“La cognizione del potere”, di Federico Bonadonna

Presto, durante il percorso delle indagini che ancora si preannunciano lunghe e ricche di sorprese e dopo, quando si giungerà a sentenza, saremo sommersi da libri in cui si affronterà da diverse angolazioni il tema di Mafia Capitale. Qualcosa è già uscito, di qualche coraggioso giornalista, ma presto arriveranno memoriali di imputati e vittime, corrotti e corruttori, artefici e pedine. La narrativa però, come sempre giunge prima di ogni sentenza, riesce quando è di buon livello, a disvelare gli intrecci più profondi profittando della libertà della fiction, della ormai sempre ripetuta frase finale “Ogni riferimento a persone viventi o passate è casuale”. Ma a leggere La cognizione del potere di Federico Bonadonna (Edizioni Castelvecchi), al di là dei nomi e dei toponimi, degli elementi metaforici o di fantapolitica che ogni tanto fanno capolino, delle scene d’azione che a volte sembrano portare in un set cinematografico, è impossibile non riconoscere nei protagonisti del romanzo, i volti e le storie del potere romano. Potenti e sottobosco raccontati negli anni precedenti l’inchiesta che sta scuotendo i Palazzi Romani, affari loschi e sordidi che ruotano fra i centri del potere e la rovina dei campi rom utilizzati come veri e propri bancomat da personaggi senza scrupoli. La dimensione è quella del noir italiano, di quelli in cui per capirsi non c’è uno stato di quiete interrotto da un delitto e risanato da un integerrimo investigatore. La dimensione è quella di un marciume dilagante, in cui ognuno ha molte facce, aspettative, passati inconfessabili, desideri repressi, ambizioni e vigliaccheria. A salvarsi sono i bambini, alcuni rom travolti da un mondo che prova a distruggerne la dignità e l’orgoglio, i drop out, troppo lontani per poter essere parte del mercato del potere. Un potere multiforme ma alla fine capace di coagularsi attorno ad un unico principio, comandare. Identici gli interessi che accomunano schieramenti solo apparentemente diversi, attivisti solo apparentemente conflittuali e schierati su fronti opposti che si abbeverano alla stessa fonte, doppi e tripli giochi in uno scenario romano cupo e violento, dominato dal procurare senza pudore dolore e sofferenze. Al centro della trama un sindaco di Roma che si prepara a formare un “Partito Riformista”, che diventa segretario prima ancora che il partito si formi, che intende aprire una crisi politica per poter diventare premier, che intende “correre da solo” e realizzare un Italia con due soli partiti capaci di alternarsi al governo. Sullo sfondo servizi segreti, anime nere e anime sofferenti, meccanismi di violenza e di accaparramento con ogni mezzo necessario di ogni fonte di guadagno. Rossi e neri, infiltrati ed ex militanti, operatori sociali e imprenditori del sociale, cooperative dal nome scarlatto e dal comportamento mafioso che lucrano sul business della modernità che avanza, l’emergenza. Campi rom sgomberati e ricostruiti per garantire lavoro, clientele e speculazioni immobiliari, allarmismi securitari prodotti da giornalisti asserviti ad un regime solo apparentemente invisibile, l’odore di marcio che investe quasi ogni relazione, umana, politica, affettiva, sessuale. Federico Bonadonna disegna un mondo perverso, dominato dai ricatti incrociati, dalle foto e dai video compromettenti, la cui potenzialità è resa universale dall’uso sapiente della rete. Ma dato che i protagonisti conoscono ognuno, le miserie degli altri, il castello di carte non crolla, il potere non si scalfisce, al massimo ci si libera dei pesi morti, delle figure ingombranti o concorrenziali per trovare sostituti altrettanto malleabili, altrettanto privi di autonomia. È quello dell’autore un racconto “cattivo” e senza speranza, senza elementi consolatori che possano far intravvedere prospettive ma non è un racconto adatto per soluzioni qualunquiste. A chi legge sembra di cogliere fra le righe il desiderio di poter inserire nella trama qualcuno che osa ribellarsi, che contro questo potere si aggrega perché ha una visione diversa e migliore della società. E piccoli accenni se ne intravvedono, di ribellioni solitarie, di auto esclusione, desideri di chiamarsi fuori dal coro. Ma sono voci flebili, come i bambini abusati nella assoluta impunità, voci che da sole non bastano. Chi chiude il volume si ritrova addosso quel tremendo malessere derivante dalla certezza di aver incontrato, almeno una volta nella vita, quei volti malvagi e privi di spessore se non nella efferatezza delle azioni che compiono. Sembra quasi di avvertirlo fra le pagine, l’odore aspro e ributtante di quell’idea di potere, fatta di dominio sulla vita degli altri, contro cui è necessario continuare a combattere. Una indicazione politica, non solo di indignazione, che anche da un romanzo o meglio, forse solo da un romanzo oggi, può essere accolta e rilanciata.

Stefano Galieni  

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