Natta: l’ultimo segretario del PCI rottamato da chi ha distrutto la sinistra italiana

Natta: l’ultimo segretario del PCI rottamato da chi ha distrutto la sinistra italiana

di Maurizio Acerbo*

Nel centenario della nascita di Alessandro Natta doveroso ricordare la biografia di antifascista, “illuminista, giacobino e comunista”, la gentilezza, l’umiltà, la simpatia, l’onesta’ intellettuale, la grande cultura, la fermezza nei principi nella ricerca e confronto sempre aperti verso le altre culture e la realtà concreta.

Lo ricordo come segretario vigliaccamente rottamato da una classe dirigente di giovani quarantenni ambiziosi che in 25 anni hanno distrutto la sinistra italiana.

Lo ricordo come ultimo segretario del PCI, dopo Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer (secondo il noto slogan che dimenticava Bordiga). Natta era un dirigente comunista formatosi nel “partito nuovo” di Togliatti in cui era entrato al ritorno dalla prigionia alla fine della guerra. Magri lo definisce nel suo “Il sarto di Ulm” come “il conciliatore” diventato segretario a causa dell’improvvisa morte di Berlinguer:

“prevalse a larga maggioranza un uomo di grandi virtù (cultura, correttezza, esperienza, autonomia di giudizio), ma anche di grande prudenza nel manifestare o provocare dissensi, non per conformismo, ma perché preoccupato in primo luogo dell’unità del partito e dei riflessi che ogni contrasto poteva avere sulla pubblica opinione, Alessandro Natta. Che da tempo si era messo in disparte, non ambiva a fare il segretario, nel partito godeva di grande rispetto ma limitata popolarità, e che scelse come braccio destro Aldo Tortorella, uomo di fervide idee ma di altrettanta prudenza.
Se si vuol sintetizzare in poche parole e in modo un po’ scherzoso l’ispirazione dei brevi anni della segreteria di Natta, si può dire che egli voleva portare avanti la politica di Berlinguer ma limitandone le asprezze e, quanto più possibile, con il consenso di Giorgio Napolitano. In anni normali, e quando esiste un’unità di fondo, questo tipo di sforzi conciliatori, che non escludono differenze tattiche, possono riuscire. Ma quelli non erano anni normali”.

Natta portò avanti il referendum a difesa della scala mobile voluto da Berlinguer avendo contro ampi settori del partito e della sua formazione economico sociale. Ottenne il 46%, non poco ma fu considerata una sconfitta da quelli che non avevano più voglia di un partito di classe (si tende invece a dimenticare la vittoria nel referendum del 1987 contro il nucleare). Probabilmente Natta e il suo PCI, quello di Togliatti e Berlinguer, era destinato alla sconfitta come lo furono tutte le forze di sinistra che venivano dal movimento operaio (vedi Labour nell’Inghilterra anni ’80). Certo quelli che lo fecero dimettere e lo sostituirono nel 1988 oltre al “nuovismo” avevano davvero poco da proporre per quanto riguarda il rilancio di un progetto socialista e di alternativa. E di quel patrimonio conservarono solo gli aspetti meno esaltanti e una rendita di posizione.

Lo ricordo Natta anche come il dirigente a cui fu affidata la requisitoria contro il gruppo del Manifesto nel 1969. E il paradosso che fu proprio lui da segretario, portando a termine un riavvicinamento avviato con l’ultimo Berlinguer della svolta a sinistra, che aprì le porte alla confluenza del PdUP (il partito che raccoglieva almeno un pezzo di quel gruppo) nel PCI dopo 15 anni. Non a caso Aldo Garzia intitolò “Da Natta a Natta” la sua storia del Manifesto e del PdUP. 

Lo ricordo come primo firmatario con Pietro Ingrao della mozione del no alla liquidazione del PCI, un no che non era motivato da orientamenti conservatori o identitari ma dalla rivendicazione del patrimonio originale dei comunisti e del movimento operaio italiano:

“la storia del movimento operaio, dei socialisti, del comunisti e del Pci rappresentano non già un peso o una remora di cui occorra liberarsi, ma un patrimonio fecondo, una leva valida per suscitare il rinnovamento del pensiero e della prassi politica, non soltanto dei comunisti”.

Dopo lo scioglimento del PCI Alessandro Natta si ritirò dalla vita politica. Non aderì nè al PDS nè a Rifondazione Comunista. Probabilmente erano entrambi i progetti distanti – per ragioni diverse – da quel grande partito di massa nel quale aveva militato per una vita intera. Nel 1993 in occasione del referendum sulla legge elettorale si schierò convintamente per il NO in difesa della quota proporzionale con la stessa convinzione con cui negli anni ’80 si era opposto alle proposte di “grandi riforme” di Craxi.

Lo ricordo per i libri che ci ha lasciato come la bellissima biografia di Giacinto Menotti Serrati a cui lavorò negli ultimi anni e la sua storia dell‘Altra Resistenza, quella degli internati italiani in Germania che aveva vissuto in prima persona. E anche la prefazione alla ricerca di Romolo Caccavale sui comunisti e antifascisti italiani esuli in Urss assassinati durante il terrore staliniano, quella che definiva “un’opera di verità e giustizia a cui noi comunisti eravamo tenuti per un’esigenza morale e politica”. Natta incoraggiò quel lavoro di ricostruzione degli elenchi delle vittime e delle loro storie. Ricordava che la consapevolezza di quei fatti non datava certo al 1989 quando quegli orrori furono tardivamente usati per giustificare un cambiamento della ragione sociale del partito e al tempo stesso non fu assolutamente reticente.

Vale la pena rileggere qualche brano di quella prefazione del novembre 1994:

Per ciò che riguarda il PCI bisogna datare dalla riunione del Comitato Centrale del novembre 1961, che segnò il momento decisivo della riflessione critica e della resa dei conti con lo stalinismo, il riconoscimento esplicito, ufficiale che il meccanismo repressivo aveva colpito in URSS, prima e dopo la guerra, anche comunisti e antifascisti italiani” (…) A me sembra che già allora sulle cause e sulle responsabilità sia stato detto l’essenziale, e cioè che la netta scelta di campo compiuta dal PCI nel grande scontro ideologico e politico tra le due guerre impegnò e divise l’Europa e il mondo, e l’adesione e il sostegno a fondo dati alla politica dell’URSS determinarono quel legame di ferro che finì per coinvolgere anche il PCI in un processo dalle conseguenze tragiche. Il dato vero della corresponsabilità non fu il silenzio di fronte ai colpi – forse nemmeno tutti immediatamente conosciuti nella loro gravità – diretti contro comunisti o anarchici italiani, ma la giustificazione delle condanne capitali nei confronti dei massimi dirigenti della Rivoluzione d’Ottobre. Non vedo infatti come fosse possibile una distinzione: subire, e in qualche misura avallare anche, l’ondata terroristica che, dopo l’assassinio di Kirov del dicembre 1934, travolse tanta parte del gruppo dirigente – politici, militari, intellettuali – dell’Unione Sovietica e levare d’altra parte la protesta, operare una rottura politica quando quel meccanismo infernale giunse a travolgere degli italiani – fossero incomprensibili o spaventosamente intuibili, come nel caso di Robotti – i motivi della violenza persecutoria. Voglio dire che tacere o consentire sulla condanna di Bucharin rendeva estremamente difficile, se non impossibile, un qualche intervento per la sorte di Rimola o di Robotti. Questa continua a essere la mia valutazione e non voglio, mi pare chiaro, assolvere Togliatti o altri dirigenti comunisti. Anzi, per rendere più chiaro il discorso sulle corresponsabilità voglio chiamarmi in causa, e con me tanti della mia generazione. Avevo vent’anni all’epoca dei «grandi processi», e furono una remora ad entrare nelle file clandestine del partito comunista. Ma li ho intesi allora non secondo la logica staliniana del tradimento, bensì (e sbagliavo anch’io, naturalmente, come tanti altri) secondo quella giacobina. Più tardi, quando aderii al PCI, non avevo certo dimenticato quella lezione feroce, anche se ignoravo il capitolo italiano e le proporzioni spaventose della repressione, ma c’era stata la prova della guerra e il contributo straordinario dell’URSS (…) così a me pare corretto ricondurre il dramma degli emigrati italiani durante il regime e il tempo di Stalin alla vicenda complessiva dello stalinismo e riconoscere una corresponsabilità politica generale e non certo una connivenza per paura o viltà. (…) E’ vero che su quei fatti dolorosi, su quel complesso di tragedie personali e famigliari venne a lungo osservato il silenzio. (…) E soprattutto è mancato da parte del PCI un impulso e un impegno all’indagine e alla ricostruzione storica, per restituire il nome e l’onore alle vittime dello stalinismo, forse per una sorta di rimozione di sventure e sofferenze tanto più intollerabili e indicibili perché provocate non dagli avversari, ma perché provenienti dalle stesse file del movimento comunista. Bisogna riconoscere che si è sbagliato (…) non c’era in queste storie di emigrati antifascisti, di combattenti, di lavoratori, nulla che potesse rappresentare un’offesa o un avvilimento per le idee e per la storia dei comunisti italiani, anzi da questa enorme sciagura emergono per lo più testimonianze inaudite di fede e di fedeltà politica. (…) Oggi un periodo storico sembra essersi concluso. Guardando al domani – la politica senza scommessa sul futuro perde ogni luce e calore – sono sempre più convinto della necessità di mantenere vivo il senso della propria identità e del proprio percorso. La storia conosce dei grandi tormenti. Ma le idee animatrici riescono a riemergere, a suscitare nuove forze e speranze, senza richiedere alcuna rimozione del passato. Ma le idee animatrici riescono a riemergere, a suscitare nuove forze e speranze, senza richiedere alcuna rimozione del passato. Non ci sono pagine nella storia di un grande movimento ideale e politico che sia possibile o giusto cancellare. La coscienza critica del cammino compiuto, inclusi i suoi momenti più duri e più cupi, è sempre una condizione essenziale per correggere, innovare, progredire” (prefazione al libro di Romolo Caccavale, Comunisti italiani in Unione Sovietica. Proscritti da Mussolini soppressi da Stalin, Mursia 1995)

E vorrei citare alcune parole dal suo libro su Serrati scritto negli anni ’90 ma uscito postumo:

Sia chiaro: per me vale di più l’ingenuo e ostinato Serrati, con il suo programma massimo di mutamento globale e definitivo, dei tanti e saputi maestri che vengono oggi svelando gli abbagli e gli inganni, plurisecolari ormai, degli immortali principi, le illusioni e i prezzi sanguinosi delle utopie, delle società nuove, dei disegni di liberazione dell’uomo, dei sogni di un mondo di liberi e uguali. Meglio Serrati, testa dura e irreducibile, delle tante animule pavide e accomodanti, presunti vincenti, sotto le insegne mentite della modernità e del realismo, nella perennità del capitalismo. (…) A me accade di sentirmi ancora del tutto dentro alla storia del movimento operaio italiano, dei socialisti e dei comunisti, con la coscienza critica, peraltro già desta – direi, se non temessi di apparire presuntuoso – negli anni giovanili e ben avvertita da tempo, delle contraddizioni, delle scelte sbagliate, dei prezzi troppo eccessivi, dei limiti per timore o inerzia non valicati, e nello stesso tempo con l’orgoglio dell’immensità dell’opera compiuta“ (Alessandro Natta, Serrati vita e lettere di un rivoluzionario, Editori Riuniti 2001)

 “se non temessi di apparire presuntuoso”, scriveva un uomo ormai anziano che era stato segretario del più grande partito comunista del mondo occidentale.

In tempi come questi emerge la distanza enorme tra lo stile e lo spessore di dirigenti politici come Alessandro Natta e la pochezza anche etica e umana delle attuali classi dirigenti, in particolare di quelle che pretendono di rappresentare la sinistra.

* segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea

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