Questo No che ci incoraggia

Questo No che ci incoraggia

di Rino Malinconico*

Ci sono almeno tre specifiche ragioni, che corrispondono a tre distinti piani di motivazione, nella vittoria del no al referendum del 4 dicembre. E sono motivazioni e ragioni che solo in parte si sovrappongono.

C’è chi ha votato no soprattutto guardando al quesito referendario e giudicandolo confuso o sbagliato, se non addirittura pericoloso. C’è chi invece ha caricato il suo no con motivi specifici di contrasto al governo Renzi, per quello che ha fatto, o non ha fatto, in materia di lavoro, immigrazione, organizzazione dei servizi pubblici, politica estera. E c’è infine chi è andato a votare no proprio per dire no, con l’intenzione di esprimere un rifiuto più complessivo dello stato di cose presenti.

Il fatto è che nei primi commenti dei giornali, nei talk show televisivi e nei post sui social media, quasi nessuno si sofferma a considerare questo terzo aspetto, ovvero il no all’insieme della situazione sociale e politica dell’Italia.

Ma una simile disattenzione è facilmente comprensibile: mentre il dettato costituzionale e l’equilibrio istituzionale sono congeniali al milieu giornalistico e ai diversi partiti che compongono l’articolazione politica del sistema-Italia, dalla destra fascistoide alla sinistra liberal-liberista, il magma che si agita nel profondo della società rappresenta una corposissima incognita per chi è abituato a pensare nella logica dei “pesi e contrappesi” ed entro l’alveo del normale confronto e scontro parlamentare.

Hanno difficoltà a capire l’irrompere di altri elementi perché pensano che esistono solo i cittadini, l’economia e la politica, e le loro coordinate concettuali non contemplano per nulla i contrasti sociali, l’esistenza delle classi e la stessa lotta di classe; giudicherebbero perciò del tutto improvvida e astratta la sottolineatura, a proposito dell’esito referendario, dell’importanza della forbice fra l’alto e il basso della società. Eppure è proprio lì la vera novità del voto del 4 dicembre. Anzi, l’intreccio tra la grande affluenza, quasi del 70%, e l’affermazione senza misericordia del No al 60% dei votanti ci dice che, ad essere davvero astratti, sono proprio i ragionamenti politicisti e iper-costituzionalisti di chi mette avanti, per spiegare il grande successo del No, o l’influenza dei partiti di opposizione, o gli errori e l’arroganza di Renzi, o la spaccatura del PD, o i timori di sfregio costituzionale, o la paura dell’accentramento dei poteri, o la difesa delle autonomie territoriali…

Intendiamoci: non che tali elementi non abbiano avuto il loro peso. Le motivazioni che hanno sorretto il No sono variegate, come variegato è stato lo schieramento politico e culturale che si è attivato nella campagna referendaria. E tuttavia, se fossimo rimasti attorno al 50% dei votanti sul totale degli elettori, e appena sopra il 51% dei voti per il No (che è quanto prevedevano i sondaggi), allora quelli che riconducono il responso delle urne ad una più o meno normale dialettica tra diverse idee di regole istituzionali e elettorali, oppure tra diverse opzioni partitiche di governo, avrebbero indubbiamente qualche argomento in più a sostegno delle loro analisi. Ma così non è stato. E’ accaduto, invece, l’imprevisto.

L’imprevisto è consistito in ciò: che diversi milioni di donne e uomini, in modo largamente indipendente dalle indicazioni dei partiti e dei comitati referendari, hanno deciso che le urne del 4 dicembre costituivano una occasione utile per esplicitare non una generica “insoddisfazione”, bensì una chiara voglia di cambiamento radicale. Hanno detto: “non ne possiamo più!” Si badi bene: “non ne possiamo più” non solo di Renzi e del suo governo, ma di tutto l’assetto politico-istituzionale; compresi, in buona sostanza, gli stessi oppositori di Renzi…

Quanti sono stati coloro che hanno ragionato così? Difficile dirlo, ma sicuramente non pochi. Forse quel 20% che i sondaggisti non prevedevano andasse al voto… E’ verosimile, in ogni caso, che chi si è mosso con la logica del “no-per-dire-proprio-no” avesse presente soprattutto la propria condizione sociale, la obiettiva difficoltà di milioni di famiglie a tirare avanti, la mancanza di prospettive lavorative per tanti giovani, la precarietà esistenziale sempre più marcata, il degrado ambientale che si espande senza freni.

Certo, un simile “no” assomiglia ancora troppo a un grido, e molto poco ad una alternativa. Ma che il grido ci sia stato, finalmente!, è senz’altro una buona notizia. Una buona notizia per chi, come noi, sa come le disuguaglianze anziché ridursi si siano enormemente aggravate; per chi, come noi, sa quanto sia devastante l’odierno modo di produzione capitalistico, quanti squilibri crei e quanta infelicità produca.

Chi appartiene ad una storia di sinistra antagonista e di alternativa non potrà che ripartire da qui, da quel grido. Il che vuol dire, tanto per cominciare, valorizzare da subito, al di là delle sue ovvie insufficienze, il “no sociale” del 4 dicembre, e puntare ad una sua moltiplicazione sui tanti punti di sofferenza del lavoro e del vivere civile, con particolare attenzione al livello di precarietà che esiste nel Mezzogiorno d’Italia. Vuol dire soprattutto mettere in primo piano, senza tentennamenti e anche nella pratica politica, la contraddizione decisiva tra l’alto e il basso della società, piegando ad essa gli stessi contrasti tra destra e sinistra e declinando pienamente un’idea di politica “altra”, che viva dentro le dinamiche sociali e sia, al tempo stesso, anche critica della politica e delle sue forme puramente istituzionali.

  

5 dicembre 2016

*  segretario regionale PRC-Se Campania

no chiara santroni


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