Referendum costituzionale La riforma che fa bene alla crescita

Referendum costituzionale La riforma che fa bene alla crescita

di Francuccio Gesualdi*

Sulla riforma della Costituzione diventata questione di vita o di morte, se ne sentono di tutti i colori: chi la vuole per risparmiare sui costi della politica, chi per essere “al passo coi tempi”.

L’innovazione tecnologica ci ha abituato a rottamare, ma certi principi hanno valore assoluto, non invecchiano col tempo. La democrazia non ha come obiettivo la fretta, ma scelte meditate e partecipate, per ottenere leggi giuste, nel rispetto della volontà popolare, a favore di equità, libertà, sostenibilità, dignità per tutti, come sancito dalla Costituzione. Per questo i costituenti hanno progettato un assetto istituzionale che intende avvicinare i livelli decisionali ai cittadini tramite gli enti locali, che afferma la sovranità del Parlamento sul governo, che prevede oculatezza attraverso un doppio passaggio legislativo.

La riforma di oggi va in direzione opposta: espropria le Regioni su temi cruciali come la salvaguardia dei territori e dei beni comuni, riduce il potere elettivo del popolo impedendogli di eleggere il Senato, azzoppa il Parlamento riservando la piena potestà legislativa alla sola Camera, che trasforma in un leggificio a servizio del governo, riduce il confronto fra governo e Parlamento con un Senato che non può più accordare la fiducia al governo. Una riforma che accentra le decisioni a livello nazionale e sposta l’asse del potere dal Parlamento al governo, impedendo sempre di più al popolo di esprimere la propria rappresentanza. E lo dimostra il non farci più eleggere il Senato e la nuova legge elettorale che dà la maggioranza parlamentare al partito che ottiene più voti, non importa quanti. Il che (dato l’astensionismo crescente) ci condurrà a maggioranze che rappresentano una parte esigua dell’elettorato. La riforma rappresenta un picconamento della democrazia, ma secondo molti sarebbe di un male da accettare in nome di stabilità di governo e leggi veloci, come precondizione per il massimo bene, la crescita, la medicina miracolosa che, secondo imprenditori, politici e sindacati, ci curerà da ogni male. Che si tratti di debito pubblico, di pensioni, di disoccupazione, di degrado ambientale, di povertà, la ricetta è sempre la stessa: crescita. Ce lo ripetono tutto il giorno. Ma sulla sua miracolosità ci sono molti dubbi, sia per i risultati non garantiti sul piano sociale, e soprattutto per i sicuri effetti indesiderati sul piano ambientale.

Perché, per la crescita, è così importante riformare la Costituzione?

Nella testa dei politici non esiste altro soggetto economico che le imprese private. Un tempo i soggetti economici comprendevano anche le comunità (Stato, Regioni, Comuni), che dovevano intervenire per creare ricchezza al servizio dei cittadini:, con la difesa dei beni comuni, la garanzia dei servizi alla persona, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali. Ma il vento neoliberista ha fatto piazza pulita di ogni idea di comunità imprenditrice di se stessa: solo le imprese orientate al mercato sono autorizzate ad avviare attività produttive.

Oggi, però, non è facile trovarne di disposte ad investire in Italia perché, con la globalizzazione, le imprese sfarfallano da un paese all’altro, alla ricerca delle condizioni più vantaggiose. Ecco perché lo sport nazionale dei governi è la riforma di tutto ciò che non piace alle imprese, per invogliarle ad investire nel proprio paese. Sulle riforme per attirare gli investimenti, i governi non hanno molto da inventare, ha già scritto tutto il World Economic Forum,l’associazione delle multinazionali che tutti gli anni organizza l’incontro di Davos, per dettare l’agenda politica. Nei suoi rapporti elenca le condizioni che piacciono alle imprese: basso regime fiscale, bassi oneri sociali, alta flessibilità del lavoro e un assetto istituzionale sicuro e veloce. Cioè governi stabili capaci di garantire continuità politica e parlamenti veloci capaci di produrre in fretta leggi favorevoli agli affari.

Già nel 2013, la banca internazionale JP Morgan aveva messo nero su bianco il percorso di riforme per l’Italia: «I sistemi politici dell’Europa meridionale soffrono di esecutivi deboli, strutture statali centrali deboli rispetto alle Regioni, protezione costituzionale dei diritti dei lavoratori, sistemi di costruzione del consenso che favoriscono il clientelismo politico, diritto di protestare se intervengono cambiamenti non graditi. (…) Il test più importante sarà in l’Italia, dove il nuovo governo dovrà dimostrare di impegnarsi per una riforma politica significativa».

JP Morgan è la sesta banca del mondo, amministra 2.500 miliardi di dollari, lavora per l’1% del pianeta, che da solo controlla il 50% della ricchezza mondiale. Amministra le loro ricchezze affinché ne abbiano sempre di più e, per servirli, non si fa scrupolo ad elaborare truffe che mandano in rovina i risparmiatori più sprovveduti. Dal 2012 al 2015 JP ha collezionato 30 miliardi di dollari di multe, per comportamenti illeciti. Ma il suo amministratore delegato, J. Dimon nel 2015 ha incassato 27 milioni di dollari e l’ingresso trionfale nell’olimpo dei miliardari. Per queste imprese e questi personaggi stiamo rinunciando alla nostra democrazia: davvero ci conviene?

*Centro Nuovo Modello di Sviluppo

fonte: Tera e Aqua di ottobre-novembre 2016

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