti per i nativi. Da ciò la fondatezza del principio «prima gli italiani!».

A un primo sguardo la fisionomia del senso comune delle classi popolari sembra rivelare una chiara corrispondenza con la posizione della destra. Tuttavia, a un’analisi più approfondita, l’articolazione si fa più complessa. Non mancano riferimenti positivi al fenomeno così come dichiarazioni di empatia verso la condizione dei migranti e ancora posizioni critiche verso l’assenza e l’incapacità dello Stato di garantire lavoro e diritti per tutti. Qualcuno percepisce e rifiuta l’ondata di razzismo, identificando nella diversità culturale un’opportunità di scambio e crescita civile. Un secondo elemento particolarmente significativo è che tra percezione negativa del problema ed esperienza reale esiste una discrasia molto ampia. Anche nelle interviste dei più critici, le problematiche segnalate e i timori espressi non sono mai riconnessi a esperienze dirette e personali (tranne in un unico caso). Al contrario, generalmente i problemi associati alla presenza dei migranti vengono pensati come esistenti in altri luoghi, lontani dal proprio contesto di riferimento (città o quartiere), dove invece la convivenza risulta pacifica e in alcuni casi genera rapporti amicali. Emerge dunque come la paura verso il fenomeno dell’immigrazione non sia il prodotto diretto della convivenza multiculturale nei contesti periferici, smentendo la vulgata dominante.

La costruzione e politicizzazione del problema migratorio
Se le esperienze dirette degli intervistati con i migranti non sono negative, da dove provengono allora l’ostilità e la paura verso il fenomeno dell’immigrazione?

In primo luogo possiamo assumere come punto di partenza che le rappresentazioni culturali veicolate dai media e dalla politica contribuiscono a costruire «verità» tanto quanto i fatti reali, in un rapporto dialettico con questi ultimi, e che alcune narrazioni trovano maggiore vigore nell’esistenza di determinate condizioni sociali. Non si tratta di manipolazione, ma della capacità di fornire mappe di senso di fronte a una realtà sociale vissuta come sempre più ostile, tra perdita di diritti e di benessere economico. Mappe che risultino credibili, verosimili e capaci di indicare soluzioni praticabili per uscire dalla crisi. Buona parte della politica corrisponde in fondo alla lotta per il senso comune, muovendosi tra l’universo simbolico possente dell’industria mediatica e il complesso di relazioni tra gruppi attraversate dai molteplici meccanismi di gerarchizzazione sociale. Sono alcuni degli stessi intervistati, in maniera diretta e indiretta, a confessare che il bombardamento mediatico sull’immigrazione abbia contribuito alla loro paura, citando come fonte principale delle loro convinzioni e informazioni il web e la tv. Una parte della letteratura scientifica su media e immigrazione conferma come un determinato registro comunicativo possa alimentare visioni stereotipate del tema. Il chiacchiericcio mediatico riprodotto sul Web e in alcuni talk show televisivi alimenta un regime di «post-verità» in cui, per esempio, una fake news come quella dei 30 euro giornalieri «donati» ai migranti diviene una convinzione radicata nel senso comune.

Vi è poi l’efficacia dell’imprenditore politico nel politicizzare il tema, sfruttando l’amplificazione dei messaggi garantita da vecchi e nuovi media. Negli anni il dibattito politico ha contribuito a inquadrare l’immigrazione in chiave emergenziale e securitaria, senza grandi differenze tra centrodestra e centrosinistra. In questo contesto, la capacità di Matteo Salvini non sembra essere stata quella di offrire soluzioni politiche ai potenziali problemi derivanti dalla convivenza nelle periferie, ma di costruire una narrazione della crisi che utilizza e contemporaneamente alimenta l’immaginario sociale fondato su una declinazione negativa del fenomeno migratorio. Un ordine del discorso semplice e diretto, che identifica facilmente il problema, i nemici e le soluzioni veicolato attraverso un’indiscutibile capacità di gestione delle potenzialità comunicative del web 2.0 (è di Salvini la pagina Facebook di un politico più seguita in Europa). Lungi da essere sconnessa dalla situazione materiale e concreta dei cittadini, la battaglia simbolica condotta dalla politica e dai media offre ai cittadini un alfabeto concettuale per decodificare il vissuto, le sue crepe e le possibili vie di scampo. Il ritiro dello Stato sociale e la parziale disgregazione di due ambiti fondamento di legami comunitari – il territorio e il lavoro – che in passato avevano rappresentato due luoghi privilegiati per la costruzione di solidarietà e identità collettive, aumentano la domanda di sicurezza dinanzi a una realtà sociale sempre più difficile e minacciosa. Gli sconfitti della globalizzazione, abbandonati dalle istituzioni e sempre più soli, marginalizzati e atterriti dall’incertezza e imprevedibilità del futuro provano una frustrazione collettiva «che – sostiene Robert Castel – va alla ricerca dei responsabili e dei capri espiatori». I problemi, le ansie e le insicurezze che popolano le classi popolari, in assenza di una proposta redistributiva credibile e forte, vengono canalizzate verso un nemico esterno, venendo conquistati dalla promessa di risoluzione efficace dei problemi. Fermare «l’invasione» dei «clandestini» bloccando qualche Ong che opera a fini umanitari risulta infinitamente più facile e credibile che sfidare il capitalismo finanziario internazionale o redistribuire la ricchezza. La spettacolarizzazione di singoli eventi legati al fenomeno dell’immigrazione, la dimostrazione urlata di forza e fermezza attraverso la colpevolizzazione di chi prova a rispettare l’individuo in quanto essere umano rappresentano il mantenimento falsato della promessa elettorale. La lotta contro le Ong rappresenta lo spettacolo simbolico che accresce la pervasività e l’egemonia di una rappresentazione del fenomeno migratorio allarmistica, securitaria e contraria a ogni norma internazionale e dei diritti umani, oltre che del buon senso.

Ricostruire un’alternativa economica e sociale
L’abbandono della sinistra da parte delle classi popolari non è scontato né ineluttabile. Di fatto, come detto, una quota importante continua a votare per le forze di centrosinistra in quei contesti in cui la questione economica e sociale ha ancora una sua rilevanza politica. Quando destra e sinistra, invece, diventano simili allora cresce il numero di appartenenti alla classe lavoratrice che si sposta a destra. In Italia, la scelta dei precedenti governi di centrosinistra di rispondere alla crisi economica avallando e introducendo politiche di austerità ha ridimensionato la differenza in termini di proposta economica con gli avversari partitici collocati sul versante opposto. Ne è conseguito il passaggio di ampi strati popolari nell’elettorato prima di un partito dall’identità confusa, il Movimento 5 Stelle, e successivamente della destra radicale, la Lega. Paradossalmente, come notato da Lorenzo De Sio in un contributo del Centro Italiano di Studi Elettorali all’indomani delle elezioni del 2018, «il Pd è l’unico partito per cui si registrano effetti significativi della classe sociale sul voto, ma nella direzione inattesa di un suo confinamento nelle classi sociali più alte e con un reddito più alto».

La scomparsa di una proposta redistributiva credibile nel sistema politico ha accompagnato e favorito la graduale affermazione nel senso comune di uno dei capisaldi simbolici dell’austerità: la convinzione della scarsità di risorse e dell’immutabilità delle condizioni presenti. La crisi economica del 2008 è stato il terreno di contesa tra rappresentazioni simboliche della crisi stessa, con la conseguente determinazione di specifici colpevoli da perseguire e determinate politiche da attuare. Sia la destra che la sinistra socialdemocratica hanno condiviso e promosso l’assunto per cui le risorse economiche sono scarse e limitate a causa di anni in cui si «è vissuto al di sopra delle nostre possibilità», a causa della generosità dello stato sociale e dei diritti o addirittura dei «privilegi» acquisiti proprio dalle classi popolari. Conseguentemente, le politiche economiche adottate non potevano che puntare alla riduzione della protezione sociale di ampi settori della popolazione oppure all’esclusione dal suo godimento degli «esterni» alla comunità nazionale. L’assenza, o il carattere minoritario di un’interpretazione della crisi come prodotto dell’iniqua redistribuzione dell’enorme ricchezza esistente favorisce la centralità politica delle questioni culturali che appaiono le uniche in cui soluzioni discriminatorie diventano le misure più efficaci. La crociata di Salvini contro le Ong risulta fondamentale per mantenere salda la supremazia simbolica dell’ambito culturale, accrescendo ulteriormente il consenso della destra. È questo il campo in cui l’insicurezza sociale si trasforma in domanda securitaria, in cui l’omogeneità culturale diviene un rifugio identitario e la destra può intercettare quel «polo regressivo» che permea latente la cultura delle classi popolari. Alla difesa necessaria e doverosa dell’accoglienza, come ineludibile principio di umanità, bisogna affiancare parallelamente la ricostruzione di una proposta credibile e di lungo respiro di trasformazione economica, capace di rilanciare il ruolo dello stato nel redistribuire la ricchezza e nel riconvertire la produzione secondo un modello sostenibile. Questo è il terreno di riconquista elettorale e ideologica delle classi popolari perché in politica per combattere una bugia non basta dire la verità.

*Francesco Campolongo, Davide Vittori e Valeria Tarditi fanno parte del Cantiere delle idee, la rete nazionale di ricercatori che ha condotto la ricerca collettiva pubblicata nel volume Popolo chi? (Ediesse, 2019).

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