I Consensi di Grillo, le debolezze della sinistra: per un’analisi della sconfitta

I Consensi di Grillo, le debolezze della sinistra: per un’analisi della sconfitta

di Bruno Steri -
Il bell’articolo che Ida Dominijanni ha dedicato al Movimento 5 Stelle (vedi il manifesto del 15 marzo scorso) costituisce una convincente rassegna critica dei limiti di fondo e dei gravi rischi che lo tsunami grillino per sua natura porta con sé: la destrorsa furia anti-casta che fa fuori indistintamente tutti i partiti, l’aggregato di “competenze fai-da-te” che liquida la politica in quanto discorso generale sulla società e lo stato, il mito della rete che – dietro la suggestione “una testa un voto” – di fatto consolida l’approccio plebiscitario, la conferma sotto mentite spoglie della politica come parodia di se stessa. Tutto vero, tutto da sottoscrivere. Ciò nonostante, resta la percezione che non sia stato messo a fuoco un punto essenziale, così che il ragionamento risulta alla fine condivisibile per quello che dice ma insoddisfacente per ciò che non dice o nomina in modo troppo fugace. Mettendola in termini secchi: perché Grillo e non la sinistra? Perché loro e non noi? Perché un pezzo consistente di elettorato Prc (addirittura nostri iscritti) e più in generale della sinistra è andato al M5S? Interrogativo tanto più incalzante se riferito a chi ha contestato (da fuori ma anche da dentro il perimetro del centro-sinistra) le scelte degli ultimi governi e l’appoggio assicurato dal Pd al governo Monti. A colmare la suddetta lacuna,  proporrei quindi un’integrazione che provi a tematizzare il punto di forza dell’approccio grillino, altra faccia dei nostri punti di debolezza.
Chi ha apprezzato la scelta dei nuovi presidenti di Camera e Senato ha anche giustamente annotato che, senza la forte e spregiudicata spinta del M5S, il Pd non avrebbe mai abbandonato i più convenzionali criteri dell’affidabilità e della mediazione pattizia: nel merito, è cioè facile evidenziare che alla prima prova i grillini si spaccano e il loro conducator si imbufalisce; ma sarebbe sbagliato non sottolineare parimenti il concreto effetto provocato dall’irruzione del M5S, che entra come la tramontana a scompigliare i giochi del palazzo. Tale capacità di rompere gli schemi rinvia ad un carattere distintivo che ha catalizzato consensi al M5S da ogni parte dello schieramento politico e dei settori sociali: Nessuna compromissione col sistema. Non intendo qui soffermarmi sulla genericità interclassista di una formulazione entro la quale si può trovare di tutto: dalla disperazione del cassintegrato a quella dell’artigiano e del piccolo imprenditore schiacciato dalla crisi, dalla rabbia proletaria ai risentimenti borghesi che covano sotto la cenere della rivolta fiscale. Piuttosto, per quel che riguarda più da vicino la sinistra d’alternativa e i ceti sociali cui essa dovrebbe rivolgersi, mi interessa la verità interna di una tale parola d’ordine, il suo cogliere un’impellente esigenza che è insieme una poderosa recriminazione nei nostri confronti: noi stiamo ogni giorno peggio e voi, la sinistra, non avete ottenuto per noi un granchè, anzi – nonostante le vostre buone intenzioni – non risultate poi così distinti da quell’articolato sistema di potere che ci sta facendo andare drammaticamente all’indietro. Al di là delle contraddizioni che la dialettica istituzionale potrà aprire nel bunker grillino, nel diluvio di voti al M5S indubitabilmente si è espresso un assoluto bisogno di risposte e, nell’incalzare della crisi, l’estremo affidarsi a chi è ritenuto depositario di una determinazione assolutamente intransigente.
Qualche compagno di Rifondazione Comunista potrebbe ritenere ingeneroso un tale biasimo, essendo rivolto a chi in fondo ha mantenuto una posizione costantemente critica nei confronti degli attuali assetti di potere. Ma, a ben vedere, potremmo essere noi fuori strada. Noi siamo ancora figli di una storia troppo recente. Si pensi alla parabola politica di Fausto Bertinotti: Rifondazione è stata per un certo tempo identificata con la spregiudicatezza, la carica antisistemica di questo suo leader; essa è poi finita risucchiata nel gorgo del secondo governo Prodi, riprecipitando nella polvere assieme all’azzerato carisma del suo segretario, nel frattempo assurto alla terza carica istituzionale: tanto prestigiosa quanto avara di risultati concreti per la nostra gente e quindi, nei fatti, assai lontana dalle asprezze della vita quotidiana. Sono passati anni, eppure l’eco di quella grande delusione è evidentemente ancora vivo, non ha cessato di far sentire i suoi effetti sull’immagine di Rifondazione e della sinistra in generale: siamo stati nella stanza dei bottoni, ma non abbiamo saputo schiacciare quelli giusti.
In tale contesto, è ben visibile l’efficacia propagandistica che ha avuto un’altra parola d’ordine grillina: contro i privilegi della casta, tutti a casa. Anche qui dò per scontata la valenza reazionaria di un orientamento che, urlato da Grillo e riproposto a gran voce da tutto l’apparato mediatico, sposta l’obiettivo del risentimento popolare dai privilegi di classe, ben protetti all’ombra dei salotti buoni, all’aura esclusiva delle massime sedi istituzionali e, di qui, alla politica in quanto tale. In un Paese in cui la metà dei cittadini è convinta che la causa dell’attuale crisi sia la corruzione (vedi il recente rapporto del Censis) e non le contraddizioni del sistema capitalistico e del liberismo di questa Europa, in un tale Paese le patologiche distorsioni del sistema politico e l’incredibile sequela di scandali in cui sono stati coinvolti alcuni dei suoi esponenti hanno gonfiato la grancassa grillina. Tutto vero. Il punto che ci riguarda è però il fatto che, nonostante tutto, non siamo stati risparmiati dall’ondata epuratrice. Penso che al riguardo una riflessione sia obbligatoria. Evidentemente, non abbiamo per tempo alzato la guardia. Certo, tra di noi non ci sono i Fiorito; ed anzi, ad esempio, nel Lazio abbiamo lanciato in controtendenza il referendum per l’abolizione dei vitalizi di cui godono i consiglieri regionali. Ma evidentemente non è stato sufficiente: non abbiamo visto per tempo il pericolo insito nel profondo degrado morale e politico della vita istituzionale italiana, non abbiamo avuto la forza o la necessaria consapevolezza per lanciare una “questione morale” che è oggi più urgente di ieri. Così ora ci troviamo a dover reggere, nel bel mezzo di un’ondata reazionaria che – anziché chiedere regole severe nell’utilizzo dei denari pubblici e totale trasparenza nel funzionamento di partiti e istituzioni – propone l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, viatico sicuro per la compiuta americanizzazione della politica. In definitiva, credo vi sia una lezione che da ciò va tratta. Chi ha fatto sindacato sul proprio posto di lavoro sa bene quanto possa essere pericoloso l’aprirsi di una distanza tra le proprie funzioni sindacali e la quotidianità lavorativa di coloro che si intende rappresentare e tutelare. In termini analoghi, i comunisti dovrebbero saper bene cosa intendesse Lenin quando metteva in guardia dal “potere seduttivo delle istituzioni borghesi”. In entrambi i casi, si allude a un compito delicato, che oggi siamo chiamati a riprendere con maggior lena: quello di affinare i nostri terminali sociali e territoriali, di trovare la via per restare connessi al sentire della vasta maggioranza dei soggetti sociali in vario grado subalterni e vessati dalla crisi.
Da ultimo – ma non per importanza – va menzionato lo slogan che ha esplicitamente messo in evidenza l’istanza interclassista e qualunquista del M5S: Né di destra né di sinistra. E’ la formula che più di ogni altra si incarica di rappresentare la fine delle ideologie (anche se, nei fatti, con essa si celebra la fine di tutte le ideologie meno una, quella dominante): è la diffidenza per le “grandi narrazioni” e il ritorno alle “competenze concrete” (o, per dirla con un’altra fortunata formula, il passaggio dai “politici” alla “società civile”). Anche in questo caso vorrei tuttavia pormi dal lato delle nostre lacune. L’analisi del voto ci dice che il M5S ha raccolto un ampio consenso tra i giovani e i giovanissimi. E’ giusto quindi chiedersi: che cognizione ha della distinzione tra destra e sinistra questa parte della popolazione?  Più in particolare, cosa sa della sinistra (e dei comunisti) chi è nato nel bel mezzo della desertificazione berlusconiana? E, soprattutto, che razza di sinistra ha visto? Ragionando su tali interrogativi, non si può non vedere che la suddetta qualunquistica formulazione rinvia comunque ad un massiccio dato di realtà: la dissoluzione del blocco sociale della sinistra. In questo senso, l’espressione “né di destra né di sinistra” incontra il disincanto di quanti “non riconoscono” più i confini della sinistra, di ciò che è sinistra e di ciò che è destra (come recitava una famosa canzone di Giorgio Gaber). Una domanda per tutte: cos’ha fatto – non a parole ma nel concreto – la sinistra davanti al dilagare del precariato?  Dall’approvazione del cosiddetto “pacchetto Treu” in poi – vera e propria svolta epocale nell’assetto del mondo lavorativo – cosa siamo riusciti a spuntare per sottrarre intere generazioni all’anonimato sociale e umano? Prima di queste elezioni, un trentenne romano licenziato da una piccola ditta tipografica fallita, iscritto a Rifondazione, mi diceva: io sto raccogliendo le firme per i referendum su art.18 e pensioni, pur sapendo che il primo purtroppo non può riguardarmi e il secondo tratta di cose lontane da me anni luce. Insomma, mentre la sinistra moderata cedeva al ricatto padronale contrapponendo vecchie e nuove generazioni, garantiti e precari, noi stessi, pur avendoci provato, non abbiamo saputo o potuto connettere questi due mondi in un’unica strategia programmatica per un generale rilancio del mondo del lavoro. E’ soprattutto al conseguimento di questo risultato che è appesa la nozione di “sinistra”. Nel frattempo, le urla di Grillo hanno fatto proseliti.
Dovremo scendere ancor più nel dettaglio per approfondire l’analisi di questo disastroso dato elettorale. Anche per tornare a fare, ad esempio, quello che la sinistra (e i comunisti) nel nostro Paese hanno sempre saputo fare: una ricognizione sullo stato e le domande dei ceti medi, dell’artigianato e del piccolo commercio. Così da mantenere all’analisi un’articolazione di classe, evitando una rappresentazione puramente etico-giuridica (“manettara”) della lotta all’evasione: sapendo quindi distinguere (soprattutto in campagna elettorale) la grande evasione di chi porta decine di miliardi all’estero dalla piccola evasione di chi è strangolato dalla crisi e non riesce a pagare gli stipendi ai propri pochi dipendenti. In merito, il caso Equitalia (espressione di uno Stato forte con i deboli e debole con i forti) è esemplare.
Concludo. Le recenti politiche non sono state delle elezioni qualsiasi: esse hanno cambiato in profondità il panorama politico degli ultimi due decenni e a noi impongono una seria riflessione autocritica. Non concordo con chi ritenga che non vi siano per noi delle buone carte da poter ancora giocare. Tra l’altro, siamo in un contesto nel quale i flussi del consenso vanno e vengono con inedita rapidità. A patto però che si proceda ad una severa indagine sui nostri limiti oggettivi e soggettivi: mettendo nel conto una necessaria rigenerazione di gruppi dirigenti, forse ancora segnati da troppe scissioni e troppe sconfitte.


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