Cazzullate senza fine. Risposta a Marco Rizzo

Cazzullate senza fine. Risposta a Marco Rizzo

di Paolo Ciofi

Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato un articolo di Paolo Ciofi, storico dirigente del PCI (una sintetica biografia) contro le tesi anticomuniste del giornalista del Corriere della Sera Aldo Cazzullo. Sulla nostra pagina facebook è intervenuto Marco Rizzo con un commento a cui risponde il compagno Ciofi con questo articolo. Questo il commento di Rizzo: “Degenerazioni staliniste”?!! Ciofi e chi la pensa come lui se lo merita Cazzullo e il Corsera. Quando si accetta e si fa propria la versione anticomunista sulla gloriosa storia dell’URSS poi non ci si può stupire né della ‘mutazione genetica’ del PCI (dal compromesso storico allo scioglimento della Bolognina), né dell’anticomunismo d’accatto dei nostri nemici, rafforzati ogni giorno dalle analisi degli opportunisti.

 Se, come ormai si è potuto comunemente accertare, la cazzullata è una narrazione che (per scopi non sempre nobili) prescinde totalmente dai fatti della storia e della lotta politica, allora non si può ignorare che Marco Rizzo disponga di un’indubbia qualità: quella di riuscire a formulare in poche righe ben tre cazzullate. Per di più di una tale entità, che non varrebbe la pena di soffermarcisi se non danneggiassero la già difficile lotta per un’alternativa allo stato di cose presente.

         Punto primo. Secondo lui, nella storia del Novecento le «degenerazioni staliniane» non esistono. Sono solo un’invenzione degli anticomunisti, attribuita quindi anche a me, che come molti altri mi vengo a trovare a mia insaputa nella poco nobile schiera di coloro che ho sempre combattuto. Ma veniamo alla sostanza. Di Krusciov, il capo dei comunisti sovietici, che quelle degenerazioni ha denunciato drammaticamente in termini ancora più crudi, Rizzo non ha sentito parlare? E di Togliatti, il capo dei comunisti italiani, che le ha analizzate criticamente rilanciando la via italiana al socialismo?

 A quanto pare lui non è venuto neanche a conoscenza del XX congresso del Pcus, che nel 1956 tentò tra molti drammi e tensioni di superare lo stalinismo, con l’obiettivo di aprire una nuova fase nella costruzione del socialismo e nelle relazioni tra i partiti comunisti. Tutto è possibile. E se invece, putacaso, ne è venuto a conoscenza, allora cosa dovremmo dire? Nella migliore delle ipotesi, che la sua visione della rivoluzione e della costruzione di una nuova società è incredibilmente fanciullesca, tanto da infischiarsene delle condizioni storiche concrete: una botta e vai («Taja, ch’è rosso!» annunciava il Belli). Per non dire schematica e primitiva. Ma la rivoluzione non è una passeggiata sulla Prospettiva Nevskij, tanto meno un pranzo di gala. Bensì un processo difficile e contraddittorio in cui gli errori e le correzioni sono inevitabili.

         Seconda cazzullata. Berlinguer, il quale, come egli stesso dichiarò, lottava «per la realizzazione degli ideali del comunismo» e aveva dimostrato di sapere e volere correggere gli errori del Pci, viene considerato alla stregua di un politicante di passaggio. Equiparato a coloro i quali, sciogliendo il partito e abbandonando al loro destino le lavoratrici e i lavoratori del XXI secolo, il comunismo lo hanno rinnegato e hanno fatto il contrario di ciò che Berlinguer non ha potuto portare a termine, stroncato dalla morte improvvisa. Ovvero un nuovo socialismo, corrispondente alla fase di sviluppo del capitale e dunque diverso dal modello sovietico e da quello socialdemocratico. Dall’unico pensiero di Rizzo tutti vengono infilati nello stesso sacco: Berlinguer e i miglioristi, i rivoluzionari e i gestori del sistema. Con Berlinguer capofila di quelli che hanno liquidato il Pci e le conquiste del movimento operaio in Itala.

         Terza cazzullata. Appiccicare l’etichetta di opportunisti e di veri e propri nemici a quelli che cercano di trarre insegnamenti per l’oggi dall’esperienza e dagli errori di ieri. Rizzo non va per il sottile: se non la pensi come lui sei out, esattamente come sostiene Cazzullo. E nella diaspora che ha frantumato la sinistra in mille pezzi moltiplicando i partiti che si denominano comunisti, il medesimo Marco Rizzo, il quale finora ha dato prova di essere soprattutto un promotore di divisioni badando principalmente ai casi suoi, si autoproclama l’unico vero rivoluzionario e comunista. Con quale programma? Con quale progetto? Con quale strategia e con quale tattica? Con quali forze motrici e con quali alleanze? Qui viene il bello e qui casca l’asino.

         A sentir lui, la risposta è semplice: ci vuole il modello sovietico. Semplice, ma impraticabile. A oltre 100 anni di distanza, e in un mondo completamente diverso, a tutti dovrebbe essere chiaro che non si può ripetere un’esperienza originale e imprevedibile compiuta nelle condizioni della Russia zarista, travolta dalla prima guerra mondiale imperialista. Nel merito, rispetto alle condizioni di oggi, l’unica cosa certa è che Rizzo non è Lenin. E questo, a dir la verità, non ci rassicura.

«Fare politica significa agire per cambiare il mondo», sosteneva Togliatti. E aggiungeva, riferendosi a Gramsci, che così intesa la politica «è il risultato di approfondita ricerca delle condizioni in cui si muovono le società umane, i gruppi che le compongono e i singoli». In modo da poter «comprendere (…) tanto l’avanzata quanto la ritirata o l’arresto, tanto la vittoria quanto la sconfitta. Alla base di questa comprensione vi è la critica di se stessi e degli altri, che è momento di azione ulteriore».

Se della politica non hai questa visione, e non sei in grado di praticarla nonostante le petizioni principio, la loquacità televisiva e le meschinerie di una vantata abilità manovriera, alla fine torni a cantare sempre e ovunque la stessa canzone. E così ti riduci all’inutilità politica. Proprio come è successo a Rizzo. Amen, e pace all’anima sua.

Paolo Ciofi

 

 


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