Banche, i problemi sono a monte…

Banche, i problemi sono a monte…

Il Partito della Rifondazione Comunista di Torino condivide il contenuto della prima presa di posizione pubblica della neo-eletta Sindaco Chiara Appendino che ha chiesto al Presidente della Compagnia di San Paolo, Francesco Profumo, recentemente nominato a tale carica su indicazione di Piero Fassino, di “fare un passo indietro”.

Giova ricordare che, in campagna elettorale, la questione è stata posta con forza, per la prima volta, da Giorgio Airaudo, candidato sindaco della lista “Torino In Comune – La Sinistra”, sostenuta da Rifondazione, che riteneva fortemente inopportuna tale nomina da parte di un Sindaco giunto a poche settimane dalla scadenza del suo mandato.

La replica della Compagnia che, oggi, ricorda di essere “un ente autonomo, filantropico e di natura privata” il cui processo di nomina dei vertici non è riconducibile ad una mera questione di indicazioni politiche appare francamente un po’ ridicola, se si pensa che il penultimo predecessore di Profumo è stato addirittura Sergio Chiamparino, in transito retribuito tra la carica di Sindaco e quella di Presidente della Regione Piemonte.

Certamente, che il nome del Presidente della Compagnia sia indicato dal Comune di Torino non è stabilito da alcun obbligo legislativo o statutario ma rappresenta esclusivamente una “prassi” consolidata.

Essa tuttavia non è da considerarsi un privilegio della politica quanto un retaggio, per noi validamente fondato, del legame storico tra la Fondazione e la comunità di appartenenza.

Per questo, vista l’assoluta rilevanza della carica ricoperta ed il ruolo importante esercitato negli ultimi anni da Profumo in quel “sistema Torino” che sembra essere uscito sconfitto dalle elezioni comunali, il neo-sindaco fa bene a chiederne le dimissioni che peraltro, siamo sicuri, lui non darà predisponendosi alla guerriglia filantropica.

 

Torino, 21 giugno 2016

 

Partito della Rifondazione Comunista

Federazione di Torino

I problemi sono a monte
La notizia è di alcuni giorni fa. Lo Stato italiano si appresta a tornare ad essere il primo azionista del Monte Paschi. Infatti, la quota in mano pubblica potrebbe salire dall’attuale 4% al 7% circa del capitale a seguito del pagamento in azioni (e non in denaro contante) degli ultimi interessi che la Banca deve al Ministero dell’Economia per l’aiuto ricevuto in passato con i cosiddetti Monti Bond.
Il Governo sembra propendere per questa soluzione, definita non imbarazzante e comunque transitoria. La Borsa ha festeggiato. Molti analisti ritengono inevitabile (e giudicano positivamente) il rafforzamento del ruolo pubblico sulla governance del Gruppo con la finalità di favorirne il riassetto ed il rilancio anche attraverso la ricerca di partner affidabili.
Volendo, per l’azionista pubblico gli spazi per esercitare un’influenza decisiva ci sarebbero tutti. Basti pensare che gli altri soci rilevanti sono i fondi sud
americani Fintech (4,0%) e BTG Pactual (3,1%) ancora legati da un patto parasociale con la vecchia Fondazione Monte Paschi, Axa (3,1%) partner assicurativo
del Gruppo, persino la Banca Popolare Cinese (2%).
Ma per fare che cosa? Il consueto cliché prevede spezzatini societari per creare bocconcini appetibili per il Mercato, tagli occupazionali e ulteriori sacrifici per i lavoratori, abbandono di servizi e/o marginalizzazione dei segmenti di clientela poco profittevoli, utilizzo di fondi pubblici finalizzati alla ricostruzione dei margini per i futuri acquirenti privati (nostrani o, più probabilmente, stranieri).
Il tutto condito da laute prebende per ogni di tipo di banca di investimento e società di consulenza internazionale
che si affanni attorno al malato con il solito ricettario, utile solo a moltiplicare le occasioni di business e di profitto per gli amici degli amici. Letto ed approvato l’ennesimo piano strategico, lo Stato potrebbe così ritirarsi in buon ordine.
Eppure, non è poi così difficile individuare le coordinate di fondo di un possibile “diverso” tipo di intervento pubblico che puntasse non solo al rilancio di una banca importante ma anche a dare una scossa ad un sistema sempre più strumento esclusivo di logiche neoliberiste e di interessi privatistici.
Ad esempio, si potrebbero prevedere:
-Un significativo ricambio nei ruoli chiave aziendali, allontanando quella parte dell’alta dirigenza più direttamente compromessa e corresponsabile delle disastrose gestioni degli ultimi anni e sostituendola con nuovi manager che si impegnino espressamente a sostenere il cambiamento di rotta e che siano individuati sia valorizzando le risorse interne disponibili, sia ricorrendo a dirigenti esterni a “vocazione” pubblica (pochi,ma ce ne sono ancora).
-Una forte riduzione dei “posti di vertice” sia attraverso la semplificazione della struttura organizzativa del Gruppo sia smantellando parte della catena burocratica e di comando di alcune strutture della Banca.
-La rigorosa fissazione di tetti a retribuzioni ed emolumenti di consiglieri e top management ancorandone la dinamica a quella del livello medio impiegatizio.
-L’utilizzo dei risparmi così conseguiti (oltreché di quelli derivanti da un rigoroso controllo delle spese amministrative e di rappresentanza) per avviare un quanto meno simbolico processo di turnover del personale (con esenzione dei neoassunti dagli effetti del Jobs Act).
-La drastica riduzione delle spese per la consulenza ad ogni livello.
L’avvio di politiche di insourcing e, in tale contesto, la riconsiderazione dell’operazione DAACA e delle attuali strategie nel settore della bancassicurazione.
-L’inizio di una nuova politica degli appalti e delle commesse che superi l’imperante logica del “minor costo”, privilegiando committenti che offrano le migliori garanzie sul piano del rispetto delle normative fiscali e delle politiche del lavoro.
-Una riorganizzazione della rete distributiva secondo un progetto indipendente dai desiderata delle società di consulenza e che preveda, laddove necessario, chiusure o ridimensionamenti di punti operativi ma anche aperture di nuovi sportelli per occupare spazi lasciati liberi dalla concorrenza.
-L’abolizione dei sistemi incentivanti e l’utilizzo delle disponibilità per avviare una progressiva
ricostruzione della contrattazione collettiva di secondo livello.
-La proposta ai lavoratori, ai loro delegati sindacali (eletti, se possibile…) ed ai clienti (attuali e futuri) di un patto strategico finalizzato alla cessazione delle pressioni commerciali e della vendita di prodotti inadeguati.
-La conseguente ridefinizione della gamma di offerta (in primo luogo per quanto concerne i prodotti di risparmio e di tutela) puntando su una ripresa dei ricavi basata sull’incremento della base di clientela.
-Un utilizzo non privilegiato ma nemmeno discriminatorio rispetto a quanto previsto per i concorrenti “privati” degli strumenti pubblici o “di sistema” messi in campo per alleggerire il peso delle sofferenze.
-Il rilancio delle politiche creditizie verso privati, imprese ed enti locali facendo della rete Monte Paschi il veicolo preferenziale per la canalizzazione dell’attività di Cassa Depositi e Prestiti e del flusso di finanziamenti agevolati di matrice nazionale o europea. Ci è ben chiaro che a Bruxelles qualcuno strillerebbe (e tanto) soprattutto se lo Stato italiano annunciasse di rinunciare ai futuri dividendi per rafforzare patrimonialmente la sua “nuova” banca.
Ma il problema principale ci pare un altro. E consiste nel fatto che a sostenere le ragioni della strategia descritta dovrebbero essere Renzi, Padoan e la famiglia Boschi (ahimè gli attuali rappresentanti del 7% pubblico…). Persino a Schauble scapperebbe da ridere.
Partito della Rifondazione Comunista
Ufficio Credito ed Assicurazioni

Torino, 10 giugno 20


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