La dittatura del debito tunisino

La dittatura del debito tunisino

di Antonio Tricarico -

TUNISI Il tema del debito tiene banco al World Social Forum di Tunisi. Una questione particolarmente sentita dalla popolazione tunisina, visto che nei 25 anni di regime Ben Ali e la sua famiglia il debito è passato da 3,4 miliardi di euro nel 1987 a 10,80 miliardi nel 2009. Un’eredità pesantissima per le fragile casse del paese dopo la rivoluzione. L’indebitamento è stato un meccanismo egemonico per la dittatura. Le banche del paese prestavano senza precauzioni ai notabili, distribuendo denaro che spesso non veniva ripagato. Quindi la Banca centrale tunisina interveniva ad appianare i fallimenti bancari, contraendo prestiti a livello internazionale, sia dai paesi occidentali e dalle istituzioni internazionali, che da banche private. Gli interessi venivano ripagati e talvolta la quota di capitale riscadenzata. In questo modo il regime si basava sul controllo del credito, ottenendo il consenso delle élite e imbrigliando gli interessi stranieri, presenti soprattutto nel campo delle infrastrutture. Tali opere erano spesso di dubbia utilità o costruite in maniera non appropriata, con pesanti impatti sulla popolazione. Si pensi allo sfruttamento minerario, o all’agricoltura intensiva, entrambi funzionali solo all’export verso l’Europa. È stata proprio l’assenza di credito per le classi indigenti, private dei mezzi fondamentali di sussistenza, quali acqua e terra, che ha portato poi alla rivoluzione popolare, originariamente guidata dai più poveri e non dalla classe media di Tunisi. Sin dai primi mesi dopo la cacciata di Ben Ali (nella foto), il tema del ripagamento del debito è entrato nell’agenda politica. In diversi hanno paventato la possibilità di definire gran parte del debito come «odioso», secondo quella dottrina del diritto internazionale che ritiene legale non ripagare quanto accumulato da un dittatore contro gli interessi della popolazione. Il caso più recente è stato quello del debito di Saddam Hussein, di fatto annullato dopo la caduta del regine iracheno nel 2003. In Tunisia la società civile ha chiesto l’apertura di una commissione ufficiale per l’audit da parte del governo per esprimere un giudizio sul debito. Nel 2012, il presidente Moncef Marzouki ha sostenuto l’istanza, forse per cercare di scalzare il potente governatore della banca centrale, Mustapha Kamel Nabli, ex ministro di Ben Ali e direttore alla Banca mondiale. Il Fronte Popolare, che riunisce realtà di sinistra, ha presentato una legge per l’istituzione di una commissione di audit con poteri investigativi. Nonostante l’Ecuador, che nel 2008 ha realizzato un storico audit del debito annullandone una parte, abbia offerto il suo aiuto tecnico-legale al governo tunisino, la proposta si è impantanata nel Parlamento Costituente in seguito all’impasse sulla stesura della nuova Carta. Il governo islamista ha una posizione ambigua sulla questione, con il ministro delle Finanze che continua ad assicurare la comunità internazionale sulla capacità della Tunisia di ripagare il servizio sul debito. Effettivamente l’ammontare del debito è ancora contenuto rispetto al prodotto interno lordo (circa la metà). Ma in termini assoluti il suo ripagamento rimane la principale voce nel bilancio tunisino. Ogni anno ammonta a tre volte quello che il governo investe nelle politiche di istruzione. Molti rappresentanti delle elite che sono ancora ai vertici dei ministeri, o si sono riciclati in diversi partiti politici, non hanno alcun interesse a scoperchiare un vaso di pandora che farebbe emergere responsabilità non solo della comunità internazionale e di investitori stranieri, ma anche di attori locali. Lo scorso 20 marzo il presidente tunisino si è recato in Germania per negoziare una conversione del debito con Berlino. La Germania è disponibile a trasformare 30 milioni di euro in investimenti nel settore idrico e altri 30 da allocare in un nuovo fondo per le infrastrutture, che l’esecutivo locale userebbe per favorire nuovi investimenti di imprese tedesche. In pratica l’ennesima apertura a investimenti estrattivi dannosi per l’ambiente e a solo vantaggio dell’export globale e delle piccole elite. Anche la Francia, già l’anno scorso, aveva caldeggiato una soluzione per la conversione del debito con Tunisi. Si aggiunga che dai primi mesi del dopo rivoluzione il paese è stato subissato di finanziamenti da parte dei governi occidentali, mediorientali e di Banca mondiale, Banca africana di sviluppo e Fondo monetario internazionale. Soldi utilizzati per facilitare investimenti stranieri in grandi opere, con il rischio di generare a breve ulteriore debito. Alla vigilia del Forum sociale, la rete Cadtm ha facilitato il «simposio mediterraneo sulla lotta contro il debito e per la sovranità dei popoli». Nelle parole di Fathi Chamki di Attac Tunisia, la strategia di gestione del debito scelta dal governo porterà a breve il paese al collasso e a una nuova colonizzazione. Per questo è necessaria da subito una moratoria sul ripagamento, così da permettere un’audit pubblica e partecipata. Vedremo cosa succederà con le elezioni di giugno.

il manifesto 31 marzo 2013


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