«Gravi colpe di ribelli e Usa»

«Gravi colpe di ribelli e Usa»

Intervista a Roger Owen di Giuseppe Acconcia -
Sulla sanguinosa escalation della crisi siriana, abbiamo raggiunto al telefono negli Stati Uniti il professor Roger Owen, docente di Storia del Medio oriente all’Università di Harvard. Lo studioso britannico è autore di due saggi considerati ormai un classico sulla storia della regione: «State, Power and Politics in the Making of the Modern Middle East» e «A History of the Middle East Economies in the 20th Century».
Professor Owen, come inquadra l’attacco israeliano dei giorni scorsi nel complesso scenario dell’attuale crisi siriana?
È una pagina misteriosa di cui non conosciamo che pochi elementi. L’obiettivo dell’aviazione israeliana pare fosse un centro di ricerca militare. Penso che ci fossero due obiettivi indipendenti in quell’attacco, da una parte, infrastrutture militari, dall’altra, depositi di armi chimiche. Non sono andati oltre un certo punto, poiché i missili iraniani avrebbero protetto strutture militari di Hezbollah.
Gli attacchi di ieri hanno anche chiarito quante notizie errate arrivano dalla Siria in merito all’uso di armi non convenzionali?
Il presidente Obama ha parlato in tante occasioni di questa «linea rossa». Ma le rivelazioni sull’uso strumentale della notizia, secondo la quale le armi chimiche hanno fatto la loro comparsa nel conflitto, dischiude una verità più profonda: gli insorti fanno qualunque cosa e le informazioni che arrivano a noi implicano che sia responsabilità esclusiva del regime. È tutto poco chiaro.
A questo punto sorge il dubbio su quale sia la vera situazione sul campo.
Non si può disegnare una mappa della Siria. Il governo assicura di controllare alcune città e non altre. All’Esercito sono rimaste solo due divisioni su cui può fare affidamento il regime. In alcuni contesti, i militari sono costretti ad indietreggiare e gli insorti avanzano. Di sicuro l’esercito regolare vorrebbe controllare i confini, in particolare con l’Iraq e la Giordania perché è da lì che arrivano le armi. Lo stesso avviene a nord al confine con la Turchia e lungo la frontiera libanese. Questa situazione permette un passaggio di materiale bellico da una parte all’altra del Paese che destabilizza il regime.
E favorisce l’aumento del flusso di profughi o si tratta di numeri esagerati?
A Daraa e Damasco si vive un’atmosfera di guerra: un senso di distruzione e pericolo. Per questo molti scappano, come succede durante ogni campagna militare. Sembra ripetersi la storia dei rifugiati palestinesi del 1948. Gli unici numeri accettabili vengono forniti dalle Nazioni Unite. L’unico Paese che avrebbe interesse a gonfiarli è la Giordania per ottenere maggiori aiuti dalle organizzazioni internazionali.
Mentre un contesto a parte è la regione nord-occidentale kurda? E il ruolo delle minoranze.
È necessario distinguere tra gli interessi del Partito dei lavoratori kurdi (Pkk) e il resto dei kurdi che cercano di avvantaggiarsi della situazione sul campo. È un via vai continuo di delegazioni di kurdi turchi e iracheni a Washington. I kurdi iracheni suppongono che la loro amministrazione sia più efficiente del governo al-Maliki, in realtà sono sempre due famiglie che gestiscono gli aiuti internazionali. I cristiani e i sunniti attendono, se possono permetterselo, partono per Beirut. La cosa più preoccupante è la presenza di alawiti che spostano musulmani sunniti all’interno dei villaggi. È molto interessante guardare ai druzi, che non hanno alcun appoggio esterno e sono costretti a rifugiarsi sulle montagne per proteggersi.
E così è quasi impossibile comprendere se esiste un’opposizione siriana e da chi sia composta?
Esiste un’opposizione ideologica e locale che usa armi e soldi che arrivano da Qatar e Arabia Saudita. Ci sono i qaedisti che sono ben organizzati e non esiste un legame tra queste forme di ribellione. I jihadisti hanno stabilito comitati e corti. Non possono mettere in pratica un’interpretazione restrittiva della Sharia. E neppure possono imporsi sulla popolazione perché sono pochi in numero, non come in Afghanistan, ma pronti a morire. I Segretari di Stato Hilary Clinton e John Kerry hanno tentato di riunificare l’opposizione. Hanno iniziato con l’intenzione di dare aiuti alle ong ma non ne hanno trovate. Dovrebbero pensare di sostenere le associazioni di donne che operano nel nord del Paese: sono le uniche che sanno cosa serve e controllano dei loro network. Infine, i siriani di Washington e Londra agiscono come delle lobby per favorire un intervento ma anche in questo caso non sono un movimento strutturato e coordinato.
Se il tentativo di unificare le opposizioni è fallito, qual è la strategia degli Stati uniti?
Sanno solo come comportarsi quando il gioco è finito. Sanno cosa fare se Assad fosse sconfitto: sosterrebbero l’invio di militari sauditi e qatarini, facendo rientrare i profughi nel paese. E temono che il controllo passi ai Fratelli musulmani. Ormai è troppo tardi per intervenire, preferiscono che i siriani esauriscano le loro forze. Mentre la Russia non vuole che il regime cambi. Sa bene che Assad dispone di un buon esercito, capace di abbattere l’aviazione turca. Conta poi il sentimento generale che Israele non attaccherà l’Iran, ma il timore di missili che possano arrivare dal sud del Libano terrorizza Tel Aviv.
Come l’economia egiziana anche quella siriana è a pezzi?
L’economia non collassa mai, la gente trova il modo per riprendersi, e questo non vuol dire che si tratta di ribelli. Sono persone che vivono nel libero mercato. Di sicuro queste crisi comporteranno il ritorno a economie pianificate. E così la sinistra che è completamente sparita, annullata o incorporata, potrebbe tornare, prima di tutto in Egitto. La gente comune vive un momento rivoluzionario, soprattutto le donne della classe media vivono un sentimento di liberazione sessuale, poco importa quanto ci vorrà perché questo entri nella legislazione.
La trasformazione in corso che sta attraversando il Medio oriente ha dei precedenti storici?
Sì, la Russia del 1917-18 dove i leader locali organizzavano comitati popolari e sapevano chi contattare. Tuttavia, le società del Medio oriente sono patriarcali, gestite da autorità religiose e politiche. Le rivoluzioni poi riguardano politici e giudici. Se questi vengono epurati nessuno può fare più nulla. Se in Libia si esclude chi non ha avuto a che fare con Gheddafi, chi rimane? L’altro esempio è la rivoluzione francese, con la magnifica irruzione della gente anche se disorientata, dove la piazza crea un processo rivoluzionario. Arrivando all’inganno americano, con un documento che inizia con il popolo e la necessità di creare un ordine politico nuovo, stabilirsi e obbedire a nuove regole.

Il Manifesto – 10.05.13


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