
Una città da sgomberare: la Roma meticcia e la Roma “cattiva”
Pubblicato il 31 ago 2017
Stefano Galieni
Prosegue ancora il presidio a Roma, fra Via dei Fori Imperiali e Piazza Venezia, in uno dei luoghi più visibili della città attraversato da decine di migliaia di turisti ogni giorno, il presidio dei rifugiati sgomberati il 19 agosto scorso dallo stabile che occupavano da 4 anni in Via Curtatone, nei pressi della Stazione Termini. In molti hanno seguito le fasi dello sgombero realizzato senza alcun preavviso all’alba di sabato 19 agosto, in una città ancora pressoché deserta. Gli agenti di polizia sono entrati come per un normale controllo, saliti all’ultimo piano e da lì, famiglia per famiglia, hanno chiesto di uscire. Prelevati con dei pullmn sono stati portati nei locali dell’Ufficio Immigrazione di Roma e verificata la loro posizione giuridica (tutti rifugiati). Dopo tempo è stato permesso loro di rientrare ad uno ad uno, a ritirare le proprie cose per poi lasciare definitivamente l’immobile. L’agenzia Habeshia ha immediatamente inviato un appello a governo e prefettura per veder salvaguardati i diritti dei deboli. Da allora 12 giorni di tensione continua. All’inizio una parte degli sgomberati, quelli che non hanno trovato alloggio da parenti o amici, hanno dormito nei giardini della vicina Piazza Indipendenza, mentre iniziavano le trattative con le istituzioni per trovare loro una sistemazione. Questo almeno era stato fatto trapelare invece rapidamente si è compreso quali erano le soluzioni prospettate: separazione dei nuclei familiari, con alloggio temporaneo, o in centri di accoglienza ( in cui chi ha già lo status di rifugiato non dovrebbe stare), poi fuori Roma, nel reatino, in un Comune il cui sindaco non risultava neanche avvisato di tale disposizione. Un sindaco del Pd che rapidamente ha chiarito quanto il suo territorio era indisponibile all’accoglienza di altri profughi. Giovedì 24 agosto le forze dell’ordine sono intervenute con gli idranti per cacciare i rifugiati dai giardini di Piazza Indipendenza, un filmato che è apparso anche in molte tv mainstream. Qualcuno ha avuto il coraggio di chiamarli “scontri”, certo è che sentire un funzionario, prossimo ormai a divenire questore, esperto di ordine pubblico (divenne famoso già anni fa quando incitava i suoi uomini a caricare i lavoratori della Tyssen in una piazza vicina), che impone di “spezzare un braccio a chi lancia oggetti” dovrebbe far riflettere molto. Pochi su questi fatti hanno espresso precisa posizione, da MSF, la cui sede e à poche decine di metri dal palazzo sgomberato, al Vaticano che ha esplicitamente condannato la violenza della polizia, ad alcune forze politiche come Rifondazione Comunista e Sinistra Italiana ai movimenti di lotta per il diritto all’abitare che hanno ribadito più volte come “Il diritto alla casa non ha confini”. Dopo un inconcludente incontro convocato in prefettura, il giorno successivo e dopo la splendida manifestazione della Roma meticcia di sabato 26 agosto, sono accadute molte cose che rischiano di far deteriorare ulteriormente una tensione di per se alta nella capitale. Alla fine della manifestazione, splendida e gestita con estrema intelligenza dai, rifugiati, dai movimenti di lotta per la casa e dalle poche forze politiche presenti, si decideva di restare in presidio permanente in attesa di nuovi incontri con le istituzioni. Ore e giornate concitate, in cui rimbalzavano come palline da flipper, dichiarazioni securitarie di buona parte dell’estabilshment politico (difficile distinguere quanto dicevano le forze dicharatamente di destra, dal M5S dai partiti del Centro sinistra) e un continuo, già visto rimbalzo delle responsabilità. Si creava una situazione assolutamente paradossale: da una parte il Ministero dell’Interno assicurava che non ci sarebbero più stati sgomberi senza soluzioni abitative alternative per gli occupanti e che anzi si stava vagliando l’ipotesi di utilizzare per accogliere gli sfrattati, i tanti immobili sottratti alle mafie. Dall’altra prefettura e sindaco di Roma davano ad intendere che si sarebbero trovate sistemazioni solo per le persone altamente vulnerabili dell’occupazione di Via Curtatone (donne, bambini, anziani e persone in cattivo stato di salute). Nel frattempo montava una campagna di disinformazione totale in merito a quanto avvenuto nelle fasi concitate in cui era intervenuta la polizia. Articoli e servizi in cui si accusava i movimenti romani per il diritto all’abitare di incitare alla violenza i rifugiati, inchieste in cui si adombrava l’esistenza di racket che gestivano una sorta di sub affitto dei locali, estrapolazioni in libertà in cui si individuavano negli occupanti pericolosi “scafisti” quando non jahedisti (dimenticando che una altisssima percentuale dei rifugiati eritrei ed etiopi è di religione copta). Eppure altre ombre si celano dietro questo sgombero giunto all’improvviso: sono un centinaio gli stabili nella città che risultano occupati abusivamente, fra i 16 da liberare rapidamente quello di via Curtatone risultava agli ultimi posti anche per il forte impatto sociale che avrebbe determinato. Ma qualcosa è scattato al punto da far diventare tale azione improvvisamente urgente. E se come si ipotizza in una documentata inchiesta giornalistica, si trattasse di una inquietante speculazione edilizia protetta da alti livelli istituzionali? Le cariche del 24 giugno hanno portato all’arresto e al processo per direttissima di 4 cittadini eritrei (due uomini e due donne) per cui ancora alcuni avvocati si stanno adoperando, nonostante la campagna denigratoria che si è sviluppata a partire da tale episodio. Una campagna capillare tesa a far considrare “il bisogno un reato”. In tante/i hanno plaudito l’intervento da “uomo forte” del Ministro Minniti che contemporaneamente sta ponendo fine agli “illeciti” e all’”illegalità delle occupazioni” e dall’altra è riuscito nel miracolo di bloccare gli arrivi di richiedenti asilo dalla Libia. Un risultato politico e culturale di grande impatto e pericolosità per il futuro. E pensare che a ” src=”http://www.a-dif.org/wp-content/uploads/2017/08/tano-3-300×264.jpg” width=”300″ height=”264″ />Roma, a partire dagli anni Settanta, sono state tantissime le famiglie italiane, provenienti soprattutto dal meridione, che hanno dovuto risolvere quella che già allora era una emergenza abitativa attraverso le occupazioni di case, pubbliche e private. In numerosi casi quei movimenti, che esprimevano alta conflittualità politica e sociale, sono riusciti a far si che attraverso assegnazioni, sanatorie, ricollocazioni, il bisogno di una abitazione dignitosa (Roma era ancora la città dei borghetti e delle baracche) venisse soddisfatto. A ricordare quelle vicende che godevano di ampio consenso dell’opinione pubblica, le splendide foto di Tano D’Amico (ne riportiamo una qui accanto), memoria storica di quegli anni ed ancora oggi presente ai presidi degli occupanti. Ma tornando alla cronaca, dopo alcuni giorni di presidio finalmente mercoledì 30 agosto si riusciti ad avere un momento di incontro fra rifugiati, rappresentanti dei movimenti di lotta per la casa e di altre occupazioni a rischio sgombero, la sindaca Virginia Raggi (che in questi giorni ha continuato a parlare di “tolleranza zero nei confronti di chi è nell’illegalità”), rappresentanti del Comune, della Regione e della prefettura. L’incontro è durato un paio d’ore ma si è rivelato totalmente infruttuoso. L’incontro aveva già avuto una partenza a dir poco infelice: doveva partecipare una delegazione di 8 persone in rappresentanza delle diverse istanze degli sgomberati ma in maniera tassativa è stato detto che si riduceva a 5 rappresentanti o saltava il tavolo. Un atto di imperio che già definiva il clima. Sono state offerte opportunità in centri di accoglienza per chi è in condizioni vulnerabili (separando ovvero donne e bambini dagli uomini e ignorando la salvaguardia del nucleo familiare), ma per gli altri nulla. Vale per chi è stato sgomberato in Via Curtatone come in Via Quintavalle, prima dell’estate ed in altre realtà simili della città. “Prima vengono coloro che da anni attendono una assegnazione di immobile secondo la sindaca. Nessuna considerazione per lo stato di bisogno come elemento prioritario. Chi ha poi in una conferenza stampa raccontato dell’incontro, ha parlato di un atteggiamento al limite dello sprezzante e del provocatorio da parte dell’amministrazione comunale e in particolare della sindaca, a cui i rappresentanti delle occupazioni hanno reagito in maniera pacata, salvo poi contestare la stessa durante la sua conferenza stampa in Campidoglio. Eppure la Regione con una delibera aveva dichiarato di poter mettere in campo 40 milioni di euro per fronteggiare l’emergenza abitativa della capitale, come ricordano i movimenti. Ma nel rimpallo di responsabilità (il Comune solo molto recentemente ha dato la delega per la casa ad un proprio assessore), la Regione non si fa valere e il Ministero alterna dichiarazioni pacificatorie a interventi col pugno di ferro, nulla sembra muoversi. Nulla tranne il fatto che il Comune di Roma rischia il commissariamento per un bilancio, dal punto di vista economico, più che fallimentare. Si prospetta non solo la privatizzazione dei trasporti (l’azienda ATAC è una di quelle che più pesa in tale dissesto, quanto la svendita di numerosi immobili di proprietà di Comune e Regione, quelli che potrebbero costituire una soluzione seria al problema abitativo. Ma il rispetto del patto di stabilità viene ovviamente prima dei bisogni primari. Ancora sembra funzionare, nella percezione popolare, la distinzione fra bisogni di migranti e rifugiati e quelli degli autoctoni e questa viene favorita dall’esplodere di inevitabili tensioni come accaduto negli incidenti nel centro di accoglienza di Via del Frantoio (periferia est della città), gestito dalla CRI a causa dei quali un uomo eritreo di circa 40 anni ha rischiato la vita dopo aver preso una coltellata da un abitante del quartiere. Ancora confuse le dinamiche dello scontro. A quanto pare tutto sembra partito da un diverbio fra un ospite del centro ( in pieno sovraffollamento ospita il doppio della capienza regolare), e alcuni minorenni del quartiere. Questi sarebbero tornati con i propri genitori e il tutto è sfociato in un vero e proprio assedio al centro. Diverse sono le ricostruzioni sull’accaduto, oltre alle botte sono volate anche minacce e tensioni fra gli stessi abitanti del quartiere su cui hanno pensato bene di soffiare esponenti di Casa Pound Italia e della destra romana. Il rischio di una nuova Tor Sapienza (quartiere per altro vicino) nel novembre di 3 anni fa, non è affatto scongiurato. Nella capitale sono stati numerosi e in un terribile crescendo gli episodi di aggressione premeditata a migranti colpevoli solo di essere tali. Un episodio che ha suscitato molto clamore risale al dicembre 2016, quando in un quartiere popolare e un tempo “rosso”, San Basilio (sempre nella periferia est), una famiglia di cittadini marocchini, legittima assegnataria di una casa popolare venne costretta a rinunciare all’abitazione in seguito alle proteste di alcuni abitanti del quartiere che difendevano il diritto di una famiglia “italiana” che tale alloggio lo aveva occupato abusivamente. Lo sgombero di via Curtatone e l’assalto a via del Frantoio sono stati immediatamente immessi in un unico calderone in cui, per il messaggio circolato, i soggetti problematici e potenzialmente pericolosi sono risultati essere esclusivamente i rifugiati. Una miscela pericolosa in una città e in un paese la cui “tenuta democratica”, parafrasando il ministro dell’Interno, non è messa a rischio dalle persone che sbarcano quanto da una crescita esponenziale della povertà e del disagio trattata esclusivamente come problema di ordine pubblico. Intanto il presidio a Via dei Fori Imperiali, in quell’angolo giardino coperto da una tenda intitolato alla Madonna di Loreto, continua. Difficile sapere per quanto tempo ancora e difficile capire se si possano aprire prospettive di soluzione. I turisti passano davanti ai resti della Roma Imperiale, passeggiano in luoghi che rappresentano per molti quasi un mito fondativo di una bellezza immutabile e si scontrano all’improvviso con la realtà del ventunesimo secolo, con la dignità dei poveri che si mostra. In molti ” src=”http://www.a-dif.org/wp-content/uploads/2017/08/raggi.jpg” width=”299″ height=”168″ />passsano e domandano cosa stia accadendo in questa città. Qualcuno fotografa lo striscione e, con pudore, evita di riprendere le donne e gli uomini accampati. Non sono pochi coloro che si intrattengono e che augurano “good luck” a rifugiati e solidali. Alcuni attivisti delle associazioni antirazziste, dei movimenti, delle poche forze politche che sfidano l’impopolarità, si alternano per portare un pasto caldo o da bere. Difficile fare di più. E, va ripetuto, guai a concentrare l’attenzione unicamente sui richiedenti asilo. A Roma, in una città che supera i 4 mln di abitanti, sono poche migliaia, purtroppo con frequenza, concentrate nei quartieri a più alto disagio sociale e già con meno servizi. Non è questo un alibi per chi rifiuta l’accoglienza quanto l’inesistenza di un piano predisposto, da destinare non solo ai profughi ma a chiunque si tovi in condizioni di bisogno. Si proverà in questi giorni ad organizzare incontri aperti per costruire una mobilitazione più ampia e di sostegno non solo emergenziale a chi non ha più un tetto. Ma in un mondo per ora ristretto c’è un concetto che sembra aver preso piede in maniera irremovibile, la necessità di una battaglia comune che non veda i bisogni di alcuni prevalere su quelli di altri. Un embrione speriamo positivo in una città che avrebbe bisogno estremo di produrre conflitto sociale e politico maturo.
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