I facchini fanno strike

I facchini fanno strike

di Anna Curcio, Gigi Roggero -
Sono migranti, sono riusciti a superare il razzismo che spesso regola i rapporti tra le diverse comunità presenti in Italia. E oggi vogliono bloccare snodi di trasporto e magazzini assieme a studenti universitari e precari Bassi salari e poche garanzie. Un settore dove il mercato del lavoro è spesso gestito da cooperative.
Ripensare lo sciopero, trovare l’equivalente funzionale della forma-sindacato, costruire processi di generalizzazione: ecco i rovelli con cui ogni movimento del lavoro vivo si confronta da quando le trasformazioni produttive hanno reso inservibili o quasi molti degli strumenti organizzativi del passato. Ancora una volta sono i conflitti di classe, le mobilitazioni dei lavoratori a indicare ipotesi verso cui direzionare le riposte. Così è per i blocchi e gli scioperi selvaggi dei lavoratori della logistica, in quello che ormai – per caratteristiche comuni, estensione e durata – può essere definito un ciclo di lotte. Su questa base è stato convocato per venerdì 22 marzo lo sciopero generale dei lavoratori della logistica: prima e dopo non si faranno straordinari, per ribadire che si vogliono colpire sul serio gli interessi della controparte. Definirlo uno sciopero di settore sarebbe riduttivo, perché queste lotte stanno ponendo con forza le questioni della generalizzazione e della ricomposizione.
Oltre la frammentazione
I lavoratori della logistica, in particolare i facchini, sono nella loro quasi totalità migranti. Ci vuole poco a capirne i motivi: la ricattabilità a cui sono sottoposti dalla legislazione esistente li spinge ai livelli bassi del mercato del lavoro, dove i confini tra occupazione e lavoro nero si dissolvono, i contratti sono formalità di cui i padroni si disfano facilmente, l’intensità dello sfruttamento non conosce regole. Nel sistema delle cooperative, modello della sinistra e in questo caso nemico degli operai, le gerarchie del comando vanno dai vertici dell’impresa a una rete di caporali, passando per l’uso di bande mafiose che colpiscono le figure di riferimento delle mobilitazioni (auto bruciate, minacce e aggressioni, ecc.). Da questa condizione estrema i migranti diventano paradigma della precarietà contemporanea, quindi dell’intera composizione del lavoro vivo, come d’altronde già segnalato su queste pagine in occasione dello sciopero di gennaio alla Tnt di Piacenza (il manifesto del 8/1/2013 e del 11/1/2013).
Se a partire dal 2002 le mobilitazioni contro la legge Bossi-Fini sono state animate da un classico schema anti-razzista e solidaristico, con queste lotte sono i rapporti di sfruttamento nel loro complesso a essere attaccati, e al loro interno i processi di inclusione subordinata dei migranti. Il salto di qualità è illustrato da un facchino della Tnt di Piacenza proveniente dal Marocco: «i padroni mi hanno provocato una malattia: il razzismo. Ero diventato razzista contro i miei compagni di lavoro di altre nazioni. I capi dicono ai marocchini che i tunisini sono più bravi, ai tunisini dicono che sono più bravi gli egiziani o i romeni. Con la lotta contro lo sfruttamento ci siamo uniti e abbiamo sconfitto anche il razzismo». Le lotte compongono in una cooperazione autonoma ciò che lo sfruttamento capitalistico tenta di separare e gerarchizzare: è dal riconoscimento in una condizione comune – «chi deve portare a casa il pane» – che si stanno dunque costruendo i processi di lotta e soggettivazione. Perciò il razzismo, ci dicono, si distrugge combattendo lo sfruttamento. Da questa conquista non si può tornare indietro.
D’altro canto, l’aggettivo migrante usato per i lavoratori è importante anche per le forme del conflitto. Mohamed Arafat, figura trainante nel polo della logistica piacentino, spiega che «per noi è stato come in Egitto: la rivoluzione». Distruggere i dispositivi di frammentazione razziale significa quindi, al contempo, creare uno spazio transnazionale di circolazione delle lotte e delle pratiche di conflitto. Qui si forma la composizione politica del lavoro vivo globale, irriducibile ad astratta omogeneità e, proprio per questo, capace di esprimersi con linguaggi comuni.
I lavoratori della logistica raccontano che il loro primo contatto con il sindacato avviene per faccende burocratiche (permesso di soggiorno, ricongiungimenti famigliari, moduli da sbrigare). È il rapporto con un’agenzia di servizio. Per il resto, i sindacati confederali sono nei casi migliori assenti e nei peggiori, i più frequenti, complici del padrone e del sistema delle cooperative. Se propongono uno sciopero, è rituale e simbolico, «tradizionale», incapace di colpire gli interessi materiali dei padroni. «Questi scioperi non li facciamo, sono inutili». «Bisogna far male ai padroni», ripetono i lavoratori, a partire da una precisa conoscenza del ciclo produttivo: quando colpire, dove bloccare, come farlo. Ad esempio, quando in febbraio durante uno sciopero alla Coop Adriatica di Anzola (il più grande deposito delle «coop rosse» dell’Emilia Romagna), i picchetti hanno impedito l’ingresso a decine di crumiri. Ma è quando si sono bloccati i camion, di fronte al profilarsi di centinaia di milioni di euro in merci da buttare, che il padrone ha ceduto, convocando il delegato S.I. Cobas e accettando tutte le principali rivendicazioni.
In questo modo i lavoratori la fanno finita con il piano simbolico dello sciopero, riappropriandosi dello strumento per declinarlo dentro e contro i processi di accumulazione capitalistica contemporanea. Qui un sindacato serve, ma non per farsi rappresentare: il sindacato che i lavoratori cercano deve al contrario mettere la propria struttura al servizio della loro organizzazione autonoma. Insomma, il sindacato serve per fare le lotte, oppure a niente.
La paura della controparte
Questo ciclo di conflitto ha riportato al centro un tema che per i movimenti italiani sembrava quasi dimenticato: la vittoria, che si sta moltiplicando ovunque. «Prima eravamo schiavizzati, dopo la lotta è cambiato tutto», taglia corto un lavoratore. La violenza dei livelli repressivi (ripetute cariche della polizia, denunce, fogli di via – il più recente, di tre anni da Piacenza, è stato comminato ad Aldo Milani del S.I. Cobas) sono la misura della paura che queste lotte hanno destato nella controparte. Le principali rivendicazioni riguardano la cancellazione dei meccanismi di ricatto delle cooperative e della discrezionalità padronale degli orari di lavoro, i ritmi, il pagamento delle festività, il salario – che torna a divenire questione politica, dopo un lungo periodo in cui era stato ridotto a elemento di concertazione e di scambio rispetto alla stabilità occupazionale.
Negli ultimi mesi abbiamo visto la partecipazione di studenti, precari e militanti agli scioperi e ai picchetti, oltre all’organizzazione di iniziative comuni (prima di Natale è stato bloccato il punto vendita Ikea di Bologna). Tuttavia, la questione va oltre l’espressione di solidarietà tra soggetti differenti. Nelle assemblee, ad esempio, i lavoratori parlano spesso di università e studenti in quanto direttamente interessati: molti sono diplomati o laureati e hanno sperimentato la devalorizzazione della propria forza-lavoro a ogni passaggio di confine; altri, soprattutto i migranti di seconda generazione, cercano di pagarsi gli studi o ne sono emarginati dalla decrescita di reddito e welfare state. D’altro canto, studenti e precari percepiscono nello sfruttamento e nei conflitti dei lavoratori migranti una continuità con le proprie forme di vita (talora sono occupati dentro il medesimo perverso sistema delle cooperative).
Complessivamente, nella logistica si condensa un altissimo accumulo di conoscenze e cooperazione dei saperi, che le imprese devono tenere separate per governare. È a partire dalla distruzione di questi dispositivi che si pone, materialmente e non ideologicamente, il nodo della ricomposizione. Le differenze qui cessano di essere strumento di frammentazione per farsi rete di una cooperazione comune.
Un passaggio, quest’ultimo, che ha bisogno di adeguati processi organizzativi: è la posta in palio oltre il 22 marzo. Le assemblee di preparazione delle ultime settimane possono forse costituire dei primi embrionali luoghi comuni per sviluppare questi processi. La scommessa è aperta, e già questo è un risultato straordinario ottenuto dalle lotte.

Il Manifesto – 23.03.13


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