Lo scioglimento del PCI. L’ultimo congresso

Lo scioglimento del PCI. L’ultimo congresso

L’ultimo congresso del PCI si svolse dal 31 gennaio al 3 febbraio 1991 a Rimini e sancì l’affermazione della mozione di Achille Occhetto, Massimo D’Alema, Giorgio Napolitano, Walter Veltroni e Piero Fassino, e dunque lo scioglimento del PCI e la nascita del Partito Democratico della Sinistra (i servizi del tg3). Per una ricostruzione della vicenda rimandiamo al libro di Guido Liguori La morte del PCI . Quel congresso segnò non solo la fine del Partito Comunista Italiano ma anche l’inizio della storia di una nuova formazione, Rifondazione Comunista, che prese il nome proprio dalla mozione che aveva contrastato la “svolta”. Ci sembra utile in questa ricorrenza riproporre – dai resoconti dell’Unità – gli interventi di alcuni dei protagonisti della battaglia contro lo scioglimento del PCI: Cossutta, Garavini, Ingrao e Libertinio. Rileggerli è un esercizio per il presente.

Armando Cossutta

Doveva essere chiaro per tutti che gli Stati Uniti avevano messo in moto una macchina infernale di guerra, del tutto sproporzionata agli eventi, agli obiettivi che si diceva di voler perseguire. Una macchina che il presidente Bush diceva di voler usare a sostegno dell’embargo e come forza di dissuasione e di pressione per piegare il dittatore Saddam, ma in verità volta a rinsaldare, anche con la guerra, l’egemonia americana in tutta la regione, e su scala mondiale, anche in conflitto-concorrenza con gli interessi europei e giapponesi, anche per dare un colpo ulteriore al residuo prestigio intemazionale dell’Urss. Doveva essere chiaro ma non lo fu. Né per Mosca, la cui visione del mondo 6 stata frastornata dalla tenibile crisi interna: né per la sinistra europea e italiana, e neppure per la maggioranza del nostro partito.

Ancora oggi, di fronte al massacro quotidiano, si esita a chiedere esplicitamente il rientro delle nostre forze militari. E invece sarebbe questo il contributo realisticamente più importante dell’Italia al «cessate il fuoco», in quanto è solo incrinando il fronte di solidarietà con la parte più intransigente degli Stati Uniti che da parte nostra si può agire per fare accettare la linea della tregua. Né si può giustificare l’esitazione a promuovere un grande sciopero nazionale per sostenere tale esigenza.

Non si può dimenticare quell’errore storico della maggioranza. Occorre anzi cercarne sino in fondo le ragioni, le cause vere. Che stanno, secondo me, nella linea che il nascente Pds si è dato sin dall’inizio, una linea rivolta alla omologazione con quella delle forze del governo, nel tentativo di giungere cosi allo “sblocco” del quadro politico.

Ora la guerra sconvolge tutti quei disegni, la realtà dei fatti fa crollare troppo facili speranze e illusioni. La necessaria, indispensabile presa di posizione del partito contro la guerra ormai iniziata rende oggi più difficili i rapporti di collaborazione con le forze democratiche e di sinistra, in Italia e in Europa, proprio perché é giunta tardiva, mentre, per mesi e mesi, nulla è stato fatto per ricercare e costruire con quelle forze punti reali di convergenza e di intesa – anche parziali – contro la guerra. Né la minoranza ha potuto sopperire alla defaillance, costretta come è stata nei limiti di una “corrente” politica che per quanto altamente, altissimamente autorevole, ha sofferto di quella mancanza di effettiva autonomia che é la condizione stessa per fare azione politica e non semplice testimonianza.

Al fondo di quegli errori sta la fragilissima analisi politica sulla quale é sorta l’ipotesi di liquidazione del Partito comunista e di fondazione del Pds. Un’analisi per molti versi solo propagandistica, comunque sostanzialmente illusoria.

Si sono visti gli effetti di quella linea – oltre che per il Golfo e le vicende del mondo – in altri campi, da quello istituzionale a quello economico e sociale. Grave é la crisi del sindacato, di cui la conclusione della vicenda dei metalmeccanici rappresenta una delle pagine più inquietanti.

Il partito ha accentuato in questo periodo quel difetto gravissimo che aveva iniziato a mostrare a partire almeno dalla fine degli anni 70, offuscando suo ruolo precipuo di partito antagoniista. Nel momento in cui per alternativa si è inteso alternanza di gruppi politici al potere, l’opposizione si é fatta inevitabilmente circoscritta e marginale.

Se non si vuole considerare immodificabile il ciclo politico di questi anni, se non si intende ridurre la politica a un mero strumento tecnico in grado di assicurare “governabilità” a una società complessa, diviene invece forte la necessità di dare sostanza e gambe a un progetto credibile di trasformazione dei rapporti economici e sociali.

È su tale punto chiave che si confrontano tra di noi impostazioni, culture, pratiche diverse, fra di loro anzi contrastanti. E’ da quel presupposto di cambiamento che, secondo me, trae vigore e moderna attualità la questione comunista. La guerra la rende oggi ancora più stringente. Dalla questione comunista non è possibile prescindere, proprio perché tutte le analisi precedenti entrano in crisi.

Il Pds. disancorato dalla sua matrice comunista, privato della sua identità antagonistica, della sua caratterizzazione di forza trasformatrice e di liberazione umana, nasce incerto: né come partito di governo né come partito di opposizione.

Nasce ed é destinato a restare in mezzo al guado, incapace di contare e di incidere, anche perché in crisi permanente, in quanto profondamente diviso e paralizzato dalle sue divisioni ed in quanto soprattutto non é sorretto da una valida analisi della realtà. I fatti hanno messo in mora analisi e progetti precedenti.

L’esigenza di sentirsi e di essere comunisti non può essere compressa e annullala da atti forzati. La questione comunista esiste. Non dovete, non potete cancellarla. Cacciata dai nomi e dai simboli, ripudiata nei comportamenti, tornerebbe comunque a insorgere. Appunto per questo, consapevoli della realtà, molti di noi hanno presentato una proposta che ci pare la più realistica e la più efficace per consentire a chi non é comunista e a chi intende restare comunista di trovare la via dell’azione comune, attraverso un patto federativo. Per cercare non una impossibile compresenza nello stesso partito di componenti contrastanti, ma per cercare e creare condizioni (il patto federativo, appunto) entro le quali l’autonomia politica e organizzativa delle forze che sostengono la rifondazione comunista – cosi come quella di eventuali altre componenti – possa vivere.

L’autonomia comunista é necessaria e non una corrente comunista in un partito dichiaratamente non più comunista. L’organizzazione correntlzia sarebbe una soluzione vecchia e ormai superata, del tutto inefficace essendo priva di reale agibilità politica, e anzi potrebbe essere persino dannosa perché in sostanza porterebbe ad una condizione reciprocamente paralizzante.

Riflettiamo, riflettete tutti. Quella che noi proponiamo é una via non facile, colma di incognite, ma forse essa rappresenta l’ultimo spiraglio per mantenere aperta una strada che ci consenta, a noi tutti, di non disperdere l’enorme comune patrimonio dei comunisti italiani.

lo non voglio scissioni. Sono nel partito dal 1943, per questo partilo ho dedicato la vita, dal carcere alla Resistenza alle infinite battaglie di quasi mezzo secolo, ho conosciuto sacrifici grandi, ho subito sconfitte, ho commesso errori, ma ho provato emozioni profonde e la gioia indicibile di tante splendide vittorie. Non voglio uscire dal comune rapporto costruito insieme a voi. Ma voi non potete impedirmi di restare comunista, di pensare e di agire da comunista.

Non potete impedirlo ai nostri figli. Tanti compagni se ne sono già andati perché comunisti, tanti e tanti non vogliono entrare nel Pds perché comunisti. Ma essi potrebbero tornare, potrebbero restare in campo se fosse garantita la loro autonomia ideale, politica, organizzativa, di comunisti.

È davvero impossibile? Davvero non potete, davvero non volete? , riflettete tutti, compagni. A voi dico quello che penso, sinceramente, con la freddezza della mente, con il calore del mio cuore. Riflettete. Siamo ancora in tempo. Siamo al dunque. Certo è che, giunti al dunque, le forze comuniste più responsabili non potrebbero rinunziare alla loro responsabilità, non potrebbero venire meno al loro dovere: che è quello di indicare alla massa di iscritti e di elettori comunisti, non disposti a seguire un partito non più comunista – il Pds -, la via non della rinunzia e della dispersione, ma quella dell’impegno per soddisfare un’esigenza oggettiva – ardua ma ineludibile – che scaturisce dalla società in cui viviamo, per garantire in Italia una autonoma, moderna, rifondata presenza comunista.

……………………….

Sergio Garavini 

La guerra è l’effetto di una situazione che non corrisponde alle analisi ed alle valutazioni portate a sostegno della svolta, che scioglie il Pci per fare un nuovo partito non comunista. E la relazione l’ha dovuto riconoscere.

Si è sostenuto che la crisi del «socialismo reale» e la fine della guerra fredda avrebbero aperto una fase di interdipendenza pacifica; che la ricetta mercato e democrazia parlamentare era quella giusta per superare la crisi a Oriente. Questa visione pacificante delle cose del mondo non ha retto nemmeno un anno. Si è sostenuto che non vi erano più ragioni di distinzione e di autonomia rispetto alla socialdemocrazia, che il divario con il Partito socialista italiano era, su scala internazionale, una sorta di anomalia, per cui si dava per scontata, quasi come automatica, la nostra adesione all’Internazionale socialista. Ma oggi, sulla guerra, ragioni di distinzione e di autonomia attraversano le stesse socialdemocrazie.

La verità è che la situazione impone non l’abbandono ma il rinnovamento di un’analisi, che provenga dalla nostra cultura di comunisti, delle attuali divisioni del mondo, del ruolo delle grandi potenze capitalistiche che hanno vinto la guerra fredda e che nella divisione e nell’arretralezza del Sud del mondo, hanno sviluppato una egemonia crescente ma precaria, forte ma contraddittoria.

Si è sostenuto che la fine della guerra fredda, e quindi dell’anticomunismo tradizionale, avrebbe aperto la via allo sblocco del sistema politico, all’accesso di tutta la sinistra al governo, in una alternanza di maggioranze. È ora fin troppo facile constatare che non vi sono i segni di un tale sblocco. Questo è, quando l’accento, a proposito delle questioni istituzionali è posto non sulla partecipazione democratica ma  sulla forza dell’esecutivo, quando avanzano incontrastati liberalismo e privatizzazione; quando è più spudorata la lottizzazione e quindi l’inefficienza dei pubblici uffici; quando il sindacato diventa sempre più un’istanza economico-istituzionale che tutela i lavoratori in un quadro il cui carattere è sostanzialmente sempre più corporativo, dove le classi lavoratrici sono e devono restare tutelate ma subordinate, prive di fondamentali diritti democratici nelle stesse loro organizzazioni.

Dunque, non c’è lo sblocco del sistema politico, ma una involuzione autoritaria e corporativa. L’affermazione enfatica sulla democrazia e sui diritti resta una declamazione fuori dalla realtà. La relazione di Occhetto riconosce questo scarto tra le ragioni della svolta verso il Pds e la realtà, ma non ne trae le conseguenze. Ma allora il pericolo ben evidente è che l’autonomia del Pds resti una velleità propagandistica, al di là della quale c’è il rischio della omologazione nel sistema politico. Si pone perciò un problema: c’è bisogno di un progetto di riforma e di rinnovamento democratico che venga dalla cultura comunista, ma che non si è incontrato con le ragioni del Pds. Eppure questa è un’esigenza reale alla quale è indispensabile trovare una soluzione.

Per questo è essenziale, puntare ad un impegno di lotta contro la guerra che corrisponda alla realtà della situazione. La relazione ha compiuto un passo importante in questo senso ma lo sviluppo deve essere pienamente conseguente.

E’ giusto rivendicare la cessazione del conflitto sollecitando una decisione dell’Onu e degli Usa. Ma il contributo a questo fine, nostro e dell’Italia, è tanto importante in linea di principio quanto praticamente modesto ed indiretto. Invece, ritirare le navi e gli aerei dal Golfo dipende dal governo, quindi spetta a noi rivendicarlo. Sento circolare una interpretazione per cui vi sarebbe su questo punto una reticenza nella relazione e spero che le conclusioni del congresso siano invece chiare.

Questa questione si lega a quella della nostra presenza in Turchia. È quindi decisivo che il governo non chieda al Parlamento di autorizzare le nostre forze armate ad intervenire, come, invece ha fatto per le navi e gli aerei. Non riesco a considerare che, a questo fine, sia una bestemmia estremistica lo sciopero generale per la pace.

È emerso tra noi, e si è consolidalo, un divario di analisi e di proposta. Negarlo è impossibile. E’ una differenza politica che in altre occasioni è stata definita come una divergenza di cultura. Questa è la verità.

Ritengo che il quadro di principio ed organizzativo che è stato proposto per il Pds non consenta l’impegno per un nuovo progetto comunista di analisi, proposta e iniziativa. Impegno al quale credo ci si debba dedicare in un processo di elaborazione e di azione che guardi avanti, che filtri e contesti criticamente la storia stessa del Pci. Ma per rifondare, non per cancellare, la cultura e la politica dei comunisti. Ritengo quindi sia ben difficile e problematica, da parte mia, l’adesione al Pds, ma naturalmente mi sento impegnato nel congresso e ne dovrò valutare le conclusioni.

Era stata proposta la soluzione di una «federazione» che non è stata accettata ma che ritengo resti una prospettiva valida, perché è la proposta di un rapporto unitario nel quale sia pienamente autonoma la forza che si impegna nella rifondazione comunista, ma che, proprio come tale, deve mirare all’unità. Anche rifacendomi al senso di questa proposta federativa, vorrei sottolineare che pure l’asprezza del confronto e della polemica non deve tradursi in un male tradizionale della sinistra per cui il vero nemico è chi ti sta più vicino. Sento più che mai che l’affermazione di una autonomia organizzativa e politica comunista ha senso se è pure capace di tradursi in una dialettica ed in una linea di proposta unitaria.

Pietro Ingrao

Io parto dalla questione che mi sembra centrale nella relazione di Occhetto: siamo a una svolta della situazione mondiale. La svolta si materializza nella vicenda del Golfo. Perché una guerra tutto sommato concentrata in un’area ristretta e finora durata poche settimane, sta assumendo significato generale? La questione del petrolio non basta a spiegare tutto. E nemmeno la pazzia di Saddam o la volontà di Bush di far fronte a un declino economico americano. L’unica spiegazione che riesco a trovare è che la vicenda squaderna dinanzi a noi l’immagine sconvolgente che è o può essere la scienza della guerra moderna. Questo emerge da ambedue i fronti della vicenda.

Dal lato dell’aggressore iracheno: vediamo un piccolo tiranno di un paese a economia subalterna, di pochissimi milioni di abitanti che può lanciare missili su Israele e minacciare la guerra chimica e batteriologica. Contro questo piccolo despota i più possenti paesi dell’Occidente industrializzato dichiarano di non avere altri mezzi che una guerra senza pietà, condotta con i loro più sofisticati strumenti di sterminio. Quanto più mi dicono che questa guerra è necessaria, tanto più mi spavento.

C’è un’altra strada? Io vedo qui il grande valore della scelta che sta dinanzi a questo congresso. Noi stiamo dicendo qui che per risolvere i conflitti tra gli Stati e bloccare l’aggressore ci può essere un’altra via. E dinanzi all’orrore della guerra del Duemila stiamo cercando, provando, lottando per una nuova, grande strada pacifica.

La Costituzione italiana dichiara che l’Italia rifiuta la guerra. Invece per la prima volta in quarant’anni l’Italia è di nuovo in guerra. Questa è la scelta che ci sta dinanzi: se quel ripudio scritto nella Costituzione è solo una frase, o invece qui deve diventare realtà. Perciò la lotta per il ritiro delle navi dal Golfo non è superata o marginale o accessoria. È coerenza con ciò che diciamo: atto significativo e necessario di una strategia.

È possibile un’altra strada? Noi stiamo proponendo e cercando una lotta contro l’aggressione e una via per la regolazione dei conflitti che siano pacifiche. Oggi cerchiamo di agire concretamente per mettere in pratica, qui e ora dinanzi a questa crisi, a questa guerra del Duemila, la via della pace. Non è una via rinunciataria. Anzi è quanto mai ambiziosa. Discutiamo tanto della nostra identità. Se scegliamo davvero, se tentiamo davvero questa strada, questa è una straordinaria assunzione di identità.

Questa strada chiede una forte coerenza. Una conferenza sul Medio Oriente non può essere affidata a un impegno generico, su un imprecisato domani, come era ancora anche in quel comunicato del segretario di Stato Usa e del ministro degli Esteri sovietico, che pure giorni fa è stato rifiutato da Bush. E non fermarsi ai palestinesi e alla sicurezza di Israele ma deve riguardare anche il Libano e non solo l’indipendenza, ma la libertà del Kuwait. Cioè dobbiamo lavorare perché si affermi una autonomia e libertà dei popoli arabi come coessenziale obiettivo della pace. Questa via ha implicazioni politiche subito: vuol dire che noi lottiamo contro Saddam, ma anche contro il despota siriano Assad, di cui nessuno parla e che oggi è l’amico di Bush e di Gorbaciov; e contro i satrapi miliardari degli emirati.

Ho apprezzato che il segretario del partito abbia detto che bisogna allargare il Consiglio di sicurezza dell’Onu e abolire (ho capito bene?) il diritto di veto. Questo significa dire oggi che 1’Onu non è un organismo democratico ma è controllato e manovrato dalle grandi potenze, sino alla clamorosa violazione del suo Statuto compiuta con la risoluzione 678.

Quanto ci vorrà per rompere questa oligarchia? Ci vorrà moltissimo se noi già da ora non cominciamo ad aprire questo terreno di lotta. E su ciò, invece, in questi mesi abbiamo consentito una mistificazione. Parlai al congresso di Bologna degli F16. Non mi vergogno di tornare a parlarne dopo un anno. Oggi lo vediamo: non si tratta di una base qualunque. Si tratta del fianco sud del sistema militare atlantico sul Mediterraneo. Il ministro De Michelis dichiara letteralmente che «il pericolo viene da Sud e non più da Est» e che è necessaria una forza militare capace di intervenire non solo fuori dai confini nazionali, ma «a distanza». Gioia del Colle, Crotone, Taranto, Sigonella, sono solo l’anticipo di una strategia: apriamo finalmente una lotta reale e di massa per un Mezzogiorno di pace? Apriamo finalmente una controversia per il rifiuto unilaterale degli F16?

Alle parole deve corrispondere la lotta. Tutti, più o meno, abbiamo criticato qui il pesante deficit di iniziativa della Cee nel conflitto mediorientale. Ma c’è una base, o almeno un primo terreno reale di parti nella Cee? No. E non solo per l’egemonia finanziaria tedesca, ma perché ci sono nella Cee due potenze atomiche: Francia e Inghilterra. Questo dato non è mai contestato o fatto oggetto di reale negoziato. Su questo punto non è esistita nemmeno una lotta.

Voglio dire che la grande, enorme, scommessa sulla pace come regolatrice dei conflitti, come base di un primo germe di governo mondiale, ha bisogno di una rigorosa coerenza. Non si può fare a spicchi.

Non si può restare in mezzo al guado. E ha bisogno di costruire nuovi soggetti reali. Questo congresso invece è ancora contraddittorio. Per un verso spinge a una scelta di pace che sembra alludere ad una nuova idea della politica; e per un altro verso è monco nell’autocritica sul limite grave che la sinistra europea, ma anche noi, ha avuto nella lotta per il disarmo e per il Sud del mondo. E io stesso qui taccio sulla posizione assunta dal sindacati.

Sostengo che scegliere la via della pace per affrontare questo conflitto è un modo forte di assolvere ad una funzione nazionale e internazionale. Il ritiro delle navi dal Golfo non è trarsi fuori, un rimpicciolirsi oppure l’Italietta che si sottrae a un ruolo internazionale. È un’altra strategia. E anche la proposta di una tregua unilaterale riceve così una motivazione di fondo, non solo tattica. Una simile strada sarebbe un grande atto verso il Sud del mondo: un cambiamento nella storia stessa dell’Occidente cattolico-cristiano. Anche per questo parla Wojtyla. E io non ho per nulla in testa lo schema di una America sposata alla causa o alla funzione di gendarme mondiale. Tanta America di oggi discute più laicamente che in Italia della guerra del Golfo. Noi, sinistra europea, puntiamo su questa America o su Bush? Ecco un nodo essenziale su cui si misura e si costruisce l’alternativa. Facciamo l’ipotesi che si possa cominciare a camminare su questa strada pacifica, io credo che man mano che avanzi una tale pratica di pace essa si riverbererebbe su tutto il panorama sociale. Anche la prepotenza di Romiti sarebbe più debole.

E questa strategia di pace sarebbe un potente anticorpo contro i reami della violenza e le fonti del dominio sociale. Sarebbe anche una rottura contro l’etica maschilista del possesso.

Io sono comunista e sono sceso in campo per una rifondazione comunista. E vedo quale novità, e arricchimento questo affrontare concretamente la violenza con la pace introduce anche nella tradizione alta del comunismo italiano; e quale terreno straordinario esso può aprire con altre culture e civiltà. Altro che il ghetto in cui ci vede chiusi Craxi. Ma lo sa Craxi che in Francia si è dimesso il ministro socialista della Difesa?

Se siamo coerenti, se non arretriamo spaventati, assume un forte significato che questo partito, dato per defunto, si cimenti in una tale innovazione pacifica e con questo tema grande e inedito davvero il peggio sarebbe restare in mezzo al guado.

Allora, su la schiena. E attenti al rischio della separazione. Voi che siete la maggioranza avete oggettivamente il potere più forte per evitarla.

Perciò provo a fare un appello a me stesso. Non credo alle confusioni e ai pasticci, e forse ne ho dato qualche prova. Credo alla fecondità delle differenze che si dicono alla luce del sole. Ma se in qualche modo siamo davvero al cimento di cui ho parlato, e a questo punto di svolta della vita mondiale, tutti dobbiamo parlare in modo diverso. Tutti dobbiamo cambiare qualcosa fra di noi e soprattutto fra noi e gli altri. Speriamo davvero di farcela.

 Lucio Libertini

Partendo dalla parte della relazione Occhetto sulla questione del Golfo, che difendo dagli attacchi (…) chiedo che sia chiarito ogni equivoco e propongo perciò che il congresso voti un ordine del giorno che impegni i gruppi parlamentari a presentare una mozione che, insieme alla richiesta del cessate il fuoco, contenga la richiesta di una dissociazione dell’Italia dalla guerra, con l’immediato ritiro delle sue forze armate dal Golfo.

Navi e aerei sono coinvolti in guerra in violazione degli articoli 11, 78, 87 della Costituzione e il loro ritiro è anche un ripristino della legalità repubblicana.

Una tale decisione costituisce sul piano politico un elemento importante della costituzione della piattaforma politica di un patto federativo, che consenta la coesistenza unitaria di aree diverse. Infatti, una separazione è già avvenuta, poiché dal confronto di un anno sono emerse identità politiche differenti – comunista, socialista, riformista, democratica di sinistra – che non possono essere regolate dal principio di maggioranza in un partito centralistico. Prendendo atto delle diversità, occorre ora invece cercare le vie dell’unita possibile che non può sopprimere quelle identità. Noi siamo e intendiamo restare dei comunisti perché siamo convinti che questa teoria e questa pratica, finalmente liberate dalle deformazioni autoritarie che ne hanno tragicamente contraddetto i principi, hanno dissolto le illusioni dell’89, facendo venir meno anche le basi stesse del Pds, e hanno posto in evidenza le grandi e crescenti contraddizionidel sistema capitalistico, a partire dal drammatico divario fra Nord e Sud del mondo e dell’acutizzarsi del conflitto di classe. E dunque vogliamo lavorare ad un processo, teorico e pratico, di rifondazione comunista, che riguarda un’area più vasta della nostra mozione congressuale e investe le giovani generazioni.

Ma rispettiamo altre elaborazioni ed esperienze e non vogliamo disperdere l’enorme potenzialità umana e sociale del Pci.

In questo senso il patto federativo è la sola soluzione unitaria possibile. Occorre però vederlo non come una richiesta della minoranza, ma come un modo nuovo della organizzazione politica: come un’idea aperta dell’intera sinistra, cioè l’inizio di un vero processo costituente della sinistra. Chiedo al congresso il coraggio di una svolta, che superi contraddizioni precostituite e vecchi modelli e non contrapponga la logica vecchia di una maggioranza alla ricerca di vie nuove e non pretenda di surrogare la via nuova e avanzata del patto federativo con l’avvilente pratica delle correnti interne, che ci paralizzano a vicenda e ci separano dalla società.

occhetto-dalema-e-napolitano

i rottamatori


Sostieni il Partito con una



 
Appuntamenti

PRIVACY







o tramite bonifico sul cc intestato al PRC-SE al seguente IBAN: IT74E0501803200000011715208 presso Banca Etica.