Da dove vengono i taliban: il laboratorio di Frankenstein

Da dove vengono i taliban: il laboratorio di Frankenstein

di Tariq Ali

La giornata di Pasqua è stata segnata dal sanguinoso attentato a Lahore in Pakistan contro la comunità cristiana rivendicato da un gruppo talebano che ha causato finora 69 morti e almeno 300 feriti. Riproponiamo un articolo dell’intellettuale e militante anglo-pakistano Tariq Ali pubblicato sulla Rivista del Manifesto n.23 del dicembre 2001. 

Pur suscitando alla fine dell’Ottocento le bramosie dello zar russo e del viceré britannico, l’Afghanistan è sempre riuscito con incrollabile fermezza a respingere ogni forma di occupazione coloniale. Due invasioni britanniche furono ricacciate indietro, lanciando un monito sia a Londra che a San Pietroburgo. E, alla fine, tanto l’espansionista impero zarista che l’impero britannico in India accettarono l’esistenza di questo stato cuscinetto afghano, una confederazione pre-feudale e tribale con un re riconosciuto. I britannici, in quanto forza di maggior rilievo, avrebbero mantenuto un occhio vigile su Kabul, secondo un accordo che risultava gradito a tutte e tre le parti. Il risultato era che la società afghana non ha mai conosciuto la minima modernizzazione di tipo imperiale, ed è rimasta più o meno immobile per più di un secolo. Quando infine intervennero dei cambiamenti, l’elemento catalizzatore venne dall’esterno. La rivoluzione russa del 1917 e la soppressione (nel 1919) del califfato ottomano da parte del nuovo esercito messo in piedi in Turchia da Atatürk suscitarono ambizioni di tipo moderno nel giovane re afghano Amanullah. Irritato della tutela britannica e istigato da alcuni intellettuali radicali, che guardavano con interesse agli ideali illuministi provenienti dall’Europa e alla coraggiosa impresa di Pietroburgo. Amanullah riuscì a unire rapidamente una piccola élite istruita con la maggior parte delle tribù e ottenne un’importante vittoria militare contro l’esercito britannico nel 1919.

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Forte del suo successo sul campo di battaglia, Amanullah lanciò un programma di riforme, ispirato in parte alla rivoluzione kemalista turca. Venne proclamata una nuova costituzione, che istituiva il suffragio universale e che, se fosse entrata effettivamente in vigore, avrebbe fatto dell’Afghanistan uno dei primi paesi al mondo a dare il diritto di voto alle donne. Nel frattempo, alcuni emissari vennero mandati a Mosca in cerca di aiuti e, sebbene i leader bolscevichi fossero impegnati a fronteggiare diversi attacchi armati da parte delle potenze dell’Entente, le aperture afghane vennero considerate con la massima serietà. Mentre Sultan-Galiev riceveva calorosamente gli inviati di Kabul per conto del Komintern, Trockij mandava una lettera segreta al Comitato centrale del Partito comunista russo dal suo treno blindato sul fronte della guerra civile. In questo straordinario messaggio scrisse: «Non c’è alcun dubbio che la nostra Armata Rossa costituisce un potere molto più forte sullo scenario asiatico che in Europa. Ci si apre infatti un’opportunità di grande rilievo, non più basata semplicemente sull’attesa di eventuali sviluppi in Europa, ma imperniata sull’azione nel teatro asiatico. La via verso l’India potrà ad un certo punto rivelarsi molto più praticabile e breve di quella che passa attraverso l’Ungheria sovietica. Il nostro esercito, che al momento non ha alcun peso determinante sul fronte europeo, può capovolgere l’instabile equilibrio delle relazioni di dipendenza coloniale in Asia, dare un impulso diretto alla rivolta di parte delle masse oppresse e garantire il trionfo dell’insurrezione asiatica (…) La strada per Parigi e Londra passa per le città dell’Afghanistan, del Punjab e del Bengali». Un documento un po’ visionario di uno dei consiglieri militari di Trockij proponeva la creazione di un corpo di cavalleria anti-imperialista di 30-40mila elementi per liberare l’India dal giogo britannico.
Tutti questi progetti naufragarono. Non c’è dubbio che il fallimento della marcia di Tukhachevsky in Polonia, due anni dopo, provvide a raffreddare gli animi a Mosca. Amanullah non ottenne più che qualche attestato di amicizia e alcuni consigli dai bolscevichi. Ma i britannici, comprensibilmente nervosi, erano ora determinati a rovesciarlo. New Delhi finanziò un paio di tribù importanti, fomentò l’opposizione religiosa al re e riuscì infine a rovesciarlo con un putsch militare nel 1929. Il giornale del Komintern «Inprecorr» scrisse che Amanullah era riuscito a restare al potere dieci anni solo grazie all’ `appoggio sovietico’; in modo più pertinente, il funzionario bolscevico Raskolnikov osservò che Amanullah aveva introdotto «riforme di stampo borghese in assenza di una borghesia»; e gli effetti di tali riforme erano ricaduti sui contadini – di cui non era riuscito a guadagnarsi il consenso con un’adeguata riforma agraria – permettendo quindi ai britannici di sfruttare le divisioni sociali e tribali all’interno del paese.
Cinquant’anni dopo la storia era destinata a ripetersi, con risvolti ancora più sinistri. All’inizio degli anni ’70 il re Zahir venne spodestato da suo cugino Daud che, con l’appoggio dei comunisti locali e il sostegno finanziario dell’Unione Sovietica, proclamò la nascita della repubblica. Quando poi, nell’aprile 1979, lo scià iraniano convinse Daud a rivolgersi contro le fazioni comuniste presenti nell’esercito e nell’amministrazione pubblica, queste ultime si difesero effettuando un putsch. Ma, lacerati da pesanti discordie – le dispute all’interno del partito venivano spesso risolte a colpi di pistola – i comunisti afghani non avevano alcuna base sociale al di fuori di Kabul e di poche altre città. Il loro potere si basava solo sul controllo dell’esercito e dell’aviazione. Fu allora che gli Stati Uniti, facendo proprio il ruolo storicamente riservato ai britannici, cominciarono a destabilizzare il regime, armando l’opposizione religiosa attraverso l’esercito pakistano. Sottoposti a crescenti pressioni, i comunisti afghani finirono per logorarsi in lotte intestine. E fu a questo punto che Breznev prese la decisione di mandare un massiccio contingente militare a Kabul in soccorso del regime.
Questo era proprio quanto sperava Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale di Carter: in pratica i dirigenti russi caddero in pieno nella trappola. L’ingresso delle truppe sovietiche in Afghanistan trasformò una semplice guerra civile sovvenzionata da Washington in una jihad, in cui i mujaheddin (`sacri guerrieri’) si ergevano a difensori unici della sovranità afghana contro l’esercito degli invasori stranieri. Brzezinski accorse rapidamente al Khyber Pass, dove non disdegnava di farsi fotografare con un turbante mentre gridava `Allah è dalla vostra parte’. Al contempo, i fondamentalisti afghani venivano celebrati, alla Casa Bianca e a Downing street, come combattenti per la libertà.
Il ruolo di Washington nella guerra afghana non è mai stato un segreto, ma il pregevole libro di John Cooley1 è il primo resoconto sistematico e dettagliato del modo in cui gli Stati Uniti utilizzarono i servizi di intelligence egiziani, sauditi e pakistani per creare, addestrare, finanziare e armare una rete internazionale di militanti islamisti disposti a combattere i russi in Afghanistan. Ex corrispondente per il Medio Oriente del «Christian Science Monitor» e della rete televisiva Abc, Cooley è potuto facilmente entrare in contatto con i funzionari (in pensione o tuttora in attività) che avevano partecipato a questo episodio finale della Guerra fredda. Anche se non sempre cita le fonti, e se parte di quello che dice deve essere preso con il beneficio del dubbio, le informazioni che fornisce corroborano gran parte delle affermazioni che venivano pronunciate a mezza bocca in Pakistan negli anni ’80. Fra queste, l’idea che gli Stati Uniti coinvolsero altre potenze nella jihad anti-sovietica: Cooley sostiene ad esempio che l’aiuto cinese non era limitato alla fornitura d’armi, ma anche a quella di stazioni di ascolto nello Xinjiang, e all’invio – a spese della Cia – di volontari uiguri sul fronte. Alcune forme di assistenza da parte dei cinesi furono ammesse in via privata dai generali pakistani, ma Pechino ha sempre negato. Cooley arriva fino ad arguire che i dirigenti comunisti cinesi non sono del tutto immuni alla cosidetta sindrome `post-ritiro sovietico’, che vede i militanti islamisti rivolgersi contro coloro che li avevano armati. Tuttavia, Cooley non menziona lo stato di Israele, il cui ruolo nella guerra afghana rimane ancora coperto da una cappa di segretezza. Nel 1985 Mansur, un giovane giornalista pakistano che lavorava per «The Muslim,» incrociò per caso alcuni `consiglieri’ israeliani al bar dell’Intercontinental Hotel di Peshawar. Conscio che si trattava di una notizia che avrebbe potuto avere effetti esplosivi sulla dittatura di Zia, informò il suo direttore, alcuni amici e un inviato della rete statunitense Wtn. Alcuni giorni dopo venne catturato e ucciso da alcuni mujaheddin, su indicazione dell’Inter-Services Intelligences (Isi – servizi segreti pakistani).
Cooley descrive anche un incontro da lui avuto nel 1978 a Beirut con Raymond Close, ex capo della stazione della Cia in Arabia saudita, che esercitò su di lui un incontestabile fascino. Tuttavia, se solo gli avesse posto domande più dirette, Cooley avrebbe scoperto che Close era in precedenza stato nominato in Pakistan, paese in cui suo padre era stato insegnante missionario al Forman Christian College di Lahore, e che parlava correntemente il dari, l’urdu e l’arabo. Ufficialmente in pensione, Close sembrava la persona ideale per coordinare le operazioni orchestate in Afghanistan con il sostegno del Pakistan, paese in cui la Banca di credito e commercio internazionale (Bcci) fungeva da canale per il finanaziamento da parte della Cia delle attività clandestine e per il riciclaggio dei profitti del traffico di eroina. La tesi di Cooley, secondo cui gli Stati Uniti e i loro alleati nella regione hanno pagato un altissimo prezzo in cambio della vittoria in Afghanistan, è incontestabile. In Egitto, Sadat è stato assassinato da un soldato islamista durante una parata militare. In Pakistan, Zia è morto – insieme all’ambasciatore statunitense a Islamabad Arnold Raphael e al generale Rahman, autorevole membro dell’Isi – in un misterioso incidente aereo che pochi considerano una fatalità. Inoltre, i cinquemila marines ancora di stanza a Riyadh non stanno lì per minacciare Saddam Hussein, ma per difendere la famiglia reale saudita.

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Lo stesso Afghanistan, dieci anni dopo il ritiro dei sovietici, è ancora lacerato dalle violenze tra fazioni. I veterani della guerra hanno dato il loro apporto alla destabilizzazione dell’Egitto, dell’Algeria, delle Filippine, del Sudan, del Pakistan, della Cecenia, del Daghestan e dell’Arabia saudita. Hanno colpito obiettivi statunitensi e dichiarato guerra al `Grande satana’. Osama bin Laden, la cui immagine orna la copertina del libro di Cooley, è diventato lo spauracchio dei funzionari statunitensi e delle fantasie popolari americane – dopo aver cominciato la propria carriera come grande impresario edile legato alla Cia. Quando i generali pakistani intercessero presso la dinastia saudita affinché questa mandasse un pupillo della famiglia reale a combattere la guerra santa, venne infatti deciso di mandare Osama, intimo frequentatore del palazzo. Facendo assai meglio di quanto tutti si aspettavano, Osama susciterà la sorpresa tanto dei suoi patroni di Riyadh che del Dipartimento di Stato americano. Cooley conclude lanciando il seguente avvertimento al governo americano: «Quando decidete di fare la guerra al vostro peggiore nemico, cercate prima di analizzare attentamente chi scegliete come amici, alleati o mercenari. Cercate di capire se questi alleati hanno già sguainato i coltelli e stanno puntandoveli alla schiena». Il suo appello non avrà probabilmente alcun effetto su Zbigniew Brzezinski, che non ha alcun rammarico: «Cosa era più importante rispetto alla storia mondiale? – chiede ora con una malcelata punta di irritazione – i taliban o la caduta dell’impero sovietico? Un manipolo di musulmani esagitati o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra fredda?». Il disprezzo per i diritti e la vita delle persone ordinarie che vivono in altre zone del mondo – un elemento strutturale della visione di Washington prima, durante e dopo la guerra fredda – non potrebbe essere espresso in maniera più efficace.

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Il libro di Ahmed Rashid2 è il primo valido resoconto dell’ascesa al potere dei taliban. L’autore è un impavido giornalista pakistano, che lavora in Afghanistan dal 1978 e si è sempre rifiutato di piegarsi alle intimidazioni o alle istigazioni dei vari poteri che si sono succeduti. Dopo il ritiro sovietico nel 1989, l’alleanza ufficiosa di Stati che aveva appoggiato i mujaheddin non tardò a sfaldarsi. Islamabad non voleva assolutamente un ampio governo di unità nazionale per la ricostruzione, preferendo invece imporre al paese – con l’appoggio statunitense e saudita – il suo pupillo Gulbuddin Hekmatyar. Ne conseguì un circolo vizioso di guerre civili, punteggiate da instabili tregue e dalla resistenza degli hazara (appoggiati dall’Iran), di Ahmed Shah Massud (appoggiato dalla Francia), e del generale uzbeko Dostum (appoggiato dalla Russia). Quando divenne ovvio che le forze di Hekmatyar non erano in grado di sconfiggere questi avversari, l’esercito pakistano cominciò ad appoggiare quegli studenti che andava addestrando nelle scuole religiose della Frontiera del Nord-Ovest fin dal 1980, il cui alfabeto era limitato alle lettere jeem per jihad, kaaf per kalashnikov, e tay per tope (cannone). Nel 1992, il governatore della Frontiera del Nord-Ovest osservò che non sapeva se quei giovani fanatici delle madrasa potessero `liberare’ l’Afghanistan, ma che certamente avrebbero destabilizzato ciò che restava del Pakistan.

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I taliban erano orfani della guerra contro l’infedele russo. Addestrati e mandati oltre la frontiera dall’Isi, sarebbero stati lanciati a combattere contro altri musulmani che venivano indicati loro come falsi credenti. Rashid descrive la loro visione con grande vividezza: «Questi ragazzi costituivano un mondo a parte rispetto ai mujaheddin che avevo conosciuto negli anni ’80 – uomini che potevano elencare con precisione i loro lignaggi clanici e tribali, che ricordavano le loro fattorie abbandonate e le loro valli con nostalgia e narravano leggende e storie tradizionali afghane. Questi ragazzi appartenevano a una generazione che non aveva mai visto la pace regnare sul proprio paese. Non avevano alcuna memoria delle loro tribù, dei loro antenati, dei loro vicini, né di quel complesso groviglio etnico di popoli che era la loro patria. Ammiravano la guerra, perché era la sola occupazione a cui potevano dedicarsi. La loro semplice credenza in un Islam messianico e puritano era l’unica àncora a cui potevano aggrapparsi per dare alla propria vita un minimo di senso». Questo fanatismo senza radici – una specie di tetro universalismo islamico – trasformò i taliban in una forza di combattimento molto più efficace di tutti i loro avversari, ancorati ad una base locale. Pur essendo di origine pashtun, i leader dei taliban potevano essere sicuri che i loro giovani soldati non avrebbero ceduto al richiamo divisorio della fedeltà etnica o tribale, di cui persino la sinistra afghana aveva avuto difficoltà a sbarazzarsi. Quando cominciarono ad attraversare la frontiera, furono accolti come un sollievo da una popolazine esausta dalla guerra: gli abitanti delle maggiori città non avevano più alcuna fiducia nelle forze che, dopo la partenza dei sovietici, non avevano fatto altro che combattersi tra loro a spese dei civili.

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Se i taliban si fossero limitati a offrire pane e pace, avrebbero potuto ottenere un ampio e durevole consenso popolare. Tuttavia, divenne presto evidente agli occhi di una popolazione sconcertata quale tipo di regime avevano intenzione di imporre. Alle donne fu impedito di lavorare, andare a prendere i figli a scuola e, in alcune città, fare la spesa: furono a tutti gli effetti relegate nelle proprie case. Le scuole femminili furono chiuse. I taliban avevano imparato nelle loro madrasa a evitare le tentazioni femminili – la fratellanza maschile era considerata un elemento di salda disciplina militare. Il puritanesimo venne esteso alla repressione di ogni tipo di espressione sessuale e, sebbene questa fosse una regione in cui le pratiche omosessuali erano diffuse da secoli, i colpevoli di questo `crimine’ vennero messi a morte dai comandanti taliban. Al di fuori delle loro fila, ogni tipo di dissenso venne represso brutalmente con l’imposizione di un regime di terrore senza precedenti. Il credo taliban è una variante dell’Islam deobandita professato da una tendenza settaria pakistana – che appare ancora più estrema del wahhabismo, dal momento che neppure i governanti sauditi hanno privato metà della loro popolazione dei diritti civili in nome del Corano. La rigidità dei mullah afghani è stata denunciata dai religiosi sunniti dell’università Al Azhar del Cairo e dai teologi sciiti di Qom come un’offesa al Profeta. Il grande poeta pakistano Faiz, i cui antenati provenivano dall’Afghanistan, potrebbe aver scritto dal carcere queste righe sulla terra dei suoi avi:
«Seppelliscimi sotto le tue strade, o paese mio dove nessuno osa ora camminare a testa alta, dove gli amanti sinceri ti rendono omaggio camminando furtivi e temendo per la propria vita e i propri arti; è in piedi un nuovo tipo di regime le pietre e i mattoni son chiusi a chiave e i cani lasciati sciolti – i villani diventano giudici, come gli usurpatori.
Chi parlerà a nostro nome?
Da chi dobbiamo cercare giustizia?» Certamente non dal comandante in capo della Casa Bianca o dal suo luogotenente di Downing street. Da questi pulpiti, non si sono levate grandi voci in difesa dei diritti umani nel momento in cui le donne afghane venivano assoggettate a una persecuzione vile. Rashid nota amaramente che le poche e lievi critiche pronunciate in questo senso da Hillary Clinton erano più destinate a mettere a tacere le femministe americane durante lo scandalo Lewinsky – un compito non molto arduo – che a cambiare la situazione a Kabul, a Kandahar o a Herat, antiche città in cui le donne mai erano state cacciate in un tale abisso di miseria. Le grandi imprese americane si mostravano meno ipocrite. Rispondendo alle critiche relative alla costruzione di un oleodotto dall’Asia centrale al Pakistan attraverso l’Afghanistan, il portavoce del gigante petrolifero americano Unocal spiegava perché il capitalismo non si cura di questioni sessuali: «Non siamo d’accordo con alcuni gruppi di femministe americane sul modo in cui la Unocal dovrebbe affrontare questa questione (…) Siamo ospiti di paesi che godono di pieni diritti sovrani e hanno proprie credenze in campo politico, sociale e religioso. Se ce ne andassimo dall’Afghanistan, non risolveremmo il problema». Né, tantomeno, aumenterebbero il tasso di profitto dei loro investimenti futuri.

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Rashid spiega chiaramente che i taliban non avrebbero mai potuto conquistare l’Afghanistan senza il sostegno militare e finanziario di Islamabad, sostenuta a sua volta da Washington. Il capo supremo dei taliban, mullah Omar, è stato a lungo sul libro paga del regime pakistano, prima di diventare il padrone di Kabul (e il genero di Osama bin Laden). La conquista del potere ha tuttavia avuto un impatto pernicioso sugli zeloti afghani. I taliban hanno un proprio particolare disegno rispetto alla regione – una Federazione di repubbliche islamiche che imporrebbe una pax talibana da Samarcanda a Karachi. Finora, hanno avuto notevoli introiti dal commercio di eroina. Vogliono un accesso al mare e non è un segreto la speranza che il Pakistan, con il suo arsenale nucleare, possa cadere un giorno nelle loro mani. Sanno che possono godere del sostegno dei più alti gradi dell’esercito pakistano. Il generale Mohammed Aziz, capo di stato maggiore, e il generale Mahmoud Ahmed, capo dell’Isi, i due militari che usano affiancare il generale-dittatore Pervez Musharraf, di orientamento più laico, sono noti per le loro simpatie filo-taliban3. La squallida e triste storia dello sfacelo dell’Afghanistan è raccontata molto bene da Cooley e Rashid, ma la fine della tragedia appare ancora lontana.


(Traduzione di Stefano Liberti)

note: 

1  John K. Cooley, Una guerra empia, La Cia e l’estremismo islamico, Eleutera 2001, pp. 400, L. 35.000.
2  Ahmed Rashid, Talebani. Islam, Petrolio e il grande scontro in Asia centrale, Feltrinelli 2001, pp. 312, L. 30.000.
3  In ottobre, subito dopo l’inizio dei bombardamenti in Afghanistan, il presidente pakistano Musharraf ha effettuato un rimpasto dei vertici dell’esercito e dei servizi segreti, riducendo notevolmente l’influenza di questi due generali e di tutta la corrente filo-taliban. 


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