La riforma regolamentare del senato: un accordo fra Grasso e Calderoli per depotenziare il ruolo del parlamento

La riforma regolamentare del senato: un accordo fra Grasso e Calderoli per depotenziare il ruolo del parlamento

Gianluca Schiavon

È stato accolto con una vasta ed entusiastica eco la riforma del regolamento del Senato, voluto dal Presidente Grasso e redatto dal leghista Calderoli. Il testo è, infatti, frutto di un accordo Destra/PD/M5S che ha stravolto circa un terzo del regolamento ed è stato recepito tre giorni fa, non senza imbarazzo, di alcuni senatori di Sinistra italiana.
Le disposizioni sono già state oggetto di puntuale, purtroppo solitaria, critica da parte di Massimo Villone su “il manifesto” e di Roberto Musacchio, mentre hanno trovato una risposta disattenta, se non assente, dalle forze che si sono battute per la difesa della Costituzione al referendum del 4 dicembre.
La stampa si è, generalmente, soffermata sulla nuova disciplina condivisibile in materia di ‘transumanza’ di senatori eletti con una lista da un gruppo parlamentare all’altro. Le modifiche anti-trasformismo politico appaiono, tuttavia, come un piccolo rimedio a una patologia della società e, persino, del costume contemporanei.
Il regolamento di ciascuna Camera, a dispetto del nome, non è una fonte normativa secondaria, è una fonte di diretta derivazione costituzionale approvato solo a maggioranza assoluta dei componenti. E’ classificato come fonte primaria atipica non solo perché non è una legge, ma perché non è sottoposto al sindacato della Corte costituzionale.
Cambiare il regolamento del Senato rappresenta, dunque, un fatto di importanza capitale perché, da un lato, costituisce una modifica per il concreto funzionamento dell’organo costituzionale per antonomasia, il potere legislativo, e, dall’altro, manifesta la cultura politica e giuridica di chi lo propone e lo vota.
Proprio la concezione che sottende i cambiamenti approvati è il principale problema per chi, come noi, sostiene la democrazia partecipata. Il nuovo regolamento, infatti, parte dall’idea che bisogni rendere efficiente il funzionamento del Parlamento riducendo i tempi delle decisioni comprimendo al minimo la discussione generale sui provvedimenti legislativi e sterilizzando i diritti delle opposizioni parlamentari.
Il dettaglio degli articoli modificati non si comprende se non si considera la volontà di agevolare il lavoro delle maggioranze parlamentari. Le principali modifiche sono la equiparazione del voto di astensione alla non partecipazione al voto, mentre, come lascito dello Statuto albertino, l’astensione di un senatore era equiparata al voto contrario, l’estensione delle procedure di approvazione legislativa straordinarie con le commissioni in sede deliberante e redigente che tolgono all’aula del Senato la centralità nella redazione del testo normativo.
Lo stesso orientamento di fondo ha spinto a introdurre il contenimento del tempo degli interventi in aula a un massimo di dieci minuti a dilatare il tempo del lavoro delle commissioni e ad abolire il parere del CNEL nella legislazione economica. Le commissioni permanenti subiscono un’omogeneizzazione rispetto alla Camera facendo assumere un ruolo ancor più preponderante alla “commissione bilancio” e a quella per gli “affari europei” che con quella “affari costituzionali” costituiscono il motore effettivo del procedimento legislativo.
Siamo di fronte alla sistematizzazione dei vecchi slogan “per una democrazia decidente, il governo realizzi il suo programma e l’opposizione si opponga”. Peccato che in Italia, non solo le più significative riforme di attuazione costituzionale – dallo statuto dei lavoratori, alla creazione del sistema sanitario nazionale – non sono state approvate in poche ore, ma hanno visto un ampio e fruttuoso dibattito parlamentare.
Peccato che in Italia il problema sia opposto, vale a dire, un ruolo soverchio e abusivo del Governo nella legislazione. Il sistema della decretazione d’urgenza con la conseguente conversione in pochi giorni da parte delle Camere, i continui maxiemendamenti e il ricorso al voto di fiducia hanno trasformato i parlamentari in soldatini chiamati a rispondere alla chiama dei capibastone costretti ad accettare testi scritti da cima a fondo dagli uffici legislativi di palazzo Chigi.
Appare in questo quadro sorprendente la convergenza tra Grasso, Calderoli, Romani e Taverna perché dimostra quanto il lavoro di difesa della lettera della Costituzione sia appena cominciato. Non sfugge che la cifra della riforma del regolamento del Senato sia l’insofferenza alle procedure democratiche e la ‘tecnicizzazione’ del procedimento legislativo come se una decisione presa in commissione sia più efficacie perché presa tra pochi intimi e spogliata di un eccesso di politicizzazione presente nell’aula parlamentare.
Viene ammantata di novità e di modernizzazione una vecchissima critica alle assemblee democratiche che trova espressione niente meno che in Cicerone nel suo detto “senatores probi viri Senatus, autem, mala bestia”
Pietro Grasso non è nuovo a una simile concezione non solo perché non ha trovato necessario dichiarare, a distanza di un anno, cosa ha votato sul referendum del 4 dicembre scorso, ma perché ha dimostrato una volontà pervicace di semplificare gli istituti della democrazia parlamentare nella pratica e nella teoria. Forse il suo punto di vista è dovuto al pragmatismo  e sostanzialismo giuridico derivante dal mestiere di procuratore antimafia. Quale che sia la ragione, nell’attività presidenziale ha ridotto al minimo l’utilizzo del voto segreto, ammesso nell’attività dell’aula voti di fiducia ed emendamenti ’a canguro’ a profusione. Nei discorsi da seconda carica dello Stato ha teorizzato la necessità di riforme costituzionali atte a ridurre il potere delle minoranze parlamentari. Va ricordato, in particolare, il suo intervento ufficiale del 4 marzo 2014 nel seminario sulla figura di Francesco Cossiga e sulla sua ipotesi di grande riforma.
Il sedicente ‘ragazzo di sinistra’ pare, quindi, essere ispirato più da Craxi e Napolitano nella cultura istituzionale che dai padri costituenti. Un motivo in più per svelare le contraddizioni di Liberi e Uguali in cui convivono culture giuridiche e democratiche potenzialmente contrapposte, in questo mutuando le antinomie del centro-sinistra bersaniano.
Una considerazione finale, fuor d’opera, sull’uomo Pietro Grasso. Appare un sintomo di egocentrismo e paternalismo esagerati il continuo riferirsi ai tre segretari di Partito che lo hanno investito (Speranza, Fratoianni e Civati) come “i tre ragazzi”. Non sembra, certamente, un segno di rispetto nei confronti dei tre dirigenti, ma, soprattutto, costituisce un atteggiamento di inutile superiorità verso la politica che lo ha osannato coralmente senza chiedergli conto dell’attività svolta a Palermo e a Roma.

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