Il secondo Berlinguer e i fatali anni ottanta

Il secondo Berlinguer e i fatali anni ottanta

di Lucio Magri

Pubblichiamo un estratto da IL SARTO DI ULM, il fondamentale libro di Lucio Magri sulla storia del PCI.  

Confesso che a questo punto sono stato per settimane e mesi bloccato nel mio lavoro da un dubbio profondo. (…) esisteva ancora per il Pci una possibilità effettiva di incidere sull’ulteriore corso delle cose, o quantomeno di conservare gran parte delle sue forze e l’essenziale della sua originale identità per il futuro? Era un dubbio legittimo, ma la scelta che ne conseguiva era molto pesante, perché, implicitamente, portava a giudicare velleitario e irrilevante il tentativo compiuto da Berlinguer di imprimere una svolta nel 1980, e a legittimare la successiva decisione di Occhetto di ratificare la fine del Pci nel 1989.
(…) che negli anni ottanta la storia del comunismo come movimento mondiale, ispirato alla Rivoluzione di ottobre, si sia conclusa, è inoppugnabile. E’ anche innegabile il fatto che ciò si riflettesse pesantemente su tutte le forze che di tale storia erano state partecipi, anche su quelle che gradualmente avevano compiuto autonome esperienze ed elaborato autonome tradizioni culturali.
(…) ma è altrettanto vero che una crisi, quando investe grandi e radicate forze, può essere affrontata in molti modi, produrre esiti diversi, liquidare del tutto il passato o salvarne una parte come risorsa per il futuro. Basta ripensare alla Rivoluzione francese nel lungo periodo, per cogliere questa evidenza.
(…) In questo contesto – nel quale ormai la «crisi del comunismo » dominava ormai la scena ma le varianti possibili nel suo percorso non erano ancora cancellate – tornò a emergere, nel bene e nel male, l’originalità del comunismo italiano, in forma nuova, con molti contrasti, in fasi successive e distinte.
Alla vigilia degli anni ottanta, già per conto suo, il Pci si trovava in difficoltà serie. Il risultato delle elezioni politiche del 1979 di per sé non era quel dramma che la stampa descriveva. Il partito conservava il 30% dell’elettorato, due punti in più del 1972,; aveva perso, rispetto al massimo raggiunto, meno di quanto nello stesso periodo avessero perso i maggiori partiti socialdemocratici europei; e buona parte dei voti perduti erano andati a favore dell’estrema sinistra, non a destra. Un segnale più preoccupante si poteva cogliere dall’analisi del voto: perché le defezioni erano avvenute nelle aree metropolitane e nell’elettorato operaio e giovanile che erano stati i settori trainanti dei precedenti successi. Il problema maggiore però era un altro, lo spostamento politico nei due grandi interlocutori sui quali il Pci aveva costruito il proprio disegno: la Dc e il Psi di nuovo uniti in una coalizione di governo, competitiva al proprio interno, ma esplicitamente e fermamente decisi a tenerne fuori i comunisti. Al Pci venivano così a mancare non solo alcuni deputati in parlamento, ma una prospettiva politica credibile.
In un primo tempo il suo gruppo dirigente rifiutò di prenderne atto. Da un lato per la riluttanza a compiere un’autocritica esplicita sul recente passato, dall’altro perché era convinto che il nuovo centrosinistra fosse troppo diviso e incapace di governare una paese tuttora in crisi, quindi era transitorio. Occorreva tallonarlo e incalzarlo fino a quando la necessità di una grande coalizione, depurata dai suoi limiti, si sarebbe nuovamente riproposta.
Al suo interno si aprì tuttavia un conflitto, più tattico che strategico, nelle sedi riservate, ma spesso aspro. Il suo oggetto principale era il giudizio sull’evoluzione del Psi e sul «nuovo corso» avviato da Craxi. Dirigenti autorevoli pensavano che esso fosse reversibile facendo leva sulle estese alleanze nel sindacato, nelle cooperative e negli enti locali (chiudendo un occhio sulla questione morale) e che la ricollocazione governativa del Psi potesse anzi alla fine risultare utile per logorare la supremazia democristiana, sottrarle il consenso del ceto medio più moderno, costruire una nuova unità a sinistra e trovare un canale di comunicazione con la sinistra europea. Altri dirigenti, vicini a Berlinguer, giudicavano invece il craxismo molto più severamente, quasi il pericolo maggiore, come laboratorio di un nuovo tipo di anticomunismo e sintomo di una vorace redistribuzione del potere e coltivavano invece qualche speranza nelle contraddizioni sociali e politiche del mondo cattolico che attraversavano ancora la stessa Democrazia Cristiana.
Entrambe quelle posizioni mancavano di fondamento. Perché la svolta sia del Psi sia della Dc non era solo dettata da uno stato di necessità, o da pure convenienze di potere, esprimeva tendenze più profonde della società e convinzioni più radicate. Rimettere nel gioco di governo un Pci ancora così forte, e legato all’idea di rilevanti riforme, comportava concessioni cui la classe dominante, anche quella più moderna, ormai si opponeva, e un governo con i comunisti avrebbe incontrato l’ostilità sia dei governi atlantici ormai spostati più a destra, sia del Vaticano ormai saldamente guidato dal papa polacco. Comunque, per tutti loro, era un rischio inutile portare soccorso al Pci, quando finalmente sembrava in difficoltà. Un dialogo poteva riaprirsi solo dopo avrne ridotto la forza e modificato l’identità.
A rendersi conto della situazione reale, e a dare respiro al dibattito, intervenne, nel 1980, una svolta proposta da Enrico Berlinguer. Su questa svolta, sui suoi contenuti, sul modo in cui venne concretamente applicata, sul suo valore e i suoi limiti, i suoi iniziali successi e il suo sostanziale fallimento finale, una discussione vera è mancata allora e non c’è più stata. Al contrario si sono accumulati tanti equivoci che soffocano i fatti e deformano i giudizi. Anzi, peggio; più o meno consapevolmente essa è stata cancellata nella memoria attraverso un curioso meccanismo.
La morte commovente e improvvisa di Berlinguer ne hanno fatto rapidamente un mito. Il mito, meritato e positivo, di un uomo integerrimo, modesto, tenace, leale sostenitore della Costituzione democratica di cui l’italia aveva e avrebbe ancora bisogno. Per questo la sua opera politica veniva assunta in blocco. I suoi sostenitori coniderarono un’offesa mettere in evidenza ciò che distingue, in Berlinguer, l’idea del «compromesso storico» dal tentativo estremo compiuto negli ultimi anni della sua vita per rivederne l’impianto. Di questo si sono giovati anche i suoi critici per rendere omaggio alle sue personali virtù ma soprattutto per sostenere che quelle stesse virtù, negli ultimi anni, lo spinsero a una rigidità ideologica e a un furore moralistico che gli impedivano di svolgere un vero ruolo politico incisivo. Per gli uni e per gli altri, una vera svolta nel Pci o del Pci non c’è mai stata: un «secondo Berlinguer » non è mai esistito. Perciò nei libri di storia se ne parla poco o se ne parla in modo edificante:
Il mio parere è certamente diverso e più problematico: Credo infatti, e spero di potere dimostrare che:
1) Nei primi anni ottanta Berlinguer tentò una vera svolta, strategica e non solo tattica, culturale e non solo politica;
2) L’ispirazione della svolta non era solo e soprattutto rivolta a recuperare un’identità del passato ma anche a rinnovarla profondamente per fare i conti con la realtà in rapida e pericolosa trasformazione;
3) Non si riduceva a una denuncia o a buone intenzioni, ma in grande parte diventava azione politica concreta e per anni ottenne risultati rilevanti;
4) Fu ostacolata e alla fine vanificata non solo da fattori oggettivi soverchianti (…)né solo dall’azione degli avversari ma anche dalla resistenza e dal dissenso interni al partito che lo stesso Berlinguer aveva modellato;
5) La svolta non prese mai una forma organica e compiuta ma non fu per questo meno radicale: emerse piuttosto attraverso una serie di scelte eloquenti;
6) Fu una proposta animata e spesso imposta da Berlinguer in base a un suo personale ripensamento, al suo potere carismatico in consonanza con un sentimento popolare, e facendo leva su occasioni che la situazione gli offriva;
7) Per questo ritengo legittimo usare l’espressione un «secondo Berlinguer» senza considerarlo un’icona, ma anche senza ridurlo a sognatore di «reami immaginari».

Il recupero del conflitto di classe

Dove cogliere i primi segnali di una svolta?
La vulgata giornalistica, e anche quella successiva storiografica, li hanno visti alternativamente, in due momenti: il XIV congresso del 1979, che sanzionò la decisione del Pci di non sostenere più in futuro governi che le escludessero; oppure la riunione straordinaria della Direzione dopo il terremoto in Irpinia del 1980 nel quale fu avanzata la proposta di un «governo degli onesti» imperniato sul Pci. Due decisioni che l’opinione pubblica effettivamente interpretò come fine di un ciclo politico. Tuttavia tale datazione a me pare inesatta e fuorviante. La decisione del congresso infatti non escludeva affatto una rapida riedizione delle «larghe intese», a certe condizioni. E la proposta successiva di un «governo degli onesti» non aveva alcuna possibilità di realizzarsi: chi erano gli «onesti» e quanti erano disponibili a partecipare a un governo guidato dal Pci? Non si vedeva insomma una nuova politica, ma solo lo sforzo di tenere alcune porte aperte.
La svolta effettiva cominciò invece a manifestarsi in alcuni atti concreti. In prima battuta, l’opposizione vincente del Pci alla decisione del governo di tagliare una piccola quota dei salari per finanziare nuovi investimenti, che i sindacati avevano accettato e invece i lavoratori respingevano. Subito dopo, e ben più impegnativa, la presenza diretta di Berlinguer in quella che fu la più importante vertenza aziendale che si ricordi.
Nell’estate del 1980 la Fiat inviò a 15mila dipendenti 15mila lettere di licenziamento. Gli operai si ribellarono in massa, bloccarono la produzione e i cancelli della fabbrica per 35 giorni. Furono sostenuti da uno sciopero dimostrativo di solidarietà dell’intera categoria. A tutti era chiaro che si trattava di una prova generale e insieme dell’annuncio di una controffensiva dei padroni volta a recuperare ciò che nel 1969 erano stati costretti a concedere o a tollerare. Sul piano sindacale era dall’inizio evidente che per i lavoratori quello scontro non era destinato a finire bene. Per una serie di ragioni. La Fiat era realmente in difficoltà. Non per una crisi congiunturale di mercato o di produttività, reale ma superabile; ma perché essa stessa aveva ormai creato un esubero di manodopera, costruendo una rete di imprese cui dava in appalto funzioni produttive con lavoro precario e sottopagato. Quei 15mila licenziamenti non erano solo destinati ad allontanare le «teste calde», ma erano lavoratori che, dentro le mura della fabbrica, non servivano più; erano la ratifica di un fatto compiuto e di un piano di ristrutturazione che ricattava anche migliaia di altri, che infatti più tardi avrebbero subito lo stesso destino. I sindacati, soprattutto le confederazioni, in parte non volevano e in parte non potevano generalizzare il conflitto quanto sarebbe stato necessario per imporre un diverso tipo di ristrutturazione, perché la disoccupazione era già un problema generale. Tra i lavoratori dipendenti era inoltre cresciuto uno strato di impiegati e di tecnici che nel 1969 erano stati solidali con gli operai, malgrado la richiesta di aumenti uguali per tutti, e ora erano più incerti perché erano minacciati ma non direttamente colpiti e, soprattutto, avevano duramente pagato il costo dell’inflazione galoppante unita al punto unico di scala mobile. Nella città circostante, la semplice eventualità di dissesto della Fiat, che era da sempre il suo fiore all’occhiello, influenzava l’orientamento dell’opinione pubblica silenziosa ma non indifferente.
A un certo punto intervenne, con il consenso del governo, la proposta di un accordo bidone, ma efficace. I licenziamenti furono ritirati e sostituiti, ma in sostanza estesi, dalla proposta di cassa integrazione per 23mila dipendenti. Perché dico bidone? Perché quella colossale cassa integrazione non prevedeva l’impegno alcun impegno dell’azienda con il governo, che doveva finanziarla, di riassumere più tardi parte consistente dei lavoratori sospesi. Anzi era a «zero ore» anziché a «rotazione», diventando di fatto così un prelicenziamento., con un reddito parzialmente assicurato dallo Stato, in attesa di trovare occupazione altrove e a condizioni peggiori. Su questa base nasce, organizzata e spontanea insieme, la manifestazione dei «quarantamila» nel centro di Torino per chiedere la ripresa del lavoro. Anche l’Flm, pur sapendo che si trattava di una sconfitta, e malgrado un esteso dissenso operaio, firmò, si può dire impose, l’accordo.
Ho ricostruito nel dettaglio la vicenda per far emergere un interrogativo essenziale. Perché, in una vertenza così compromessa in partenza, Berlinguer andò ai cancelli per sostenere gli operai senza riserve? Perché, dopo essere stato dubbioso e lontano da lotte vincenti, ora si comprometteva in uno scontro probabilmente perdente, raccogliendo un commovente entusiasmo operaio ma aprendo un fossato (come subito disse Romiti) con il padronato più moderno e potente? Basta leggere le cose che disse davanti a quei cancelli per capirlo senza alterarlo. E’ falso quello che pubblicò la stampa. Egli non incitò in alcun modo all’occupazione della Fiat. Disse agli operai: «spetta a voi decidere sulla forma della vostra lotta, a voi e ai vostri sindacati giudicare gli accordi accettabili. Ma sappiate comunque che il Partito comunista sarà al vostro fianco, nei momenti buoni e in quelli non buoni». Era un linguaggio che non si sentiva da anni. L’affermazione rinnovata del carattere del partito, nazionale e di classe. Non erano però parole di circostanza. Esprimevano una scelta meditata e convinta, implicitamente autocritica. Comunque evolvesse la situazione politica, o qualunque strada si aprisse per il Pci, la premessa necessaria era ricostruire un rapporto di fiducia reciproca con i lavoratori, contare sulla loro combattività, senza intaccare l’autonomia sindacale, ma senza rinunciare a una presenza in prima persona del partito nelle lotte di massa.
La scelta trovò conferma ancor più chiara negli anni seguenti,e questa volta con maggior successo: la battaglia sulla scala mobile che tenne il centro dell’attenzione per tutti i primi anno ottanta.

(…) la sconfitta operaia alla Fiat fu vissuta, e assunta dall’intero padronato italiano, come un esempio e, dai lavoratori, come un pesante ricatto. (…) Un solo argine difendeva in parte la condizione operaia: l’accordo firmato pochi anni prima da Agnelli e Lama sulla scala mobile. Partì dunque, dal 1981, una
campagna di stampa che si proponeva di essere «persuasiva», per costruire il consenso almeno di una parte del sindacato e dell’intellettualità democratica. Non chiedeva la radicale abrogazione della scala mobile, ma una correzione dei suoi aspetti perversi, concentrando il tiro sull’eccessivo appiattimento salariale che essa provocava, sul fatto che proteggeva solo una parte dei lavoratori escludendone altri, e rinnovando la richiesta di una «politica dei redditi».
Questi argomenti, pur ponendo problemi reali, non erano solidi, e lasciavano trasparire ben più radicali intenzioni. Non era vero che la scala mobile proteggeva una parte privilegiata di operai, anzi proteggeva un poco la massa crescente dei lavoratori che, nelle piccole imprese, non avevano alcun potere contrattuale. Non era vero che l’appiattimento salariale punisse particolarmente le competenze, perché al contrario era ormai diffuso il «fuori busta», che premiava la fedeltà o il crumiraggio. Era vero invece che in altri paesi europei la scala mobile non c’era, ma era compensata da altri strumenti di protezione (il salario minimo per legge, decenti sussidi di disoccupazione anche per i giovani disoccupati, borse di studio). Non era vero soprattutto che il salario reale in Italia crescesse, anzi declinava per il peso di oneri indiretti.
Ma la mistificazione maggiore in quella campagna contro la scala mobile era un’altra: il facile ritornello sulla «politica dei redditi» ancora una volta usato come il torero usa il suo drappo rosso.
In una situazione persistente di «stagflazione», una «politica dei redditi» era una necessità ed era già in atto: in parte imposta dal nuovo mercato del lavoro, in parte imposta dal potere pubblico. Sostegno ideologico e materiale ai consumi relativamente superflui, salvataggio di imprese decotte e aiuti a pioggia, e senza vincoli, alle grandi imprese esportatrici, tolleranza rispetto a una gigantesca evasione fiscale, trasferimenti monetari assegnati a fini clientelari, protezione e privilegi concessi alle varie forme di rendita: tutto al di fuori di ogni piano di sviluppo, dunque in gran parte riversato sul debito pubblico, al prezzo di una lievitazione dei tassi di interesse che, a loro volta, contribuivano all’inflazione. Lo smantellamento della scala mobile, e con essa l’indebolimento di un potere contrattuale del sindacato, era insomma un prezzo da pagare, necessario perché l’economia non affondasse e altri interessi venissero invece protetti.
La campagna di «persuasione» era penetrata in certi settori del sindacato (la Cisl e la corrente socialista della Cgil) e in una parte del ceto medio; ma ancora non tanto da ottenere il consenso nella classe operaia e nell’intellettualità democratica più avvertita. Nel 1982 la Confindustria aumentò quindi la pressione minacciando di sottrarsi unilateralmente all’accordo del 1975. E da Palazzo Chigi venne la sciagurata risposta. Nel 1983, appena diventato presidente del consiglio, Bettino Craxi avocò infatti al governo il diritto di dirimere la questione, conquistando per sé la patente di decisionista e per il Partito socialista un ruolo di punta ben superiore al misero 11% di voti che aveva appena raccolto. Cra XI infatti emise un decreto che tagliava ope legis di alcuni punti la scala mobile. I lavoratori capirono che non si trattava solo di alcuni spiccioli, ma della facoltà concessa al potere politico di governare direttamente la dinamica salariale, cioè della fine della scala mobile come diritto regolato da accordi tra parti sociali. Un’ondata di scioperi spontanei attraversò quindi l’Italia, e i consigli di fabbrica convocarono una manifestazione nazionale a Roma. Berlinguer non solo condivise e sollecitò quelle proteste, ma denunciò l’illegittimità costituzionale del decreto. La Cgil, a rischio di una scissione, decise di assumere la paternità della manifestazione, che infatti fu imponente e alla quale aderirono anche organizzazioni locali della Cisl. Il Pci portò la questione in Parlamento, ricorrendo allo strumento dell’ostruzionismo (che aveva usato due sole volte in passato, contro la legge truffa e contro il Patto atlantico) e annunciando un eventuale ricorso al referendum.
Non si può onestamente negare che quella lotta intransigente segnasse una svolta di metodo e di merito. Né si può onestamente sostenere che produsse un isolamento rispetto alle grandi masse, restringesse anziché estendere l’area di opposizione del paese. Se si può, e si deve, riconoscervi un punto di debolezza, questo stava nel fatto che a essa non corrispondeva un adeguato sforzo per affiancarle una convincente proposta di politica economica alternativa.

La questione morale

Un secondo elemento, poco dopo, caratterizzò la svolta di Berlinguer. Si rivolgeva a una parte più estesa del paese, ma anch’esso in forma radicale e volutamente «scandalosa», la «cosiddetta» questione morale. Ho aggiunto l’aggettivo «cosiddetta» con un’intenzione duplice: polemica e allo stesso tempo personalmente autocritica. Polemica verso i molti che su di essa hanno costruito la leggenda di un Berlinguer moralista e per questo incapace di formulare una vera politica e portato solo alla denuncia e alla predica. Autocritica, perché, all’epoca, non ho capito tutto il valore politico di quella sua scelta, né lo spunto che offriva per un nuovo sviluppo della riflessione comunista sul tema della democrazia, più sul binario di Marx e Gramsci che su quello di Togliatti. Anzi vi vedevo un’eccessiva parentela con le invettive di Salvemini, di Dorso, perfino di Silvio Spaventa contro Depretis o contro Giolitti; e temevo il pericolo di un allontanamento dal tema centrale del conflitto di classe. E invece non era così.
Per capirlo basta rileggere il testo della lunga intervista concessa da Berlinguer a Scalfari nel 1981:

I partiti hanno degenerato e questo è all’origine dei guai in Italia. I partiti oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificante conoscenza della vita e dei problemi della gente, ideali e programmi pochi e vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, spesso contraddittori, talvolta loschi, comunque senza rapporto con i bisogni umani emergenti. Senza smantellare tale macchina politica ogni risanamento economico, ogni riforma sociale, ogni avanzamento morale e culturale è precluso in partenza.

Moralismo? Era una critica radicale dell’intero sistema politico. Quindi il rovesciamento, in un punto decisivo, dell’analisi su cui si era costruita la proposta del compromesso storico e tanto più l’esperienza dei governi di unità nazionale; ma anche una correzione del giudizio, a suo tempo plausibile, che Togliatti aveva dato sui grandi partiti che avevano partecipato all’antifascismo, e si erano incontrati nella scrittura della Costituzione, proprio per il loro carattere di massa e per le tradizioni ideali che ancora li attraversavano. Un rovesciamento del tutto realistico e perciò facilmente comprensibile alla maggioranza dell’opinione pubblica, in quel momento più che in ogni altro.
In quegli anni infatti passavano, o erano appena passati sotto gli occhi di tutti, in una sequenza incalzante, fatti clamorosi e inoppugnabili. La scoperta dei finanziamenti occulti ai partiti di governo da parte delle grandi imprese o della finanza in cambio di favori. L’oscura gestione dei soccorsi ai terremotati prima nel Belice, più tardi in Irpinia. L’abusivismo edilizio e la manipolazione dei piani regolatori. La pratica diffusa del voto di scambio ottenuto con le raccomandazioni personali o con sussidi concessi a pioggia. La consuetudine sempre più sistematica delle «pastette» accademiche o la lottizzazione delle Unità sanitarie e della televisione pubblica. Le malversazioni nelle giunte comunali e regionali come nel caso di Torino e di Genova. E questa era ancora minutaglia cui ci si era abituati o piegati. Poi vennero gli scandali maggiori, che arrivavano al vertice. L’affare Lockheed in cui furono coinvolti, non solo in Italia, diversi membri del governo e che lambì il Quirinale. La gigantesca tangente sulle importazioni petrolifere, con la mediazione dell’Eni, che finì prevalentemente in mani socialiste. L’affare Sindona e quello del Banco ambrosiano in cui emersero la collusione tra mafia, finanza e politica e che si conclusero con due assassinii. (Mi ha raccontato un testimone diretto di un incontro tra la commissione parlamentare di indagine e Sindona, in carcere, che, a una domanda di un membro democristiano, il finanziere ripose gelido: «A lei io non rispondo perché lei sa come con voi io sia stato generoso».)
Infine, e più esplosiva oltre ogni altra immaginabile, la scoperta della P2. Quasi casualmente due giovani magistrati scoprirono l’esistenza di una loggia massonica segreta, che non trattava solo affari ma si proponeva di realizzare una revisione della Carta costituzionale. E trovarono parte dell’elenco degli affiliati. C’è ancora da trasalire nel leggerli: 45 parlamentari di tutti i partiti, eccetto evidentemente il Pci che ne era il bersaglio, tra i quali due ministri, l’intero gruppo dirigente dei tre servizi segreti, 195 alti ufficiali dei corpi armati, tra i quali dodici generali dei carabinieri e cinque generali della guardia di finanza, padroni o dirigenti dei giornali e della televisione, vertici della Magistratura concentrati in sedi capaci di affossare inchieste e processi.
Criticare Berlinguer per aver sollevato la questione morale, e per avervi dato troppo peso, è dunque insensato. Semmai si può fargli la critica opposta: di averlo fatto con un certo ritardo, cioè quando ai fenomeni degenerativi troppi si erano abituati e ne traevano personale vantaggio e il sistema si era ormai costruito molte reti di protezione. Inoltre di non aver pienamente compreso che questa tendenza alla corruzione non era un’anomalia né una particolarità italiana. La storia passata, e i processi in atto in tutto il mondo, dimostravano che essa si ripresentava e si accentuava, per ragioni strutturali, nell’evoluzione del sistema capitalistico, così come burocrazia e autoritarismo politico procedevano in un sistema socialista da una troppo prolungata compressione del pluralismo politico e delle libertà individuali. Comunque, quella battaglia diede i suoi frutti, sia sul piano elettorale sia nel segnare la «diversità» del Pci. Maggiori poteva darne se fosse durata più a lungo, si fosse estesa a tutti i livelli, e fosse andata più a fondo.

Lo strappo

Un terzo elemento distintivo della svolta di Berlinguer riguardò la collocazione internazionale del Pci, e il suo rapporto con l’Unione Sovietica.
L’occasione fu offerta – è più esatto dire imposta – da due decisioni con le quali Brežnev si illuse di poter reagire alla nuova politica estera di Reagan (il cui obiettivo dichiarato era quello di sottrarre all’Unione Sovietica il ruolo di grande potenza) rincorrendolo sul suo stesso terreno. Nel dicembre 1979 l’ingresso dell’Armata rossa in Afghanistan a sostegno di un «governo amico», che non riusciva a domare una rivolta; nel 1981 la minaccia di un analogo intervento in Polonia per costringere il generale Jaruzelski a proclamare lo stato di assedio con cui soffocare un’impetuosa protesta operaia.
Considerati in sé, nessuno dei due interventi obbligava il Pci a un atto di rottura. L’intervento in Afghanistan era compiuto in difesa di un governo di dubbia legittimità, ma che aveva esteso i diritti delle donne, laicizzato lo Stato e la scuola, contro una guerriglia fondamentalista, i talebani, organizzati in Pakistan e finanziati dagli Usa. Infatti Amendola si opponeva alla sua condanna.
Berlinguer invece giustamente vedeva che la posta in gioco reale era il controllo strategico dell’Asia centrale e convinse la Direzione non solo a condannarlo, ma a introdurre nella condanna il rifiuto generale di ogni politica di potenza. La repressione in Polonia era più grave, perché la minaccia di intervento armato era indirizzata a una protesta operaia sostenuta dalla Chiesa in nome della libertà religiosa. Ma tuttavia, con lo stato d’assedio, Jaruzelski aveva evitato l’intervento esterno con un incruento stato di emergenza e con l’intenzione di cercare un compromesso. L’invasione della Cecoslovacchia di Dubcek era stata molto più grave.
La novità che spinse Berlinguer ad andare oltre la semplice condanna era un’altra: il ripetersi di quelle singole scelte esprimeva e misurava ormai la realtà di un sistema incapace di riconoscere e di affrontare la propria crisi se non con le armi. Due giorni dopo, perciò, la riunione della Direzione pronunciava una dura critica, ma egli andò in televisione e fece una dichiarazione ben più esplosiva.
Senza consultare nessuno e assumendosene personalmente la responsabilità. Non mi riferisco ovviamente al giudizio sugli avvenimenti polacchi, ribadito in modo più netto e visto come segnale di una generale difficoltà delle democrazie popolari. Mi riferisco a una frase, di ben altra portata, pronunciata davanti a milioni di persone: «La spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data di inizio nella Rivoluzione di ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca, si è esaurita. Oggi siamo giunti a un punto in cui quella fase si chiude». Per il merito, e per il metodo, quella dichiarazione creò uno sconcerto e una resistenza nei militanti e anche nel gruppo dirigente, ma Berlinguer non la corresse e ottenne il consenso della Direzione con un solo voto contrario, quello di Armando Cossutta. E Cossutta rese pubblico il suo dissenso nella forma più drastica, cioè affermando che non si trattava di una correzione ma di un vero strappo nella storia del Pci. Anche chi, come me, considerava invece quella scelta urgente e feconda, non può negare che di strappo si trattasse.
Uno strappo vistoso non è mai piacevole, ma si può affrontarlo in molti modi e con diverse conseguenze. Faccio un esempio banale, ma molto frequente, e in quel caso pertinente. Quello di una giacca di ottimo taglio e di buon tessuto, ancora complessivamente in buono stato, alla quale sei affezionato, ma alla quale si sono logorati i gomiti, e infatti temevi da tempo che si rompesse.
Quando un gomito cede puoi fare molte cose. Puoi ignorare il buco, metterci un punto provvisorio se non è troppo visibile, perché consideri che la giacca non tiene più o è fuori moda. Puoi farlo rammendare in modo che non si veda, fino a quando potrai acquistarne una diversa, che hai già visto in vetrina, ma di qualità forse più scadente e non proprio di tuo gusto. O puoi far applicare ai gomiti pezzi di pelle appropriati, che la rendano resistente e fors’anche più bella. Questa era più o meno la situazione del Pci dopo lo «strappo» del 1981 e l’opzione di Berlinguer fu la terza: il buco non si poteva più nascondere, ma poteva essere l’occasione di un radicale restauro.
L’impresa però era molto ardua. Imponeva anzitutto una risposta a complessi interrogativi sul terreno storico e teorico.
Ricognizione del passato. La spinta propulsiva dell’ottobre c’era stata realmente, aveva prodotto risultati importanti da utilizzare, o era stata una breve e generosa illusione viziata dalla matrice leninista e poi naufragata nello stalinismo? Comunque quando e perché si era esaurita ed erano falliti i suoi tentativi di riforma? Di conseguenza, il legame con quell’esperienza, che il Pci aveva mantenuto, pur senza assumerla come modello, andava liquidato come un errore di cui pentirsi, o doveva essere considerato criticamente nelle sue diverse fasi e per averlo troppo a lungo mantenuto?
Analisi del presente e della prospettiva futura. Cosa lasciava dietro di sé l’esaurimento della spinta propulsiva? Un capitalismo vincente, cui non si poteva e non si doveva contrapporre un sistema alternativo, o invece si aprivano nuove contraddizioni, emergevano forze, bisogni, finalità per costruire un nuovo tipo di società? Di conseguenza, la critica dell’Unione Sovietica poteva fermarsi alla mancanza di pluralismo e alla statalizzazione integrale dell’economia, o doveva estendersi alla progressiva rinuncia dell’originaria ambizione di perseguire la transizione verso un nuovo modello di civiltà che meritasse la parola comunista, o almeno le desse un senso? Dal semplice elenco di questi interrogativi appare evidente che lo «strappo» era per il Pci solo il punto di partenza di un lavoro di rielaborazione culturale rifondativa, senza il quale la «diversità comunista» era destinata a impallidire.
Il Pci aveva a questo riguardo risorse cui attingere: quella parte del pensiero di Marx sul comunismo come obiettivo finale, che lui stesso si era rifiutato di approfondire per non fare il «pasticciere dell’avvenire» e che le rivoluzioni del Novecento non erano storicamente in grado di assumere; quella parte del pensiero di Gramsci sulla rivoluzione in Occidente che lo stesso Togliatti riconosceva ancora non utilizzato, un marxismo antidogmatico riemerso negli anni sessanta dentro e fuori dal partito; gli stimoli migliori affiorati nell’esperienza del lungo Sessantotto italiano prima che rifluisse; un’originale tradizione del socialismo italiano e l’autentico travaglio che il neocapitalismo aveva fatto emergere nel mondo cattolico travolto dalla secolarizzazione. Era comunque un lavoro controcorrente che esigeva tempo, grandi cervelli, grande e univoca determinazione, molta schiettezza per penetrare nel senso comune.
Berlinguer non aveva la genialità di Gramsci, né la statura di Togliatti. Era però consapevole del problema, e in due scritti lo riconobbe. Da un lato cercò di stabilire un argine al «nuovismo» liquidazionista: «Non ci può essere invenzione, fantasia, creazione del nuovo, se si comincia dal seppellire se stessi, la propria storia e realtà». Dall’altro lato chiarì il carattere innovatore della ricerca in cui impegnarsi: «È necessaria per noi una rivoluzione copernicana: l’ingresso di nuovi soggetti finora esclusi dalla nostra politica come le donne, i giovani, i pacifisti, ne deve cambiare i termini e i modi». Vaste programme, avrebbe potuto ironicamente commentare, com’era suo solito, il generale de Gaulle.
Lo strappo però poneva un altro problema, che esigeva invece una risposta e una iniziativa a breve termine. Se la fase propulsiva dell’Unione Sovietica era ormai esaurita, era logico prevedere che anche il suo ruolo di grande potenza declinasse. Veniva perciò meno quell’equilibrio bipolare che aveva governato il mondo, senza che ne esistesse un altro pronto a sostituirlo, senza che si fossero compiuti passi avanti nel disarmo o che l’Onu avesse assunto maggiore autorità. Anzi Reagan contava proprio sul rilancio della corsa al riarmo per imporre al suo avversario una spesa militare che esso non era in grado di sostenere, cioè come modo efficace per trasformare in collasso il declino dell’Urss. Il problema della pace e della guerra tornava in primo piano più che mai. Tutti sanno che nella storia l’egemonia di una potenza o di una civiltà sulle altre non si impone sempre e solo con una guerra, anche se solitamente nasce e si conclude con la guerra. E tutti ormai sanno che la supremazia degli Stati Uniti aveva molti modi e strumenti per affermarsi, ma dovrebbero sapere che in quel momento entrambe le potenze in conflitto, ormai diseguali, avevano in mano però un bottone per trascinare il mondo a un comune olocausto.
Io considero il maggior merito politico e intellettuale di Berlinguer, negli ultimi anni della sua vita, quello di avere segnalato il pericolo e di avere effettivamente fatto il tentativo di scongiurarlo.
La forza di un partito di opposizione in un paese di secondo rango non permetteva grandi risultati, ma quel tentativo non era velleitario e neppure inutile. Quel che ottenne è dovuto al fatto di essere stato condotto con il carattere di una svolta: dalla semplice predicazione della coesistenza pacifica, e ancor di più dal tiepido atlantismo del 1975, a una linea di pacifismo attivo e una proposta di disarmo bilaterale. Il primo passo concreto in tale direzione fu compiuto con una «tournée» per incontrare i maggiori esponenti della sinistra nel Terzo mondo: in Cina, dove fu, dopo tante polemiche, accolto come un capo di Stato, a Cuba, per un lungo colloquio con Fidel, nel Nicaragua già aggredito dai Contras (oltre ai ripetuti interventi a sostegno dei palestinesi massacrati in Libano).
Quei contatti gli servirono non solo per ricostruire un rapporto di amicizia incrinato, ma per misurare l’influenza e il prestigio che il Pci ancora manteneva in partiti e stati diversi tra loro e diversi da lui, ma uniti dalla volontà di rianimare l’ispirazione di Bandung. Era un successo insperato, ma ottenuto proprio per la proposta politica che offriva.
Ben altra accoglienza e risultato ebbe il tentativo analogo di convergenza sul tema della pace e del disarmo tra le sinistre europee. Con alcuni leader europei ma di piccoli paesi o di scarso potere (Palme, Brandt, Benn, Kreiski) trovò una sintonia. Ma non nei grandi partiti e nei grandi paesi. La discriminante fu presto chiara, concreta, intorno alla scottante questione dei missili «di teatro», vicenda rimasta nella memoria manipolata, amputata e alla fine cancellata.
Il Consiglio atlantico decise, come orientamento di massima, l’installazione di missili a medio raggio ai confini dell’Urss, quindi in grado di colpirla in pochi minuti per evitare una facile ritorsione. Brežnev, al solito grezzo, replicò installando subito missili atomici equivalenti. Il Patto atlantico a sua volta ne avviò l’installazione in Germania e in Italia (mentre in Francia e in Inghilterra c’erano da tempo, costruiti in proprio). La situazione dunque si aggravava perché dietro quelle decisioni stava il problema del «primo colpo». Un freno venne per fortuna da due novità. Brežnev morì e, al vertice dell’Unione Sovietica, lo sostituì Andropov, che aveva un altro orientamento e un’altra intelligenza. Egli avanzò una proposta che sparigliava le carte, quella di una riduzione bilaterale e controllabile dei missili di teatro fino alla loro scomparsa. A sostegno della proposta, primo passo di un disarmo atomico graduale ma bilaterale, nacque, dal basso, il movimento di massa più esteso e più incisivo dai tempi del Sessantotto in quasi tutta l’Europa. Anche in Italia, all’inizio dal basso, un movimento fu promosso dal Pdup e da gruppi cattolici, ma l’adesione fu subito ampia e visibile: una manifestazione a Roma, poi il blocco della base di Comiso, represso dalla polizia con dure bastonate. Berlinguer ci mandò un telegramma di solidarietà e da quel momento il Pci mobilitò tutta la sua forza, in Sicilia con l’impegno di Pio La Torre (che presto venne assassinato dalla mafia), e con una nuova manifestazione a Roma, questa volta unitaria e veramente imponente. La proposta di Andropov fu bloccata dal rifiuto dell’Inghilterra e della Francia di accettare che le loro armi atomiche venissero considerate parte di un’intesa sul disarmo, ma il movimento servì ad allentare per pochi anni la tensione e come stimolo a un accordo solenne sul disarmo (Helsinki 1985), che il Congresso americano si rifiutò però di ratificare.
Si può quindi onestamente negare che il Pci di Berlinguer abbia assunto in quegli anni un nuovo ruolo internazionale, abbia raggiunto qualche risultato, e contribuito attivamente a porre le basi di un nuovo tipo di pacifismo? E che ben altri l’abbiano sabotato?

Un bilancio provvisorio

La rassegna dei discorsi, delle intenzioni, delle scelte prevalse tra il 1980 e il 1985, dimostrano che il Pci in quel periodo ha effettivamente tentato una svolta profonda, culturale e politica, che non si limitava a enunciare buone intenzioni ma trovava il modo di tradurle in iniziativa politica concreta, cioè di produrre lotte di massa e un’opposizione incisiva al governo, in Parlamento e nel paese, e che infine il suo tratto dominante non era quello di un ritorno al passato, né la denuncia del presente, ma quello di una ricerca innovativa.
Il dubbio nasce, ed è più che legittimo, su un altro terreno. Quello dell’efficacia. Valutare una nuova politica sulla base delle intenzioni che la animano, del progetto che propone, dell’ascolto che ottiene, o anche dei suoi iniziali successi, è sempre un azzardo. Ancor più lo è nel caso del tentativo di Berlinguer.
Molte delle innovazioni strategiche avevano la forma di orientamenti o di princìpi più che di una piattaforma precisa, sorretta da un’analisi adeguata e da esplicite autocritiche. Alcune delle aspre lotte ingaggiate avevano basi forti e quindi ottenevano innegabili risultati, ma il loro esito finale era ancora incerto. La linea politica aveva certo un filo conduttore coerente, ma lasciava scoperte questioni in quel momento premonitrici ma decisive: per esempio la scuola, la televisione commerciale e l’industria culturale, l’insorgente degrado ambientale: cioè quel tema della cultura diffusa sulla quale la nuova destra avrebbe costruito il suo decollo. Il motore della svolta era Berlinguer, forte di un largo consenso e un’autorità nel suo partito e anche oltre, ma incerta era la convinzione del gruppo dirigente e incerta, più che il consenso, la capacità del partito di tradurla in iniziativa. Tutti questi nodi si potevano sciogliere con molto tempo e molta determinazione, e invece nel 1984 Berlinguer morì.
Di qui nascono interrogativi pesanti. Quanto di ciò che quel tentativo si proponeva era raggiunto o raggiungibile? Cercare una vera risposta sulla base dei dati di fatto disponibili e delle esperienze già compiute nel 1985 non sarebbe serio; ancor meno formulare su quella base limitata una previsione sugli anni seguenti. Ciò che si può e si deve fare è solo un aggiornamento della situazione reale in cui il Pci si trovò dopo cinque anni dalla svolta del 1980, cercare da un lato i punti di forza recuperati e promettenti, e dall’altro le difficoltà emerse: definire insomma l’eredità che Berlinguer lasciava ai suoi successori. A questo dedicherò qualche breve riflessione concentrata su quanto è decentemente provabile.
Per cogliere i punti di forza è opportuno banalmente partire da una corretta valutazione dei risultati elettorali. È nata allora ed è ormai da tutti accettata infatti l’idea che dal 1979 il Pci entrò in una fase di costante e forte declino elettorale, come accadeva a tutti i partiti comunisti. Tale idea è falsa, e particolarmente lo è se ci si riferisce agli anni del «secondo Berlinguer», per deprezzare l’efficacia della svolta da lui compiuta. Nelle elezioni generali infatti del 1983 il Pci prese il 30%: nuovamente di più che nel 1972, mentre in Europa il Pcf passava dal 25% al 15%, i maggiori partiti socialdemocratici europei persero molti voti, in Italia la Dc crollò al 33% e il Partito socialista, malgrado le leve di governo conquistate, restava inchiodato all’11%. Il risultato più sorprendente venne nel 1984: il Pci arrivò al 33,3%, primo partito italiano.
Si è detto e ripetuto che quel successo era apparente, perché legato all’emozione, al sentimento e al rispetto generato da una morte inattesa e trasmessa «in diretta». Il che è certamente vero, ma è una spiegazione che deve a sua volta essere spiegata. Il sentimento può trascinare un popolo di militanti, il rispetto può esprimersi in molti modi, ma non è affatto detto che conquisti un elettorato più vasto e si esprima in un voto a favore di una politica, soprattutto nel momento in cui assume un carattere più netto e viene contestata da ogni parte. Questo succede solo se l’emozione si incontra con correnti di consenso, magari non per tutti eguali fra loro ma molto vaste.
Più che nei numeri, del resto, il consenso si misura nell’intensità. Per questo consiglio al lettore di ricordare, o di vedere per la prima volta, il film del funerale di Berlinguer, che testimonia con le immagini, non solo una partecipazione sterminata, molteplice, commossa, ma un popolo in piedi. Nel quale confluivano: un rinnovato rapporto di fiducia con la classe operaia; la denuncia della corruzione politica; l’apertura di dialogo con il nuovo femminismo; l’autonomia finalmente inequivocabile rispetto alla disciplina dei blocchi internazionali e il rilancio del pacifismo, unite alla volontà di non abbandonare l’obiettivo di una trasformazione generale del sistema sociale. In ciascuno di questi elementi restavano aperti molti problemi e si presentavano grandi ostacoli, che non ho nascosto e non nasconderò. Ma rappresentare il Pci del 1984 indebolito e in rapido declino, politicamente isolato e separato dal paese, immobile nel pensiero e nell’iniziativa, mi pare abusivo.
Navigando controcorrente esso aveva invece conquistato, o almeno consolidato la sua forza e aperto qualche nuovo varco. La «svolta» non era insomma stata priva di risultati concreti, anche se restava tuttora una scommessa.
Quali erano i punti di debolezza che durante quegli stessi anni anziché essere rimossi erano diventati ancor più evidenti e ipotecavano il futuro? Ovviamente, anzitutto e soprattutto, il rapporto di forza complessivo che si era ormai affermato sul piano economico, sociale, culturale, non solo in Italia, ma nel mondo, durante gli anni precedenti e che andava avanti. Potrei aggiungere semplicemente che la svolta intervenuta nella politica del Pci negli anni ottanta avrebbe avuto ben altre risorse e ben maggiori risultati se fosse intervenuta, com’era possibile, dieci anni prima, quando la situazione era molto più aperta, e le forze sulle quali essa poteva influire molto più ampie e incisive. Mi limito a considerare lo stato reale delle cose: la maggiore difficoltà che la svolta di Berlinguer incontrò, esitò a riconoscere, o forse non aveva la forza di affrontare, cioè la questione del partito.
Anche qui è utile partire dai numeri e dalla loro analisi. Secondo la logica, una nuova politica – più nettamente di opposizione, rivolta soprattutto a stimolare una mobilitazione sociale e culturale, finalmente attenta alle trasformazioni in atto con spunti innovativi ma senza cedimenti ideali – avrebbe dovuto conquistare più militanti che occasionali elettori, più partecipazione che diffusa simpatia, più tra giovani che tra vecchi, più nelle zone geografiche dove il conflitto sociale e culturale, pur declinante, era stato già duro, e suscitare invece dubbi laddove la simpatia verso l’Unione Sovietica aveva antiche radici. Ma i dati organizzativi non rispettavano la logica. Il consenso elettorale reggeva, e per una fase cresceva, ma gli iscritti al partito gradualmente continuavano a diminuire: la composizione sociale, il livello e la qualità della partecipazione, le classi di età, i luoghi di radicamento non corrispondevano a una svolta politica che invece aveva bisogno di uno strumento adeguato per superare il muro del monopolio mediatico e la rete delle clientele di cui l’avversario disponeva.
A molti era perciò evidente, anche allo stesso Berlinguer, il problema delle sacche di resistenza, di incomprensione, o di passività che limitavano l’efficacia del suo tentativo di innovazione. Egli era però convinto, a ragione, di poter contare su una popolarità, e una sintonia, nella base del partito, tali da permettergli non solo di procedere, ma di farlo con discorsi e scelte molto nette, con poche mediazioni, disposto anche a pagarne il prezzo o a mettersi da parte. E persuaso che, sommandosi e diventando esperienze concrete, il partito sarebbe cambiato senza lacerarsi. L’intendance suivra non era solo un’invenzione napoleonica, era riaffiorata più volte nella pratica dei partiti comunisti, con effettivi risultati nel bene e nel male.
Ma questa volta c’era un’altra faccia della realtà, nella questione del partito, che sfuggiva. La peculiarità del Pci, sulla quale Togliatti aveva fatto leva, era quella di essere «un partito di massa» che «faceva politica», agiva nel paese, ma si insediava anche nelle istituzioni e le usava per realizzare risultati e costruirci delle alleanze. Era un elemento costitutivo di una via democratica.
Una medaglia che aveva però un suo rovescio. Non mi riferisco solo, o soprattutto, alle tentazioni di parlamentarismo, all’assillo di arrivare comunque a una collocazione di governo, ma a un processo più lento. Nel corso di decenni, e particolarmente in una fase di grande trasformazione sociale e culturale, un partito di massa diventa più che mai necessario, così come la sua capacità di porsi problemi di governo. Ma da quella stessa trasformazione viene molecolarmente modificato a sua volta, nella propria composizione materiale. Per esempio: la formazione delle nuove generazioni, anche tra le classi subalterne, avveniva ormai prevalentemente nella scuola di massa e ancor più attraverso l’industria culturale; gli stili di vita e i consumi coinvolgevano l’intera società, compresi coloro che non potevano accedervi ma nutrivano la speranza di arrivarci; le «casematte» del potere
politico crescevano di importanza ma si decentravano in molte sedi e favorivano coloro che le occupavano; il ceto politico, anche quando restava all’opposizione e incorrotto, via via che l’isteria anticomunista si attenuava, stabiliva rapporti quotidiani, se non di amicizia, di commistione, di abitudini e di linguaggio con la classe dirigente. Tutti fenomeni anche positivi, perché una via democratica trae vantaggio da un più alto livello di istruzione generale, da un’individualità più libera dalle costrizioni della povertà o delle superstizioni, da una moltiplicazione delle sedi del potere pubblico. Ma anche moltiplicazione di meccanismi integrativi e omologanti.
Il Sessantotto stesso aveva iniettato nella società elementi libertari e antagonisti, ma aveva seminato l’idea che un sistema sociale si può cambiare senza un progetto, un’organizzazione e un potere alternativo, ma solo con movimenti spontanei, intermittenti e contestativi. L’esperienza del compromesso storico, per ragioni simmetriche, aveva accelerato il processo di omologazione nella costituzione materiale del partito. Quale era quindi di fatto il Pci su cui Berlinguer tentava di costruire una nuova politica? La massa di militanti condivideva il suo nuovo indirizzo e ci credeva, ma faticava a capirlo, e a praticarlo. Le sezioni erano da tempo disabituate a essere sedi di lavoro di massa, di formazione quotidiana di quadri, erano straordinariamente attive solo nell’organizzazione delle feste dell’Unità, e ancora di più nelle scadenze elettorali nazionali e locali; le cellule sul luogo di lavoro erano poche e delegavano quasi tutto al sindacato. Nei gruppi dirigenti diffusi la distribuzione dei ruoli era molto cambiata: il maggior peso e la selezione dei migliori si erano trasferiti dalle funzioni politiche a quelle amministrative (comuni, regioni, organizzazioni parallele, come le cooperative). Quindi maggiore competenza, ma minore passione politica; più concretezza ma orizzonte politico più ravvicinato. Gli intellettuali erano stimolati alla discussione ma era declinata la loro partecipazione all’organizzazione politica e la stessa discussione tra loro era spesso eclettica.
Un’eccezione si presentava solo nel settore femminile dove un legame diretto tra vertice e base creava un fecondo subbuglio.
Ovviamente il tramonto del partito di massa, ideologicamente definito, legato a una precisa base sociale e da essa alimentato non colpiva solo il Pci. Altri partiti veri, come un tempo la Dc, avevano da molto tempo perduto quei caratteri ed erano degenerati quasi per scelta, cioè per perseguire l’obiettivo del potere comunque. Ma ciò non toglie che anche il Pci era minacciato da una divaricazione tra ciò che pensava e ciò che era.
Fino al livello intermedio comunque, il tentativo di Berlinguer negli anni ottanta di ribadire una diversità riscuoteva un consenso prevalente, anche se non sempre totale né attivo. Altro discorso merita il vertice del partito. E va fatto, senza schematismi, nel bene e nel male. Il gruppo dirigente reale, il cui peso andava oltre le cariche, non era composto da parvenus. Contava ancora su quadri di notevole valore formati ai tempi della clandestinità, in grande maggioranza rappresentava la generazione che aveva partecipato all’esperienza partigiana e gestito le grandi lotte di resistenza negli anni più duri della guerra fredda. Erano stati così selezionati all’ VIII congresso. L’XI congresso aveva emarginato una minoranza, ma le nomine di Longo e poi di Berlinguer, come segretari, erano nate dall’intenzione di garantire un certo equilibrio tra orientamenti diversi, sia pure senza sdoganare la sinistra ormai dispersa. Nella lunga e perdente fase del compromesso storico non si può onestamente dire che il nuovo segretario avesse trovato un’opposizione (salvo che, paradossalmente, nello stesso Longo). Le sole critiche intermittenti erano state espresse da Giorgio Amendola, ma rientrarono senza lacerazioni, perché in parte accolte. E infatti Berlinguer evitò un ricambio nel gruppo dirigente, se non con il contagocce e senza dargli un preciso carattere politico.
Il quadro cambia però profondamente di fronte alla svolta del 1980: questa volta l’unità del gruppo dirigente non era più reale. Sia la scelte che spesso compiva in solitudine, sia la linea generale che nel loro insieme quelle scelte lasciavano trasparire, trovarono al vertice dissensi espliciti, e a volte aspri. Berlinguer non defletteva e sfidava i suoi critici a contestarlo pubblicamente, essi non ritenevano di avere la forza per farlo. Ma poiché quei dissensi si intrecciavano con dubbi o renitenza dei quadri intermedi (ancora speranzosi che fosse possibile riannodare il filo spezzato delle larghe intese, e soprattutto giungere a una riconciliazione con Craxi) impedivano al partito una scossa chiarificatrice, senza la quale il reclutamento di forze nuove era assai difficile. Il modo di pensare e di lavorare del Pci non rendevano sicuri i suoi propositi né chiamavano a parteciparvi. Si apriva così un circolo vizioso. Ho ragione di credere (uso questa espressione perché non è corretto attribuire impegnative intenzioni a qualcuno che non può più smentirle) che proprio negli ultimi mesi della sua vita Berlinguer fosse deciso a rompere tale circolo vizioso: fosse cioè convinto della necessità di aprire una vera battaglia politica nel partito e sulla forma partito. Se fosse vissuto qualche anno di più molte cose sarebbero andate altrimenti.
Resta però un punto delicato da chiarire. Non è detto in qual senso egli potesse contare pienamente sul sostegno di una vasta maggioranza del gruppo dirigente per contrastare la cosiddetta «destra».
Tra i suoi sostenitori c’era anche qualche nostalgico del compromesso storico, e non pochi che ritenevano comunque necessario, in tempi difficili, mantenere l’immagine di una piena unità che non c’era. I suoi oppositori non erano più solo gli amendoliani di sempre, che ora si chiamavano miglioristi, ma anche parte di coloro che erano sempre stati considerati centristi, fedeli di Longo: personaggi di spicco come Bufalini, Lama, Pajetta, Di Giulio, Perna, per certi aspetti lo stesso Cossutta. Anche la vecchia-nuova sinistra (Ingrao, Trentin, per esempio) che pure condividevano la svolta conservavano ancora qualche comprensibile ruggine verso il suo promotore.
Mettendo insieme, in un provvisorio bilancio, la situazione del Pci nel 1985, i successi riscossi e gli ostacoli emersi in quei cinque anni, non posso onestamente trovare un quadro coerente e già assestato, una tendenza prevalente che consentisse un giudizio sicuro. E tuttavia vi trovo gli elementi per formulare un’ipotesi non campata per aria sulla quale commisurare e spiegare le vicende degli anni successivi. Che è la seguente.
La svolta tentata da Berlinguer era esplicitamente mossa da un ambizioso obiettivo di medio periodo: contribuire a un effettivo passo in avanti sulla via democratica al socialismo in Italia e in Europa. Una tale ambizione, per ragioni oggettive e immaturità soggettive, al vaglio dei fatti non reggeva, l’obiettivo era fuori portata, tuttavia la forza che era riuscito a conservare, le nuove scelte e le nuove idee che vi erano penetrate permettevano al Pci di non essere travolto dalla crisi dell’Unione Sovietica, di evitare la dissoluzione e l’abiura, dunque di tenere in piedi e rifondare in Italia una sinistra di ispirazione comunista rilevante e vitale. Anche tale obiettivo era difficile, ma non impossibile. Se una tale sinistra fosse stata ancora in piedi nel momento del disfacimento della Prima repubblica, lo svolgimento non solo della storia del Pci, ma anche quello della democrazia italiana avrebbe assunto caratteri diversi da quelli che oggi constatiamo.


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