Pd-M5S, tentazione Montecitorio

Pd-M5S, tentazione Montecitorio

di Daniela Preziosi -
«Ci aspettiamo che nella ricerca delle figure istituzionali si tenga conto del ruolo che i concittadini ci hanno assegnato», e che «le altre forze politiche rispettino la volontà dei cittadini». Al senato, alla fine dell’incontro fra il ‘gruppo di contatto’ del Pd (Zanda, Calipari, Zoggia) i 17 del pattuglione a cinque stelle si schierano nella trincea dell’aula della commissione decima – dove sono accampati i nuovi inquilini del palazzo in attesa di assegnazione delle stanze – e registrano un video-comunicato per dire com’è andata. È – così lo chiamano – «il nostro metodo trasparente e partecipato», in realtà è il metodo che lo spin-guru Casaleggio aveva proposto dall’inizio: zero rapporti con la stampa e «video-comunicati» da inviare direttamente alla rete per riferire di quello che si è fatto. Tecnica ancora da affinare: la speaker Roberta Lombardi, capogruppo alla camera già famosa per uno scivolone sul fascismo, alla registrazione dimentica una cosa che viene rimontata poi in coda: «E comunque non facciamo accordi». Fumata nera, dunque, anche fra Pd e M5S? Forse grigia. Benché la liturgia del videomessaggio senza domande abbia poco commendevoli precedenti berlusconiani, Lombardi una cosa la dice: i cinque stelle sono disponibili, forse persino ambiscono alla presidenza della camera. E agli altri chiedono nomi «di specchiata moralità, profili di trasparenza ed etica», che non abbiano «contribuito nel bene o nel male (sic) a portare il paese al punto in cui siamo».
I nomi stellati saranno decisi in all’assemblea stasera. Fin qui nessuna apertura al dialogo, ma almeno non c’è una chiusura netta. Il navigato Luigi Zanda, della troika degli ambasciatori Pd, è scettico: non c’è nessuna richiesta, ma «non prevaricheremo nessuno». Ma certo regalare al buio un presidente della camera, con questi chiari di luna governativi, è un gesto di generosità molto spinto per il Pd che alla camera ha i numeri per eleggere il suo. Più complicata la situazione a palazzo Madama, anche per l’incognita Pdl.
D’altro canto, se la «strada stretta» del governo Bersani è più che altro inaccessibile, per il Pd quello di ieri è un primo passo per «costituzionalizzare» M5S. Il primo obiettivo che Bersani si era dato. Gli eletti cominciano a «fare politica»: i descamisados indossano la giacca, del resto obbligatoria alle camere, almeno per gli uomini.
Intanto fra i grillini doc qualcosina si muove. Ieri Adriano Celentano, icona del moV e autore dell’inno, ha inviato a mezzo Repubblica un’articolessa a Bersani: «Caro Pierluigi, sono convinto che nessuno meglio di te può cavalcare il vento di queste ore, sarebbe un errore cedere il posto a qualcun altro». Celentano propone «un patto», si fa per dire: «Accetta tutti i punti del programma M5S». Bersani incassa la considerazione: «Ecco la mia idea: avviare la legislatura con un programma essenziale di cambiamento da rivolgere a un parlamento davvero nuovo», ciò significa «ascoltare anche le ragioni degli altri». Ci sono temi a 5 stelle «non lontani dai nostri» su ambiente, economia verde, innovazione, costi della politica. «Pronto ad accogliergli», ma «altri punti sono per me inaccettabili».
E fra le cose inaccettabili, anche se non è nel programma grillino, c’è lo statuto tenuto fin qui segreto, svelato ieri dall’Huffington post: altro che il «non statuto» vantato da Grillo, il comico è padrone di simbolo e blog, e presidente del M5S, suo nipote Enrico è vice. Con buona pace del «nostro metodo trasparente e partecipato».
Ma la battaglia politica a colpi di sputtanamenti si abbatte anche sul Pd. Ieri, dopo due giorni di polemica acidissima fra Renzi e Bersani sui finanziamenti pubblici ai partiti, il sito Dagospia ha pubblicato un dossier con i (presunti) stipendi di funzionari e dirigenti del palazzo del Nazareno. Fonte, la due diligence che Renzi avrebbe commissionato in gran segreto sulle spese della sede nazionale. Il tesoriere Misiani urla alla «patacca», all’«operazione squallida» contro «persone che lavorano». E querela, alludendo alla (evidente) fonte di area renziana: «È una due diligence all’amatriciana o, meglio, alla ribollita». Il punto è che fin qui buona parte dei dirigenti Pd, uomini del segretario compresi, si era illusa in una transizione soft e ordinata verso il voto, con Renzi candidato, in caso di fallimento di Bersani. Le cose non stanno così. Renzi l’ha messo subito in chiaro.

il Manifesto – 13.03.13


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