Dal gorgo al gorghetto

Dal gorgo al gorghetto

di Roberto Musacchio -
Stare nel gorgo era l’espressione che usò Pietro Ingrao, mi pare ad Arco di Trento in occasione di un appuntamento della mozione che si opponeva allo scioglimento del Pci, per motivare il suo intendimento che era quello, allora, di rimanere comunque nel nuovo partito. Si trattava di rimanere laddove si addensavano, in modo turbinoso come appunto in un gorgo, le correnti fondamentali. Poi, come noto, la storia non andò così.
In molti decisero, io anche,  di non stare in quel mulinare ma di provare invece a risalirla la corrente. L’impresa non era certo facile ma pure, per quasi un ventennio, come si dice, si è andati provando e riprovando. Sbattendo anche la testa. Ora, invece, sembra di essere tornati indietro nel tempo, che tutto si vada concentrando in quel che si muove nel corpo del PD o delle sue propaggini più ravvicinate.
Mi è venuto in mente questo pensiero, come un lampo, quando di mattina, domenica 12 maggio, nell’andare all’appuntamento convocato per ricordare Giorgiana Masi e protestare contro la marcia “per la vita” , in realtà contro il diritto delle donne a scegliere, provocatoriamente collocata in una data così simbolica, ho scorso sui giornali e trovato, anche in quelli più vicini da sempre, tutt’altre priorità. Appunto, in particolare, l’addensarsi del tutto della politica intorno ai sommovimenti del PD.
Proverò a motivare quello che ho avvertito come una sorta di dolore. Sono io, mi sono chiesto, che non capisco che il nostro futuro è lì? Che non mi rassegno per inguaribile minoritarismo e, anche, per la volontà narcisistica di non dichiararmi sconfitto? Non voglio autoconsolarmi ma, per dirla ancora all’Ingrao, non mi sono fatto persuaso.
Innanzitutto ci sono differenze profondissime tra allora ed oggi che dovrebbero farci riflettere. Quando si decise di cambiare nome al Pci, o scioglierlo a seconda dei punti di vista, vi fu un sommovimento profondissimo che transitò quasi del tutto dai sentimenti alla politica. Ricordo che l’Unità aveva in prima pagina una vignetta, o uno scritto, che mostrava la sofferenza dei militanti con la didascalia “cuori”. Ma pure la dimensione del dolore si convertì in azione, resistenza, ripensamento di fondo, riprogettazione. Furono i militanti stessi a farlo, travolgendo gerarchie e cerimoniali. Ma trovarono anche una parte di gruppo dirigente a frapporsi al corso degli eventi. Prima più rari, poi più numerosi e determinati. Accompagnando il proprio prendere parola con atti significativi come il voto in dissenso nelle aule parlamentari sulla guerra in Irak.
Fu una riflessione profondissima sul perché si era giunti a quel punto e sulle conseguenze che il cambio del nome avrebbe avuto sulla natura del soggetto, “nomina sunt consequentia rerum”, i nomi sono conseguenti alle cose, si scrisse.
Io, francamente, non vedo cose paragonabili oggi quando pure siamo in presenza di un passaggio scioccante come quello che porta il PD al governo col PDL. Certo c’è un malessere larghissimo ma dire che si stia trasformando in riflessione politica adeguata mi pare difficile sostenerlo. Mancano per altro anche quegli atti di assunzione di responsabilità da parte di chi ha ruoli dirigenti o di rappresentanza istituzionale. Il voto pressoché bulgaro dato dagli eletti del PD ad un governo che tradiva quello che avevano sostenuto in campagna elettorale la dice lunga. Voto accompagnato da distingui che a volte fanno venire in mente l’antico detto, “peggio la toppa del buco”, o da considerazioni  di politica politicien che più che a Machiavelli fanno pensare a un guicciardinismo dei nostri giorni.
Ma anche la reazione “dal basso”, mi appare altra da quella di un tempo. Eppure si è rotto un tabù consistente e cioè quello del non andare con Berlusconi. Però, a ben guardare, come tutti i tabù non accompagnati da propri totem,o meglio sarebbero proprie bandiere, questo ha definito una identità tutta in negativo, come è stata quella che il PD ha posto alla propria coscientizzazione di massa. E per 20 anni il mai con Berlusconi si è accompagnato a una convergenza, con Berlusconi, su tantissime scelte di quelle che cambiano la natura di un Paese e delle coscienze dei suoi cittadini. Dalle pensioni, alle leggi sul lavoro, alle privatizzazioni c’è solo da metterle in fila per provare finalmente a prenderne coscienza.
Fino a convergere su quel governo Monti che qualcuno di noi ha provato a definire costituente mentre vi era un affannarsi di tanti a circoscriverlo a parentesi. E fino a porre al centro della carta d’intenti dell’alleanza intorno al PD, quel rispetto degli impegni europei che è precisamente la madre di una lunga fase costituente che si è aperta in realtà 20 anni fa e che ha portato a questa Europa postdemocratica e a questa modificazione radicale dei partiti che hanno contribuito ad edificarla: tutti. Se si guarda alle cose con rigore non si potrà non vedere come quella carta d’intenti, che si è fatta plebiscitare al proprio “popolo”, rimane, nel suo cuore europeo, praticamente intatta nel passaggio dal possibile governo Bersani “contro” Berlusconi a quello Letta con il Cavaliere “nero”. Il tutto con un ex segretario della Cgil a reggere il timone del PD al governo col Pdl.
Ma questo, purtroppo, è solo l’ultimo atto di un lunga fase che ha mutato il senso dei soggetti. Ripensavo ad un’altra epoca di grandi turbolenze esistenziali come quella del compromesso storico e dell’unità nazionale. Ebbene allora i criticatissimi, giustamente, compromessi, pure producevano leggi come l’equo canone e il piano decennale per le case popolari, la riforma sanitaria e psichiatrica, la 285 per il lavoro. Scelte insufficienti ma con le quali la parola riforma manteneva il suo senso.
Poi invece sono arrivate la riforma Dini sulle pensioni, la Treu sul lavoro, le privatizzazioni ecc. Tutte col voto decisivo di PDS e poi DS e poi PD. Significherà qualcosa? Avrà cambiato qualcosa nella natura di un corpo politico e nella coscienza di sé del proprio popolo? Avverto in molta discussione di oggi una mancanza totale di rigore, quando non addirittura uno strumentalismo che sarebbe stato impossibile con la “vecchia” politica.
Ma come si fa dopo aver presentato una alleanza come portatrice del cambiamento possibile, anzi l’unico, di fronte alla sua sconfitta elettorale e al suo disfacimento a far sostanzialmente finta di niente, a non motivare e provare a spiegare il perché di una avventatezza, che se non fosse tale sarebbe una mistificazione? E come si fa a circoscrivere la discussione all’interno dello stesso recinto che ha partorito la debacle, per altro assai prevedibile, e cioè quello del centro sinistra? O della “cultura di governo” che in tempi di pilota automatico sembra quasi una barzelletta? O di quel socialismo europeo che, come il centrosinistra, è assai più parte dell’immenso problema che abbiamo di fronte che strumento della sua risoluzione? Il tutto sembra più una volontà di esclusione aprioristica che di discussione inclusiva.
Ma ancora, come si fa a chiedere di andare a discutere liberamente nel congresso del PD da parte di chi ha votato il governo PD-PDL esprimendo una “sofferenza” che più che sua è di chi questo governo lo subisce, e come se gli atti formali in politica nulla contassero? O a proporre che i movimenti trovino in quel congresso la loro sede quando gli esponenti dei movimenti eletti da quel partito hanno votato anch’essi lo stesso governo a esplicitazione purtroppo di un rapporto di subalternità che vale non solo nelle aule parlamentari?
Posso dire che così la politica muore? Che così si entra nel vero populismo che è fatto di irresponsabilità e mistificazione? Forse l’ultima vera rivolta del “basso contro l’alto” fatta in nome di una vera rottura politica è stata quella che ha duramente colpito la sinistra alternativa dopo il suo fallimentare essere al governo con il centrosinistra. Vorrei dire a difesa di quella sinistra che, almeno, non avevamo modificato il nostro popolo al punto da fargli accettare cose inaccettabili.
Dal senso di quella sconfitta bisognava ripartire, e non siamo stati in grado di farlo. Ma era inutile farlo perché ormai “la vita è altrove”, come dice chi ci porta nel nuovo gorgo, anzi sembrerebbe quasi tentato dalla rimozione di rigirare il film di questi 20 anni all’indietro? Anche qui le cose mi paiono dire ben altre. Mai come oggi, specie in Italia, le forze del gorgo sono ridotte ai minimi termini, e non solo come numeri, ma come identità ed idee. E lo stare nel gorgo produce disastri che si verificano ancora più velocemente che nel passato.
Si può agire come se si pensasse che fuori crescono solo “i barbari” o “sunt leones”? Io  sono invece  convinto che con i barbari camminiamo, giustamente, per le stesse strade e che fuori c’è l’altro mondo possibile. E che poi l’Impero Romano si è fatto ormai “Bisanzio”. E per questo penso che quello in cui ci invitano a entrare più che un gorgo è un gorghetto e che, anche per questo, ancora una volta io proverei invece a risalire la corrente.


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