20 maggio a Milano, una piazza non fa primavera ma può aprire una fase

20 maggio a Milano, una piazza non fa primavera ma può aprire una fase

Stefano Galieni

La manifestazione di sabato 20 maggio a Milano merita a mio avviso alcune riflessioni utili anche per il futuro. È stata bella, plurale, ricca di contenuti, allegra e impetuosa, meticcia e imponente, non solo per i numeri. Ha raccontato per lo spazio di un pomeriggio, dell’esistenza di un paese che non è come ce lo raccontano con una ossessiva reiterazione. C’era una parte bella di Milano e numerose delegazioni giunte da altre città, per dimostrare che paura, guerra contro gli ultimi, odio sparso a piene mani tanto da alimentare una xenofobia popolare, non sono l’unico volto del paese, solo quello che fa più notizia e rumore. Ma ne esiste un altro meno compulsivo ma più concreto, meno bisognoso di visibilità mediatica ma che produce quotidianamente un immenso ed incalcolabile profitto sociale, realizza convivenza e prospetta un domani, nonostante le politiche governative, tante scellerate scelte europee, nonostante le mille dinamiche di sfruttamento messe in atto verso autoctoni e migranti. E provando ad osservarlo anche in maniera laica, questo mare infinito di gente, sorgono alcune domande che riguardano i giorni a venire. La prima è semplice nell’enunciato, complessa nel divenire. La manifestazione è divenuta qualcosa di diverso anche rispetto a quanto si proponevano tanto chi sosteneva la piattaforma che l’aveva convocata, quanto chi si rifaceva a quella, molto più critica e articolata, che aveva forti e radicali proposte politiche. Per i primi era la necessità di voler proporsi come “città accogliente” e di voler prospettare nuove leggi sull’immigrazione, diverse da quelle in vigore ma comunque rimanendo nel solco tracciato dalla Turco Napolitano. Per i secondi, c’era la scelta netta di farne, come a Barcellona, una manifestazione antigovernativa, in particolare pensando al presente contro le leggi Minniti Orlando, agli accordi che Italia e UE vanno stringendo per esternalizzare le frontiere, alla politica securitaria delle retate a caccia di “neri” senza documenti, considerati problema di ordine pubblico e fonte di “degrado”.
A chi temeva o magari auspicava che le due anime “politiche”, avrebbero depotenziato o frantumato la mobilitazione è andata male. Ed è andata male perché mentre alla testa del corteo erano visibili le componenti più “istituzionali” ed in coda quelle più radicali, a riempire veramente le strade milanesi c’era un popolo che di solito non appare. Il popolo delle comunità che indossava anche vesti tradizionali per marcare la propria presenza, che ballava al suono delle proprie musiche tradizionali. Il popolo delle associazioni che in silenzio, senza dover urlare per finire sotto i riflettori, agisce e contribuisce a trasformare lentamente e positivamente la società milanese. Da chi fa corsi di italiano a chi elabora proposte di accoglienza a chi valorizza la presenza di minori o sostiene chi è in condizioni di maggiore vulnerabilità, da chi prova a prospettare inserimento nel mondo del lavoro a chi è giunto in Italia a chi semplicemente realizza momenti di conoscenza diretta e reciproca nei quartieri. Un pezzo di paese che non sbraita sui social network, che ha risposto ad un appello perché la “città senza muri” contribuisce già a costruirla, ma che di fatto svolge i compiti che spetterebbero, in un paese decente, alle istituzioni o che quantomeno le amministrazioni locali e il governo nazionale dovrebbero sostenere in virtù dell’enorme profitto sociale che creano con la loro esistenza. Un pezzo di paese che a volte può incontrare un assessore più sensibile ma che concretamente non ha rappresentanza politica nel Paese e non perché non ne senta il bisogno ma perché semplicemente questa non ha ancora preso corpo. Un pezzo di paese che magari ancora non ha diritto di voto ma è composto da uomini e donne che pretendono parità nell’accesso ai diritti, che ha maturato una concezione di qualità della vita diversa e fondata sull’incontro e non sulla paura, che considera la marginalità e la povertà non un problema di ordine pubblico o una colpa ma una questione sociale da affrontare per tutti, autoctoni e non. Una bella sfida, radicale nei contenuti più che nelle forme e a cui non è sufficiente un bel corteo per tornare a casa soddisfatti e liberati dal senso di colpa. Indisponibile all’ipocrisia di chi un giorno mostra il bastone e il giorno dopo si traveste da angelo quanto a chi pensa di utilizzare le questioni connesse all’immigrazione per proprio tornaconto personale anche imbastendo il proprio impegno con l’estetica del conflitto. E qui scatta la necessità di provare a definire risposte anche in tempi brevi. Non la Soluzione, che non esiste, ma quantomeno la realizzazione di spazi pubblici di confronto, per dare anche un futuro a quel corteo e renderlo politicamente significativo con la partecipazione di tutte e tutti. Si è all’avvio di una lunga campagna elettorale, l’ennesima che avrà una sua prima scadenza con le elezioni amministrative di giugno e potrebbe sfociare da ottobre alla prossima primavera in elezioni politiche. Se fino al 19 maggio forse, a parlare semplicemente di immigrazione si “perdevano voti”, oggi potrebbe non essere più così. Potrebbe – ma dipende anche da noi, accadere che chi presentasse proposte politiche concrete per affrontare in maniera sistemica una falsa emergenza, possa essere ascoltato e sostenuto. Revisione drastica del sistema di accoglienza, proposta di una legislazione che non ricalchi gli errori del passato ma sia capace di guardare al presente e al futuro di questo paese, un approccio meno subalterno in Europa anche in questa materia che ad esempio porti a definire il diritto d’asilo europeo, investimenti per combattere il disagio sociale (per italiani e migranti) che in quanto fondamentali, possano essere non considerati nei calcoli del pareggio di bilancio. È avvenuto con le spese per la “sicurezza” e le misure antiterrorismo, perché non può avvenire per ricostruire un minimo di garanzie per chi è in difficoltà? Una politica abitativa che tenga conto dei fabbisogni degli incapienti, sostegno all’istruzione, taglio drastico alle spese militari che sono causa primaria di quelle guerre che si traducono nella necessità di fuggire, non si tratta di semplici e certamente non esaustivi enunciati ma di proposte semplici, che potrebbero tradurre la rabbia e la rassegnazione con cui in tanti si vive in Italia, in interesse e partecipazione. Proposte che invece di alimentare l’odio fra ultimi -a cui resta solo la carità- possano ricostruire conflitto reale verso l’alto, verso chi determina una iniqua ripartizione delle risorse e ha realizzato vera polverizzazione sociale. Se soltanto si riuscisse a far divenire queste ed altre proposte un minimo comune denominatore per dare o meno il proprio voto ad una lista, ad un candidato sindaco, intanto degli oltre mille comuni chiamati alle urne il prossimo 11 giugno, già si lancerebbe un segnale. Le risposte giunte finora per affrontare i disagi sociali, si stanno rivelando sempre più false e illusorie, credere di migliorare la vita di tutti distruggendo determinate categorie sociali: la casta, gli immigrati, chi va in pensione troppo presto o chi non produce abbastanza, sono capri espiatori che durano poche stagioni e garantiscono successi effimeri perché non affrontano le cause del malessere sociale.

Ad una sinistra degna di questo nome, composita e piena di contraddizioni, spetterebbe il compito di assumere questo di impegno, che riguarda la qualità della vita di ognuno/a. Che parte dai più vulnerabili ma mira ad ottenere diritto al futuro per chiunque voglia pensare ad un futuro condiviso e in cui l’eguaglianza torni ad essere un valore fondante. Un messaggio del genere, poco accomodante e che non è destinato ad accontentare la pancia becera del paese, potrebbe ritrovare consenso e interesse in qui quartieri popolari, in quelle periferie desertificate che magari ancora a Milano in piazza non c’erano, in cui nascono sedi neonaziste o prospera una protesta che da antisistema è divenuta rapidamente funzionale al sistema stesso, o in cui domina ancora una rassegnazione cupa, carica di rabbia e paura, ignoranza e pregiudizio, fatalismo e difficoltà a ricostruire nessi di collettività. La manifestazione di Milano, ci dice in fondo a mio avviso che in quei quartieri, in quei paesi lasciati nel silenzio, in un Mezzogiorno tornato terra di emigrazione anche disperata, ci si può tornare per ascoltare ed essere ascoltati, sapendo di poter incontrare volti ed esperienze anche migliori di quelle che ci aspettiamo. E farlo non soltanto alla vigilia di elezioni ma per iniziare a costruire anche una forma diversa di coscienza civile di cui questo paese ha da sempre un immenso bisogno. Ma bisogna farlo ora. Una manifestazione non fa primavera, sia chiaro e le tante ambiguità che conteneva la sua stessa convocazione, non spariscono. Ma una manifestazione consegna maggiori responsabilità a chi c’era e a chi non poteva esserci, consegna il compito di rimboccarsi le maniche senza alibi e senza la pretesa di potersi impadronire del mondo ma, al massimo di poterlo viaggiare. Ne vale la pena


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