I tre pilastri per curare il Paese rischiano di peggiorare la malattia

I tre pilastri per curare il Paese rischiano di peggiorare la malattia

di Roberto Romano -
Il quadro macroeconomico e di finanza pubblica delineato prima nella nota di aggiornamento del Def del 21 marzo 2013, poi nel Def del 10 aprile 2013, con annesso Pnr (Programma nazionale di Riforma), costituiscono l’impalcatura di riferimento dell’azione della Pubblica amministrazione. Sono documenti fondamentali per la finanza pubblica, e concorrono al cosiddetto semestre europeo. In particolare il Pnr delinea le misure-azioni che saranno la base della Legge di Stabilità, probabilmente l’atto legislativo più importante del governo e del parlamento. Il 7 maggio il governo si è impegnato a rivedere il Def e, immagino, il Pnr. Il discorso di insediamento di Enrico Letta ha delineato una serie di misure correttive, dalla revisione dell’Imu alla riforma Fornero sul mercato del lavoro e della previdenza (esodati), ma il quadro complessivo rimane immutato.
Sostanzialmente si chiede un alleggerimento delle politiche di austerity, ma le politiche di riforma strutturali delineate permetterebbero di uscire dalla crisi economica. Nell’esercizio controfattuale sull’impatto macroeconomico delle riforme (pag. 8, Def) si stima una maggiore crescita dell’1,6% nel 2015, del 3,9% nel 2020, mentre nel lungo periodo, quando saremo tutti morti (Keynes), l’effetto macroeconomico delle riforme adottate sarebbe del 6,9. Ovviamente sono soprattutto le privatizzazioni-liberalizzazioni a fornire il maggior contributo nel lungo periodo di 4,8 punti percentuali.
La riforma del mercato del lavoro, invece, ha un impatto significativamente più contenuto: nel lungo periodo è di 1,4, mentre per il 2015 è dello 0,4%. Forse tutta la fretta della ex ministra Fornero non era così indispensabile. In questo senso una rimodulazione della riforma Fornero è necessaria. Infatti, il problema del mercato del lavoro non è l’offerta, ma la domanda contenuta e dequalificata delle imprese, soprattutto se consideriamo il profilo formativo dei giovani. Letta ha parlato di riforma dei contratti a termine, evitando accuratamente di sottolineare che la qualità dell’offerta dei giovani è troppo alta rispetto alla domanda. Un problema che riflette la specializzazione produttiva delle imprese italiane, che dal 1996 crescono meno di quelle medie europee perché producono beni e servizi a bassissimo contenuto tecnico; la maggior parte dell’innovazione è importata dall’estero. Il caso più eclatante è quello dei pannelli solari e delle energie rinnovabili: su 100 pannelli installati, 98 sono importati, 1 è costruito da una impresa estera con sede in Italia e 1 è realizzato da una impresa italiana. Peggio ancora va per il risparmio energetico e l’energia eolica.
L’idea di Letta, meglio ancora del Def, è che il graduale miglioramento della situazione dei mercati finanziari non si è ancora pienamente trasmesso all’economia reale. In realtà, le misure adottate nel 2011 e nel 2012 non solo hanno travalicato le iniziali previsioni dal lato del contenimento della spesa pubblica, si è tagliato di più di quello che si era preventivato, ma hanno concorso all’effetto demoltiplicatore del Pil, con una caduta del Pil cumulato (2012-2013) del 3,7%, unitamente ad una caduta degli investimenti, in particolare di quelli in macchinari, del 10,6%. L’effetto a valle, cioè i consumi delle famiglie, è stato quello di una caduta verticale della spesa delle famiglie del 7% nel periodo 2012-13. Inoltre, la de-crescita del Pil per il 2013 avrebbe potuto essere superiore se non si fosse provveduto, via decreto legge, alla retrocessione di parte del credito delle imprese verso le PA, cioè 20 mld per il 2013 e 20 mld per il 2014.
Diversamente, la minore crescita del Pil per il 2013 non sarebbe stata pari al meno 1,3%, piuttosto al meno 1,8%. Le previsioni dell’Ocse confermano la contrazione del Pil del 2013 (meno 1,5%), mentre per il 2014 si stima una maggiore crescita dello 0,5%. Stime estremamente generose, che sottovalutano l’effetto negativo delle misure di contenimento della spesa pubblica, unitamente all’aumento della pressione fiscale.
Il Fmi, mediamente più credibile dell’Ocse, è molto meno ottimista. Inoltre, la riduzione dei tassi di interesse della Bce (0,5%) non dovrebbero contribuire più di tanto alla crescita economica. Infatti, Mario Draghi ha sottolineato che questa è una misura preventiva. Il vero tema della Bce è l’inefficacia delle politiche monetarie sui tassi; la riduzione dei tassi di interesse non raggiunge chi dovrebbe raggiungere. Alla fine i maggiori beneficiari della riduzione dei tassi rimangono i paesi più forti. La mancata crescita del Pil ha effetti negativi sull’indebitamento netto. Le stime più aggiornate consegnano un indebitamento per il 2013 del 3,3%, contro il 2,9% previsto dal Def, che cresce anche nel 2014 al 3,8%. Sono infatti in molti a immaginare una ulteriore manovra correttiva di almeno 10 mld di euro.
Il dibattito politico concentra la sua attenzione sull’Imu, la modifica della riforma Fornero e la riduzione del costo del lavoro. Ma sono misure efficaci per uscire dalla crisi? Non si tratta solo di valutare la copertura finanziaria, ma di capire se queste misure sarebbero capaci di rispondere ai problemi.
Prendiamo in esame il costo del lavoro. La riduzione del costo del lavoro italiano, già tra i più bassi a livello europeo e con gli orari di lavoro più lunghi, potrebbe avere un qualche effetto? Difficile, soprattutto se consideriamo che l’Italia ha già perso il 25% della propria base produttiva, mentre la recessione economica salverà solo quelle appena decenti. Forse il nodo è come creare nuove imprese per realizzare beni e servizi coerenti con il mercato internazionale e con la formazione dei nostri studenti, a proposito di disoccupazione giovanile.
Sulle imposte, in primis Imu e Iva, occorre una attenta valutazione. Se si interviene su queste due imposte, occorre una manovra correttiva immediata. Infatti, il Def include queste entrate nel proprio quadro programmatico, e qualora Imu e Iva non fossero confermate sarebbe necessaria una manovra correttiva dell’1,5% del Pil tra il 2014 e il 2015. L’Imu rimane l’unica imposta (vera) patrimoniale. Indiscutibilmente deve essere rimodulata, ma è un’entrata che dovrebbe qualificare proprio il federalismo fiscale di cui qualcuno avverte la necessità, anche per evitare di fare il federalismo fiscale sulle imposte erariali (Irpef e simili). Quindi cautela nel denunciare interamente l’Imu. Di diverso segno è l’aumento dell’Iva di un punto percentuale, la quale si presta a diverse interpretazioni. Infatti, le entrate delineate nel Def da questa imposta sono oggettivamente sproporzionate rispetto all’andamento del 2012. Eccesso di fiducia o necessità di far quadrare i conti?
La sensazione e l’umore delle persone sono quelli delle cronache del “tormentato periodo che va dal 1929 al 1936… dove … gli economisti accademici …. non avevano saputo offrire pressoché nessun suggerimento politicamente accettabile circa un piano d’azione governativo, in quanto essi erano fermamente convinti della capacità d’autoregolamentazione del meccanismo di mercato ….. l’economia prima o poi si sarebbe ripresa da sola, a patto che la situazione non venisse aggravata ulteriormente dall’adozione di un’errata politica economica, inclusa la manovra fiscale” (Minscky). Non solo è stato perso quel vasto patrimonio di conoscenze che hanno concorso all’uscita della crisi del ’29, ma persino il buon senso circa le forme e i modi per realizzare politiche capaci almeno di incidere sulle vere spese improduttive e sui vantaggi comparati che si potrebbero realizzare con delle misure di buon senso.
Al netto del patto di stabilità europeo, che certamente non aiuta la domanda effettiva (Fmi), sarebbero possibili tante soluzioni alternative per ri-modulare la spesa pubblica e per contrastare (in parte) la caduta del Pil.

Il Manifesto – 03.05.13


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