La scuola e la restaurazione neo-autoritaria di Renzi

La scuola e la restaurazione neo-autoritaria di Renzi

C’è una logica perversa dietro la pervicacia con cui il partito-governo sta portando avanti il suo tentativo di smantellamento della scuola pubblica. Uso volutamente il termine “partito-governo”  per significare la totale identificazione del PD con l’esecutivo guidato da Renzi, fino alla sovrapposizione dei ruoli e alla reciproca sostituzione nelle funzioni istituzionali. Fatto, questo, che non ha precedenti nella storia della Repubblica e che ricorda molto da vicino il ventennio fascista. Basti pensare alla gestione della finta “consultazione” sulle proposte del governo, la cosiddetta “Buona scuola”, che ha visto drappelli di parlamentari e perfino esponenti della segreteria del PD impegnati in prima persona a sostenerle, ovviamente senza contraddittorio, non in pubbliche assemblee legittimamente promosse da quel partito bensì in riunioni convocate dall’amministrazione scolastica, istituzionali per l’appunto. Consultazione che, malgrado il massiccio schieramento di forze, ha dato un risultato inequivocabile: un dissenso massiccio, radicale e diffuso espresso anche dalle centinaia di pronunciamenti dei Collegi dei docenti e dalle tante forme con le quali la protesta si è manifestata in questi mesi. Di fronte al quale, tuttavia, il “partito-governo” non ha ceduto di un millimetro. Anzi, ha accentuato il carattere arrogante dei suoi comportamenti, prima ritardando di tre settimane la presentazione del suo disegno di legge, poi peggiorando i punti della sua proposta maggiormente contestati e, infine, arrivando ad imporre al Parlamento tempi di discussione che, se rispettati, negherebbero ogni parvenza di percorso democratico. Si riduce così quello che dovrebbe essere il massimo organismo di rappresentanza democratica, il Parlamento, al ruolo di obbediente passacarte del governo, arrivando perfino a stravolgere le regole che presiedono al suo funzionamento. Un solo esempio: l’Ufficio di presidenza della Commissione cultura della Camera, cui il provvedimento è stato assegnato per competenza, ha deciso il calendario delle audizioni un giorno prima che il disegno di legge fosse ufficialmente trasmesso dal governo alla presidenza della Camera e ha negato la possibilità di essere audito a chi, come noi del PRC, lo ha chiesto nei tempi canonici. Alla base di questa accelerazione, come è noto, c’è l’uso spregiudicato e ricattatorio delle assunzioni dei precari, unica vera urgenza, per far passare in tempi brevissimi tutto il peggio che di altro è contenuto nel ddl, dal preside padrone assoluto ai finanziamenti alle scuole private, dalla privatizzazione delle scuole e della stessa didattica alla delega in bianco su qualunque aspetto dell’organizzazione scolastica.
Non mi soffermo per brevità su questi argomenti sui quali si sono registrate critiche ed opposizioni pressoché unanimi. Voglio, invece, affrontare due punti sui quali il fumo propagandistico rischia di far velo alla realtà.
Il primo è quello degli investimenti, sbandierati come la svolta nelle politiche scolastiche. A darci l’esatta misura di quello che accadrà è il Documento di Economia e Finanza (DEF) approvato dal governo pochi giorni fa nel qual si prevede per i prossimi vent’anni un calo costante della spesa per l’istruzione in rapporto al PIL, già scandalosamente bassa, che si attesterà al 3,3%  nel 2035 con una perdita di 0.4 punti pari a quasi 7 miliardi. Stessa sorte per i fondi per l’edilizia scolastica, malgrado i soffitti che crollano sulla testa di studenti e professori, quasi mezzo miliardo in meno per il prossimo anno. Sarebbe questa l’inversione di tendenza?
Il secondo punto riguarda il tema delle assunzioni. Già il loro numero, 100.701 (si noti quel “1”), vuol fare intendere che è stato effettuato un calcolo rigoroso delle effettive necessità delle scuole. Nulla di più falso. Non solo sono molte meno delle circa 150.000 annunciate a settembre, ma, come dimostrano i dati dello stesso Miur, sono molto distanti dal numero delle cattedre scoperte, almeno altre 60.000, sulle quali non c’è alcun titolare e per le quali sarà necessario ancora ricorrere a contratti precari. Altro che eliminazione del precariato! I “fortunati” che saranno assunti, per giunta, saranno ridotti a tappabuchi, demansionati come i lavoratori privati con il Jobs Act, sottoposti all’arbitrio dei dirigenti scolastici tanto per la prima assunzione che per il superamento dell’anno di prova. Da lavoratori precari a lavoratori obbligati alla sottomissione e all’asservimento. Per gli altri nulla, la cancellazione della loro stessa esistenza come docenti, specie se – e sono tantissimi – hanno sulle spalle più di trentasei mesi di servizio, giusto per aggirare la sentenza della Corte di Giustizia europea.
Fuori dalle chiacchiere propagandistiche, il cuore del disegno renziano è il completamento della ristrutturazione del sistema scolastico avviato dalla Moratti e proseguito dalla Gelmini -, delle cui controriforme ordinamentali non una virgola viene modificata – sull’unico terreno non ancora toccato dopo il fallimento imposto dal movimento alla legge Aprea che, non a caso, il PD aveva contribuito a far approvare da una delle Camere nella passata legislatura: la revisione dello status giuridico dei docenti.
Del resto, quanto si cerca di fare sulla scuola è del tutto coerente con la visione politica di Renzi e del PD: un uomo solo al comando, che si tratti del governo del Paese, della fabbrica o dell’ufficio e, dunque, anche della scuola. In questa visione, democrazia e partecipazione sono solo fastidi di cui liberarsi. Vale per il Parlamento, svuotato di funzioni ancor prima che le riforme istituzionali siano approvate, vale per i diritti dei lavoratori consegnati all’arbitrio del padrone, varrà per la scuola con l’esaltazione dei poteri dei dirigenti scolastici e la definitiva cancellazione degli organi collegiali.
Come ha acutamente osservato Pasquale Voza, l’intervento sulla scuola è un ulteriore tassello del disegno di ristrutturazione neo-autoritaria dell’intera società che assume l’ideologia liberista come principio ordinatore supremo. Un siffatto assetto sociale e istituzionale non può tollerare una scuola che rimanga presidio di democrazia ed educhi al pensiero critico; è questa la ragione profonda di questo scellerato intervento.
C’è tuttavia, in questo quadro desolante un elemento di novità che fa ben sperare. Negli ultimi giorni la protesta, che aveva attraversato tutto l’inverno in forma disorganica e non continuativa, animata soprattutto dagli studenti, da gruppi di docenti, RSU, dai lavoratori autoconvocati e dai “Comitati per la riproposizione della LIP”, è cresciuta fino ad assumere una dimensione potenzialmente di massa. Agli scioperi già convocati da gran parte del sindacalismo di base (24 aprile) e dai Cobas (5, 6 e 12 maggio, in coincidenza con le prove Invalsi) si è aggiunto lo sciopero del 5 maggio dell’intero schieramento sindacale “rappresentativo” (Flc, Cisl, Uil, Snals e Gilda).
Tre settimane di scioperi che registrano ancora una intollerabile frammentazione che non raccoglie la forte spinta unitaria espressa a gran voce in tutte le assemblee e le iniziative che si sono svolte; non ancora, dunque, quello di cui ci sarebbe bisogno. Ed è significativo che i sindacati più grandi abbiano indetto lo sciopero del 5, superando una iniziale ritrosia difficile da spiegare, sulla spinta della propria stessa base.
È un’agitazione non priva di limiti, tanto nella piattaforma quanto soprattutto nella scelta di non convocare una grande manifestazione centrale in favore di manifestazioni locali. Il rischio è di rendere meno evidente e leggibile la dimensione del movimento d’opposizione alla scuola di Renzi.
Ma sarebbe un grave errore sottovalutare l’importanza della chiamata allo sciopero di tutti i sindacati maggiori e non cogliere il dato fondamentale: non ci sarà un solo sindacato che non avrà mobilitato i suoi iscritti e simpatizzanti contro questo gravissimo attacco alla scuola pubblica.
Può darsi che il governo faccia qualche piccola concessione, che però lascerebbe inalterata la sostanza del provvedimento, e non si può escludere che qualcuno, come già è avvenuto in passato, possa abboccare a questa esca avvelenata. Proprio per questo bisogna impegnarsi a fondo perché gli scioperi, tutti, riescano e perché rappresentino solo l’inizio di una stagione che non può essere breve.
Anche se il partito-governo riuscisse a far rispettare la scadenza che sta cercando di imporre alla Camera, cosa peraltro non scontata, c’è ancora da percorrere l’iter nell’altro ramo del Parlamento. Ed è evidente che al Senato, dove la strada per la maggioranza è più impervia, un movimento saldamente in piedi farebbe da volano all’efficacia dell’opposizione parlamentare.
Le settimane che abbiamo davanti saranno perciò decisive per la possibilità di fermare la pessima scuola di Renzi e per far sì che questo avvenga su una linea chiara: stralcio delle assunzioni da effettuare su tutti i posti privi di titolare e nel rispetto della sentenza della Corte europea, ritiro di tutto il resto del provvedimento in quanto inemendabile.
In ballo non ci sono questioni secondarie ma il destino della scuola pubblica e il rispetto della sua funzione costituzionale, uno dei fondamenti dell’assetto democratico del Paese.
La sua difesa attiene, dunque, ad una battaglia di ordine generale che non può essere lasciata ai soli “addetti ai lavori” ma deve essere collocata in un quadro di larghe alleanze sociali.
Ciascuno di noi deve sentire come proprio questo impegno.

Vito Meloni – Responsabile scuola PRC-SE


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