La partigiana comunista Nori Brambilla Pesce

La partigiana comunista Nori Brambilla Pesce

4 anni fa ci lasciava la nostra compagna Onorina Brambilla Pesce. La ricordiamo proponendovi il racconto della sua storia partigiana pubblicato su Triangolo Rosso, Giornale a cura dell’Associazione nazionale ex-deportati nei Campi nazisti, N. 7-9 ottobre – dicembre 2013. 

Accanto a “Visone” nella lotta per la libertà. Onorina Brambilla, “Sandra” e il 3° Gap di Milano

di Franco Giannantoni

Avrei preferito andare in montagna, in una formazione “Garibaldi” magari con “Cino” Moscatelli ma quando si offrì la possibilità di dare una mano alla Resistenza entrai in un Gap, il 3° quello costituito da Egisto Rubini, morto suicida in carcere per non parlare. Era la primavera del ‘44.

Onorina Brambilla, appena ventenne, impiegata, la madre Maria operaia alla Agretta una fabbrica di bibite, il padre Romeo operaio alla Breda Aeronautica di Bresso e per una breve parentesi alla “Bianchi” prima di essere licenziato per la sua attività antifascista, una sorella più giovane, la Wanda, l’irresistibile richiamo della lotta l’aveva avvertito sin dai primi giorni dopo l’8 settembre del ’43 quando, con altre compagne di lavoro, aveva risposto, senza purtroppo individuare il luogo del concentramento, all’appello di Poldo Gasparotto, il comandante militare di “Giustizia e Libertà” fucilato a Fossoli il 22 giugno 1944, che avrebbe voluto organizzare una Guardia Nazionale, una sorta di esercito popolare per combattere i tedeschi e difendere Milano dall’imminente occupazione.

Onorina Brambilla con la sua “Bianchi” azzurro cielo, dono del padre, non aveva retto all’emozione di quel patriottico messaggio e aveva battuto in lungo e in largo il centro di Milano, già segnato dai micidiali bombardamenti alleati, per presentarsi e mettersi a disposizione.

Ma il luogo del ritrovo, una cantina-deposito di una fabbrica di medicinali in via dell’Annunciata, una laterale di via Manzoni, non l’aveva trovato e, come lei, le sue compagne.

Alla fine era tornata nella storica casa di ringhiera, il luogo dove abitava, di via Alfonso Corti 30 di Lambrate, ai “Tre Furcei” (da “Tre Forchette”, il nome di un piccolo ristorante della zona), in attesa che le si presentasse un’altra occasione Onorina Brambilla aveva già nel sangue il comunismo, la stella cometa che la guiderà in tutta la sua vita. Ne aveva sentito parlare per la prima volta alla “Paronitti”, l’azienda in cui lavorava dall’età di 14 anni, da Delfina Della Seta, la matura archivista. Questa le aveva presentato Giulio Pastore, un quarantacinquenne, passato più volte dalle carceri fasciste che, giorno dopo giorno, aveva raccontato la lunga storia di lotte della classe operaia, la Rivoluzione d’ottobre, la battaglia per la difesa dei diritti dei lavoratori, la violenza del fascismo, il carcere, il Tribunale Speciale, il confino. Onorina, attenta, aveva incamerato tutte quelle nozioni comparandole con lo stile di vita della sua famiglia, l’antifascismo, le speranze in un’Italia migliore.

Con questa struttura ideologica, forte delle sue convinzioni mediate dal dibattito coi genitori e, con tutte le precauzioni del caso, sul luogo di lavoro, Onorina aveva potuto vivere da vicino il 25 luglio, il giorno della caduta di Mussolini, la ribellione popolare, la reazione alle brutalità del governo di Badoglio. Si era fatta un’idea precisa su quello che stava accadendo. Aveva visto coi suoi occhi Anna Gentili, una bella ragazza toscana, salire con un gesto di estremo coraggio su un carro armato di Badoglio che cercava di frenare la folla che avrebbe voluto marciare, come poi fece, in direzione del carcere di San Vittore per liberare i detenuti politici reclusi dal fascismo.

Il sogno di Gasparotto era frattanto tramontato. Il generale Vittorio Ruggero, comandante militare della Piazza di Milano, tradendo gli impegni assunti con il Comitato Militare antifascista di Alfredo Pizzoni, Girolamo Li Causi, Giovanni Grilli, Luigi Gasparotto e altri, si era consegnato al nemico. L’aria a Milano si era fatta immediatamente pesante.

Erano cominciati i primi rastrellamenti, c’erano stati i primi arresti. San Vittore boccheggiava, colma di prigionieri politici. Occorreva sapere rispondere. I primi gesti di Resistenza eran venuti dalla 3a Gap di Egisto Rubini. Attentati ai mezzi tedeschi, qualche ordigno nei luoghi di raccolta delle truppe nemiche, sulle montagne prealpine i primi gruppi armati, in maggioranza di matrice militare ma anche integrati da ragazzi

sfuggiti ai primi bandi di Salò, avevano cercato di fronteggiare l’esercito del Reich pagando prezzi altissimi. Onorina Brambilla era tornata al suo lavoro d’impiegata modello e di superveloce stenodatti lografa, poi, per una questione “sindacale”, si era licenziata dalla Paronitti, trovando in poco tempo un nuovo impiego in una fabbrica che produceva binari per le ferrovie.

Una nuova esperienza e un buon salario rispetto al precedente impiego che avevano premiato la sua bravura già messa in mostra alla Scuola professionale frequentata con profitto.

L’attesa di potersi battere, di mettere in pratica le nozioni apprese da Pastori, dando il suo apporto alla causa, era apparsa bruciante.

Dopo una prima esperienza al Gruppo Difesa delle Donne, accanto a Francesca Ciceri, “Vera”, la sua nuova “maestra”, nei primissimi giorni del giugno del ’44 era giunta la svolta tanto attesa. Per mezzo dell’amica, Onorina Brambilla aveva conosciuto Giovanni Pesce giunto da Torino per assumere il Comando del 3° Gap al posto di Rubini. Per lei quell’uomo non alto di statura, leggermente stempiato, dai tratti anonimi, rassomigliante più a un rappresentante di commercio che a un esperto di armi e strategie militari, era appunto “Visone” e tale sarebbe stato per un po’ di tempo. “Visone” era il nome del paese vicino ad Acqui Terme dove era nato questo partigiano.

Fra i due era nata un’immediata simpatia: il sorriso, la tranquillità, quel parlare una lingua un pò francese (era emigrato in Francia con la famiglia quando era un bimbo), un po’ spagnola (era stato combattente nelle Brigate Internazionali), un po’ italiana, aveva provocato un che di divertente.

“Visone”, tornato in Italia nel ’40, era stato arrestato, condannato, spedito al confino a Ventotene dove aveva conosciuto i massimi dirigenti del Partito. Il 2 giugno del ’44 Pesce, protagonista di azioni leggendarie, aveva dovuto lasciare Torino dove era “Ivaldi” (il nome di un vecchio operaio) perché messo sotto tiro dai nazifascisti. C’era il pericolo che, dopo la sanguinosa azione contro la radio fascista della Stura, in cui erano stati catturati e poi impiccati i gappisti Valentino e Bravin e Dante Di Nanni che si era suicidato, che Pesce fosse catturato. Da qui l’immediato spostamento a Milano rimasta scoperta, nel frattempo, della guida per la caduta dell’ufficio di comando. Fu in questa fase della lotta che Onorina lasciò il suo nome naturale per diventare “Sandra” ed entrare nella semi clandestinità.

La ragazza, graziosa, elegante nei vestitini preparati dalla mamma che le davano un’aria da studentessa modello più che di una guerrigliera in erba, mostrò subito di che pasta era fatta. Coraggio, abnegazione, rispetto delle regole e degli ordini, disponibilità assoluta al punto che, dopo pochi mesi da “staffetta”, la categoria in cui era confinata solitamente la figura femminile, si era guadagnata i galloni di ufficiale di collegamento, un ruolo riconosciuto dopo la fine della guerra ed equiparato a quello di tenente dell’esercito italiano.

Poco prima di andarsene il 6 novembre di due anni fa, era riuscita nell’impresa, accompagnata per mano da Roberto Farina, uno studioso serio, di raccontare in “Pane bianco”, in parte una fiaba del bel tempo andato e in parte un racconto aspro della guerra partigiana, la sua storia. Un bel lavoro, anche una confessione dei momenti bui, delle incertezze ma soprattutto un canto sopraffino delle tante imprese compiute. Paura? Si certo che ne avevo-rispondeva-chi non ha paura è un folle destina- to prima o poi a lasciarci le penne. Così, quando nell’agosto del ’44 aveva portato a termine l’azione forse più rilevante della sua militanza partigiana, il senso del rischio che stava correndo, non l’aveva mai abbandonata.

Il Comando Gap aveva deciso che l’avvocato Domenico De Martino, funzionario dell’Ufficio Politico della Questura di Milano, fra i più pericolosi agenti della Rsi, andasse colpito. A “Sandra” era stato chiesto di identificare questo personaggio perché nessuno lo aveva mai potuto vedere. L’unica soluzione era quella di andare a casa sua e incontrarlo con uno stratagemma.

Impresa non da poco (ecco la paura in agguato) che “Sandra” af frontò con assoluta freddezza.

Suonò al portone di casa De Martino in via Telesio 8, fu accompagnata da una cameriera nello studio dell’agente politico, raccontò la storiella di sua sorella che avrebbe voluto riconoscere il figlioletto nato da un ufficiale caduto in Albania, ebbe dei consigli e a quel punto con le gambe che stavano cedendo se ne andò. Missione compiuta. I tratti del De Martino erano stati fissati nella mente di “Sandra”. La Gap non aveva avuto problemi qualche giorno dopo nel liquidare il conto.

La prima vera azione militare a cui aveva preso parte, era stata condotta da Franco Conti, comandante della Gap di Niguarda, contro un maresciallo delle SS italiane. Il gappista aveva spara- to per strada nel momento in cui il fascista era apparso e lei -era il compito specifico di ogni staffetta- aveva preso in consegna l’arma infilandola nella borsetta e si era dileguata per la strada opposta percorsa dallo sparatore.

Da quel giorno la serie di azioni non si interruppe mai. “Sandra” quando ricordava quelle ore, si faceva pensierosa. Pietà? Nessuna- rispondeva – quando loro ci prendevano eravamo carne da macello, ci sterminavano. Perché avremmo dovuto comportarci diversamente? Era la guerra.

Ebbe, come tutti i coraggiosi, in qualche occasione anche la sua buona dose di fortuna come in quel giorno di primavera del ’44 quando avrebbe potuto cadere nelle mani dei marò della “San Marco”, una delle quattro Divisioni della Rsi addestrate in Germania. Ma si salvò. Era in bicicletta dalle parti di piazza Ludovica, nel paniere di vimini della “Bianchi”, sotto pane e verdura, aveva nascosto due pistole. Dovevano servire a “Visone”. “Sandra”, quando da lontano intravvide il posto di blocco, non fece l’errore di cambiare strada. Sarebbe stata notata nell’incauta manovra, inseguita, arrestata. Continuò a pedalare come se niente fosse accaduto e, all’ultimo metro, mentre le forze le stavano mancando e il terrore l’aveva paralizzata, sentì esclamare al marò di turno: “vai vai pure, bella”.

Più o meno la stessa avventura l’aveva vissuta quando, tornando da Mazzo-Rho con dell’esplosivo in una valigia utile per un attentato a Greco-Pirelli contro i treni diretti in Germania carichi di parti industriali trafugate nelle fabbriche italiane, venne avvicinata sul tram da due poliziotti attirati dalla sua graziosa figura. L’esplosivo era di una decina di chili.

I poliziotti, galanti, l’aiutarono a trasportare la valigia una volta giunta al capolinea del “33”. Ma come è pesante!, esclamarono i due. Verdura e frutta, vengo dalla campagna commentò “Sandra” tranquillamente. Poi insistette nel tentativo di seminarli. Faccio da sola e loro di rimando: Vediamoci domani, andiamo al cinema, e porti un’amica bella come lei! Affare fatto con gran sorriso. “Sandra” per un’altra volta si era salvata da una trappola.

Fra un’azione e un’altra era sempre in contatto con “Visone”. Gli incontri avvenivano nella base di via Macedonio Melloni dove la portinaia Maria faceva finta di non sapere che quello era lo snodo operativo dei gappisti.

Intanto con il passare del tempo la simpatia si trasformò in amore. Quando dissi a mia madre- confessò Onorina nel suo libro- che quella sera non sarei tornata a casa per un impegno importante, fu un piccolo dramma. Ma la lotta riservava per fortuna spazi di vita privata, momenti nei quali allentare la tensione e poter pensare al proprio futuro. Per noi fu così. “Sandra” giunta a quel punto non aveva compiuto l’errore di sovrapporre la sfera strettamente privata della propria vita a quella partigiana. “Visone” era rimasto sempre il suo comandante.

Lei l’ufficiale di collegamento senza mai sottrarsi ad alcun impegno cui dovesse assolvere. Fra i più pericolosi, il trasporto dell’esplosivo il 30 agosto del ’44 che sarebbe servito a Clemente Azzini, “il soldato”, per far saltare per aria, cosa che avvenne, il posto ristoro delle truppe tedesche alla Stazione Centrale.

Conclusa l’azione “Sandra” era risalita sulla “Bianchi” celeste con cui era arrivata ed era sparita nel ventre della città dilaniata dalla guerra.

Venne il fatale pomeriggio del 12 settembre 1944. Per “Sandra” fu la fine dell’avventura partigiana. Venne infatti arrestata con la “staffetta” Narva (Dosolina De Ponti) in piazza Argentina davanti al cinema omonimo. Avrebbe dovuto dire a Giovanni Jannetti alias “Arconati” che “Visone” non si sarebbe presentato all’appuntamento perché impegnato a liberare al policlinico un compagno partigiano ferito in uno scontro a fuoco. “Arconati” non era mai piaciuto a “Visone”. Voleva sapere troppe cose diceva. Infatti, non appena “Sandra” si era presentata all’incontro, era stata circondata da militi fascisti e SS mentre il provocatore “Arconati” era filato via.

Trasferita a Monza alla Casa del Balilla, sede delle SS del famigerato Wernig, era stata interrogata da militi italiani e, al silenzio che ne era seguito, messa nelle mani di un boia ucraino, colpita a sangue con il “gatto alle sette code”, un frustino tempestato da anelli di ferro.

Un vero supplizio affrontato senza aprire bocca. In un’occasione poté incontrare la madre. Un progetto studiato da “Visone” per poterla liberare si era rivelato inattuabile. L’11 novembre, dopo un breve soggiorno al V° raggio di San Vittore, fu trasferita in auto- bus con altri 78 prigionieri, di cui sette donne, nel campo di “polizia e di smistamento” di Bolzano-Gries di via Resia, l’anticamera dei lager, in funzione dopo l’abbandono di Fossoli Carpi per l’avanzare delle truppe alleate.

Triangolo rosso, simbolo dei prigionieri politici, numero di matricola 6087, Blocco “F” Onorina Brambilla non si fece schiacciare dall’angoscia.

Soffrì la solitudine, patì la fame, curò l’immagine per quanto potesse. Non fu percossa. Vide brutali pestaggi dei due aguzzini Michael Seifert e Otto Sein agli ordini di Haage e Thito, i comandanti. Mantenne dignità e fierezza. Rimase partigiana. Poi, quando Carlo Milanesi, un comunista, costituì con il figlio Delio, Ada Buffulini e altri compagni, una sezione interna del Cln e poi del Pci, con tanto di tessera, Onorina Brambilla riprese fiato. Si sentì viva. Era orgogliosa. Ebbe anche modo di uscire dal campo per andare con Ermelinda Rocco, “Katia”, partigiana del luogo e detenuta con altre tre sorelle, a fare le pulizie nelle caserme della Wehrmacht della città.

Era diventata, svelando doti nascoste del carattere, l’anima del gruppo dei “lombardi”, aveva esteso i contatti interni conoscendo gente straordinaria come la dottoressa Lidia Borelli dell’Ospedale di Garbagnate vittima pure lei di “Arconati”, aveva diffuso il verbo comunista, aveva incitato i compagni a resistere. Un solo sogno non si era avverato, se non in casi rarissimi, quello di poter apprezzare, al posto di quel pane nero, indigeribile, amarognolo, una bella pagnotta di farina bianca. Mamma mandami del pane bianco, dicono le lettere, miracolosamente salvate dall’inferno. Il “pane bianco” partì dalla periferia di Milano, ma il più delle volte si perse per strada.

Il 1° maggio 1945, venti- quattro ore dopo la liberazione del campo e l’arrivo degli Alleati, Onorina Brambilla con un gruppo di amici fra cui Carlo e Delio Milanesi, Serafina Casati, partigiana valtellinese,

gente di Genova, non attese gli autobus di soccorso. Decise di raggiungere Milano a piedi, libera, sotto la neve, prima attraverso il Passo della Mendola, poi la Val di Non indi il Tonale.

Una trasferta massacrante, con soste in pagliai, non sempre assistiti dai contadini. Dopo una sosta a Ponte di Legno e a Lovere, l’arrivo a casa. Era il 7 maggio 1945. Il giorno prima c’era stata la grande sfilata dei partigiani. Onorina era apparsa in via Corti come piovuta dal cielo.

Era scesa dal tram, per prima aveva visto Wanda, la sorella, al ballatoio, che paralizzata dall’emozione, si era abbandonata in una risata isterica, interminabile.

Poi l’abbraccio con i genitori e con “Nino”, il suo “Visone” che pochi mesi dopo, il 14 luglio 1945, la ricorrenza della presa della Bastiglia, diventerà suo marito.

Una data non casuale, singolare dono di nozze non potendo fare altro per le ristrettezze economiche, all’amato compagno che in Francia visse, lavorò, costruì la sua coscienza di comunista.

C’è una fotografia  di quel matrimonio celebrato con un discorso che non finiva mai dal sindaco della Liberazione Antonio Greppi poco lontano da Palazzo Marino semidistrutto dalle bombe che illustra il clima di felicità, solidarietà e di libertà. Immortala “Sandra” e “Visone” coi genitori di lei (la madre di Giovanni Pesce era rimasta a La Grand’ Comb nelle Cevennes, il padre era scomparso da anni) raggianti, con attorno tutta la Resistenza milanese, dai massimi dirigenti ai semplici gappisti, anche alla staffetta della Valtellina, la Serafina Casati compagna di prigionia a Bolzano-Gries.

Ecco Pietro Vergani “Fabio”, comandante militare regionale delle “Garibaldi”, poi Francesco Scotti, ispettore garibaldino in Spagna, Alessio Lamprati, responsabile delle Garibaldi a Milano, Giovanni Nicola, compagno di Gramsci all’Ordine Nuovo a Torino, il commissario politico del 3° Gap Giuseppe Ceresa “Pellegrini”, Giovanni Brambilla confinato con Pesce a Ventotene, i gappisti Franco Conti, Gustavo Bellini, Mario Bellavita, Mauro Bosetti, Bruno Feletti Ispettore delle “Garibaldi”, Delio Milanesi il compagno nel lager trentino.

Gli anni che seguirono non furono sempre facili. Il lavoro al Partito, al sindacato Fiom, al Gruppo Difesa delle Donne, all’Anpi. Poi il trasferimento a Roma al seguito di Giovanni Pesce nominato responsabile della commissione di Vigilanza, una specie di scorta armata al segretario Togliatti vittima il 14 luglio 1948 dell’attentato Pallante. Onorina Brambilla Pesce si era ricavata un posticino a Botteghe Oscure nella segreteria di Pietro Secchia. Il soggiorno nella capitale durò circa un anno. Pesce non tollerava il comportamento troppo disinvolto di Giulio Seniga, il suo vice, uomo di Secchia, ex partigiano nell’Ossola. Fu l’occasione per tornare nell’amata Milano. Pesce infatti abbandonò l’incarico perché i suoi rilievi su Seniga non erano stati valutati con il rigore dovuto dai vertici del Partito. Nel 1954 i sospetti di Pesce si sarebbero rivelati esatti. L’uomo di Secchia era sparito con la cassa del Partito e i documenti. Per chi non si è mai saputo e molto fantasticato.

Era cominciata frattanto la stagione della repressione. Il carcere per i partigiani, i licenziamenti per gli operai. La “guerra fredda” stava lasciando il segno in quella parte del Paese che si era battuta per la libertà. Non era la povertà ma certo la situazione si fatta difficile per tutti. Era nato il Msi, il partito dei fascisti. Il gover- no Parri era caduto alla fine del ’45. Per Onorina e Giovanni Pesce un raggio di sole: Giovanni trovò lavoro come rappresentante di commercio per il Caffè Kluzer, una grande società svizzera. La vita fu più serena. Nel 1951 nacque Tiziana. I Pesce aprirono anche il Bistrot, un locale di liquori e vini. Onorina, divisa fra Partito e il sindacato, cominciò a battere in lungo e in largo le scuole portando a migliaia di ragazzi le voce alta della Resistenza. Una missione vissuta con passione e con coraggio. Ai giovani crede- va. Non aveva mai perso la speranza. “Vostro dovere è sapere”, diceva loro. E non mancava mai all’impegno di questa didattica di base, a questo rito quotidiano.

Il 27 luglio 2007 Giovanni, il marito, il compagno, il maestro, il comandante partigiano, se ne andò. Ricordo Onorina il giorno dei funerali, tre giorni dopo, a Palazzo Marino nella Sala Alessi, ritta, fiera davanti alla bara di “Visone” salutato dal presidente della Camera dei deputati Bertinotti, dal sindaco Moratti e da una grande folla di compagni e amici. C’era anche il picchetto militare a rendere gli onori dovuti ad una medaglia d’oro. S’era levato il canto dell’Internazionale e poi quello di Bella Ciao.

Gli stessi che il 9 novembre di due anni dopo avevano accompagnato alla Camera del Lavoro i funerali civili di Onorina Pesce. “Sandra” aveva sofferto molto la morte di “Visone”. “Quando cala il sole – diceva – chiudo le persiane perché non amo il buio della notte”.

Ora riposa al Famedio, il tempio dei milanesi illustri, accanto al compagno della vita.


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