
Un uomo solo (non) al comando
Pubblicato il 7 mar 2013
di Daniela Preziosi -
Un uomo solo, e forse neanche più al comando. Bersani incassa l’unanimità alla direzione-fiume (otto ore di dibattito in diretta streaming e su Sky, alla fine un solo astenuto) e cioè sulla proposta, da portare al Colle quando sarà – le consultazioni iniziano il 19 – la sua premiership su un governo di otto riforme urgenti. In sostanza, per incassare alle camere il no delle 5 stelle, no ripetuto allo sfinimento da Grillo.
L’unanimità granitica era scontata, è ovvio che la prima mossa spetti a Bersani – il Pd ha la maggioranza di voti, almeno alla camera – anche se ancora non si sa se il Colle gli affiderà un mandato pieno o solo esplorativo. E infatti non è su questo che i democratici ieri si sono divisi. Ma divisi si sono. E il sì che Bersani incassa ha il sapore amaro dell’onore delle armi a un leader uscente. Che infatti alla fine annuncia un’assemblea nazionale per fissare il congresso; stava nelle cose, ma ieri l’hanno invocato in parecchi.
La divisione dei nuovi gruppi parlamentari, e della direzione, è sul prima, l’analisi delle ragioni della sconfitta; e sul dopo. Sul prima, Bersani non è disposto a grandi autocritiche, «ci voleva più determinazione sul rinnovamento». Non è poco, assicura, «non è un’attenuante ma un’aggravante». Ma poi attacca gli editorialisti e «il sistema» che ha intrappolato il Pd in un campagna elettorale di «surreale politicismo». Su questo le parole più dure vengono dalla sinistra interna: «Abbiamo guadagnato Nanni Moretti, ma abbiamo perso negli strati popolari. Abbiamo sottovalutato il disagio sociale. E a volte non siamo apparsi né carne, né pesce», dice il ‘turco’ Matteo Orfini.
Si vedrà al congresso. Per ora si discute, e parecchio, sul ‘dopo’ Bersani. Un dopo che il segretario neanche tollera che si nomini, per non indebolirsi. I big e persino i giovani lo compiacciono, e così nelle conclusioni il segretario può dire «da qui ipotesi B non ne sono venute. Dopodiché non è proibito vedere le difficoltà: è un sentiero stretto, o lo si supera o lo si sgombera dalla nebbia». Ma è lui stesso che, parlando di «responsabilità e cambiamento» già mette paletti per il dopo se stesso: «Lo so, mentre noi non pensiamo a ipotesi B c’è mezzo mondo che lo fa», ammette, «ma a questo mondo diciamo: il Pd non scompare, abbiamo il doppio dei parlamentari di Grillo e il triplo del Pdl», nessuno «sogni» di proporre accordi con chi ha accettato «la compravendita di parlamentari» e «quattro mesi prima del voto se ne va e spara sulla realtà che ha provocato». Napolitano, a cui Bersani telefona poi in serata, ascolti. Con il Pdl dunque un accordo «è impossibile» non solo per un governissimo ma anche per un nuovo governo tecnico, «sarebbe un altro coperchio su una pentola a pressione». Quindi, ma Bersani non lo dice, se non sarà il suo governo, sarà voto. È quello che dicono (ma non qui) i giovani turchi.
Ma non la pensano tutti così. Non Umberto Ranieri, migliorista vicino a Napolitano, ultramontiano: l’intesa con Grillo è un’illusione, «il presidente della Repubblica è legittimato a intervenire dall’impotenza dei partiti, non con una soluzione per galleggiare ma con un governo del presidente». E poi Paolo Gentiloni, il renziano più alto in grado presente (il sindaco di Firenze se ne va senza parlare): sì a Bersani ma chiosa «se ci fosse un insuccesso della proposta, non porterebbe necessariamente ad elezioni subito». E D’Alema, anche lui mettendo a verbale il suo sì, rilancia l’idea di una coalizione con Monti, («la divisione tra forze europeiste è un lusso che non possiamo permetterci») e si spinge fino al «rammarico che non sia possibile l’unità nazionale», la destra in Italia è ancora Berlusconi. E non si parli di pastette, avverte arruolando Gramsci fra i dalemiani, «liberiamoci dal complesso dell’inciucio, Gramsci diceva che la paura dei compromessi è l’emanazione di una subalternità culturale che serpeggia nelle nostre file».
Ma che significa europeismo, replicano i giovani turchi, «l’alleanza con gli europeisti che combattiamo su scala europea?» (Orfini), in quest’Europa in cui «una forza progressista non ha possibilità di autonomia cultura e politica, il cambiamento deve essere innanzitutto europeo, se no non si va da nessuna parte» (Fassina). Parole che Bersani riprende quasi alla lettera.
Del dopo si parlerà dopo, e l’unico che rompe esplicitamente la consegna è Walter Tocci, direttore del Crs, che avverte: l’unanimità può contenere due ambiguità, il sì per inerzia e quello di «chi non è d’accordo ma è convinto che saranno gli eventi a cambiare lo scenario». Se l’iniziativa di Bersani fallisse, il Pd cadrebbe in due alternative trappole: «Il governo del presidente o la grande coalizione. Prima di cadere, prepariamo una seconda proposta di combattimento per prevenire un nuovo governo tecnico: un governo di altissimo profilo a cui Grillo non potrebbe dire di no».
E c’è un altro ‘dopo’ che Tocci nomina, un altro convitato di pietra: le elezioni al Campidoglio di Roma, «a cui i professionisti della sconfitta stanno lavorando alacremente». A Roma si vota il 27 maggio. Si profila un ballottaggio con un candidato grillino a cui andrebbero fatalmente i voti della destra. «Ci vuole un centrosinistra più largo possibile, un’alleanza civica organizzata dal Pd», dice Tocci. Perdere Roma sarebbe l’ultima mazzata. O la prima, se si tornasse al voto.
Il Manifesto – 07.03.13
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