Il comunismo di Franco Fortini

Il comunismo di Franco Fortini

In memoria del compagno Franco Fortini nel ventennale della morte

Il comunismo (1958)

Sempre sono stato comunista.

Ma giustamente gli altri comunisti

hanno sospettato di me. Ero comunista

troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi.

Giustamente non m’hanno riconosciuto.

La disciplina mia non potevano vederla.

Il mio centralismo pareva anarchia.

La mia autocritica negava la loro.

Non si può essere comunista speciale.

Pensarlo vuol dire non esserlo.

Così giustamente non m’hanno riconosciuto

i miei compagni. Servo del capitale

io, come loro. Più, anzi: perché lo dimenticavo.

E lavoravano essi, mentre io il mio piacere cercavo.

Anche per questo sempre ero comunista.

Troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi

di questo mondo sempre volevo la fine.

Ma la mia fine anche. E anche questo, più questo,

li allontanava da me. Non li aiutava la mia speranza.

Il mio centralismo pareva anarchia.

Com’è chi per sè vuole più verità

per essere agli altri più vero e perché gli altri

siano lui stesso, così sono vissuto e muoio.

Sempre dunque sono stato comunista.

Di questo mondo sempre volevo la fine.

Vivo, ho vissuto abbastanza per vedere

da scienza orrenda percossi i compagni che m’hanno piagato.

Ma dite: lo sapevate che ero dei vostri, voi, no?

Per questo mi odiavate? Oh, la mia verità È necessaria,

dissolta in tempo e aria, cuori più attenti a educare.

[Una volta per sempre, Mondadori, 1963]

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Che cos’è il comunismo? (1989)

Il combattimento per il comunismo è il comunismo. È la possibilità (scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero di esseri umani viva in una contraddizione diversa da quella odierna. Unico progresso, ma reale, è e sarà un luogo di contraddizione più alto e visibile, capace di promuovere i poteri e le qualità di ogni singola esistenza. Riconoscere e promuovere la lotta delle classi è condizione perché ogni singola vittoria tenda ad estinguere quello scontro nella sua forma presente e apra un altro fronte, di altra lotta, rifiutando ogni favola di progresso lineare e senza conflitti.

Meno consapevole di sé quanto più lacerante e reale, il conflitto è tra classi di individui dotati di diseguali gradi e facoltà di gestione della propria vita. Oppressori e sfruttatori (in Occidente, quasi tutti; differenziati solo dal grado di potere che ne deriviamo) con la non libertà di altri uomini si pagano quella, ingannevole, di scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Il confine di tale loro “libertà” non lo vivono essi come confine della condizione umana ma come un nero Niente divoratore. Per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, della propria. Oppressi e sfruttati ( e tutti, in qualche misura lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta in insensatezza e non-libertà. Né questi sono meglio di quelli, finché si ingannano con la speranza di trasformarsi in oppressori e sfruttatori. Migliori cominciano invece ad essere da quando assumono la via della lotta per il comunismo; che comporta durezza e odio per tutto quello che, dentro e fuori degli individui, si oppone alla gestione sovraindividuale delle esistenze; e flessibilità e amore per tutto quello che la promuove e fa fiorire.

 Il comunismo in cammino (un altro non ne esiste) è dunque un percorso che passa anche attraverso errori e violenze tanto più avvertite come intollerabili quanto più chiara sia la consapevolezza di che cosa siano gli altri, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisca anche gli altri. Comporterà che gli uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce; invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita. Ma chi sia dalla lotta costretto ad usarli come mezzi mai potrà concedersi buona coscienza o scarico di responsabilità sulla necessità e la storia.

Dovrà evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia di credere che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. Con le manipolazioni più diverse quell’errore ha già prodotto e può produrre dei sotto uomini o dei sovrauomini; questi cioè e quelli. Ereditato dall’illuminismo e dallo scientismo, depositato nella cultura faustiana della borghesia vittoriosa, quell’errore ottimistico fu presente anche in Marx e Lenin. Oggi trionfa nella maschera tecnocratica del capitale. Un al di là dell’uomo può essere solo un al di là dell’uomo presente, non quello della specie. Comunismo è rifiutare ogni specie di mutanti per preservare la capacità di riconoscerci nei passati e nei venturi.

Il comunismo in cammino adempie l’unità tendenziale tanto di eguaglianza e fraternità, quanto di sapere scientifico e di sapienza etico-religiosa. La gestione individuale, di gruppo e internazionale dell’esistenza (con i nessi insuperabili di libertà e necessità, di certezza e rischio) implica la conoscenza dei limiti della specie umana e della sua infermità radicale (anche nel senso leopardiano). È una specie che si definisce dalla capacità di conoscere e dirigere se stessa e di avere pietà di sé. La identificazione con le miriadi scomparse e con quelle non ancora nate è rivolgimento amoroso verso i vicini e i prossimi, allegoria dei lontani.

Il comunismo è il processo materiale che vuole rendere sensibile e intellettuale la materialità delle cose dette spirituali. Fino al punto di saper leggere e interpretare nel libro del nostro medesimo corpo tutto quello che gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo, le tracce del passaggio della specie umana sopra una terra che non lascerà traccia

 [L'Unità, 16 gennaio 1989]

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“Presto nel dopoguerra lui antifascista, comunista, d’una radicalità anche talvolta toscanamente anticlericale e antiborghese, aveva diffidato del Pci, suo eterno interlocutore che di quel che egli andava dicendo non voleva sapere; e l’essersi per un tempo accontentato del Psi era un meno peggio nel quale non stava bene. Avrebbe voluto forse stare, anzi essere chiamato a stare con diritto di parola, accanto o dentro il partito più grande, quello dei proletari; che invece gli rispondeva aspramente e non senza l’arroganza di chi si sentiva vulnerato da sinistra e su un punto scoperto, la libertà – e non quella in genere ma quella dei comunisti. Anticapitalista perché libertario, libertario perché marxista, tentato dall’operaismo e respinto da ogni semplificazione pseudo proletaria – la semplicità gli suonava ipocrita, concessiva a un’idea falsa delle masse, dunque pronta al compromesso, dunque ab origine borghese – con i comunisti non poteva stare ma neanche senza di loro.(…) Nel 1956 ci mandò un telegramma di contumelie: «Spero che gli operai vengano a rompervi la faccia», lui che, credo, non ha mai fatto un gesto di violenza. Poche settimane dopo tornava, non dava tregua ai comunisti, erano i meno peggio, avevano dalla loro, malgrado le insipienze, la ragione storica e su di essi tempestava – non ebbe mai altra casa, non ebbe casa, ospite ingrato dovunque. Il 1956 era parso aprire per un momento una strada simile a quella che avrebbe voluto, fuori dal gelo dei dieci inverni. Non fu così. Non si stracciò le vesti, non aveva il temperamento di un pentito. E rifletteva più ancora che non scrivesse, rissoso ma cauto, badando a non uscire dalla parola poetica che era la sua, raccolta, elaborata, figlia anche del silenzio. Per cui il 68 lo trovò assieme caloroso e in guardia: se ogni sciopero che si concludeva era una resa, come gli avvenne di scrivere, ogni ribellismo lo lasciava freddo. Tradusse Brecht, la sola bella traduzione di Brecht che sia in Italia, ma non credette che «il comunismo fosse la cosa semplice che è difficile da fare». Ma non lo lasciava dire agli altri, agli anticomunisti dedicava ancora poco tempo fa qualche pressoché irripetibile verso di Teofilo Folengo. Così sperò in alcuni giovani colti e complicati più che essi non siano stati capaci, non dico di sperare in lui, ma di starlo a sentire. E ai semplici ammiratori parlava, ma per quanto lusingato non risparmiava zampate, perturbatore di ogni quiete a cominciare dalla sua. Comunista e antisovietico, dopo l’89 intollerante con i liquidatori della problematica del secolo, ebreo e fin provocatoriamente anti-israeliano, filologicamente imbattibile e contro l’accademia, controcorrente al pensar bene, anche quello della sinistra, e di colpo puritano, biblico. Del suo modo di essere il rapporto con Pasolini è esemplare: un colloquio di tutta la vita, dopo la vita, con uno da cui era dissimile, col quale non condivideva quasi nulla e meno di tutto qualche arcaismo, e dal quale non cessò di sentirsi interpellato. Non ricordo poesia d’amore di Fortini (…) L’elegia non è il suo registro. Ma la passione politica ha in lui le stigmate, gli andamenti, gli arruffamenti, i ritorni, le ferite dell’amore e soltanto nella parola trova una sua composizione.”

Rossana Rossanda, Comunista con furore. In morte di Franco Fortini, «il manifesto», 29 novembre 1994

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“Franco Fortini è stato uno dei più importanti intellettuali italiani della seconda metà del Novecento. Tuttavia, il suo nome dice poco, se non addirittura pochissimo, a chi oggi abbia meno di trent’anni. Del suo lavoro di scrittore, di poeta, di traduttore, di rigoroso intellettuale politico, di severo polemista, il presente non porta che rarissime tracce. Rispetto a personaggi molto diversi, ma a lui facilmente associabili, come furono Pier Paolo Pasolini o Italo Calvino, la cui fama e popolarità è oggi fuori discussione, perfino a livello internazionale, Fortini è all’opposto una figura intellettuale quasi del tutto rimossa (..) Solo chi si occupa professionalmente di storia letteraria sa riconoscerlo come uno dei più importanti poeti della tradizione post-montaliana, collocandolo correttamente accanto a Vittorio Sereni e Mario Luzi e ricordandone, magari, la funzione di mediatore in Italia dell’opera di Bertold Brecht. (…)il suo anticapitalismo è stato radicale quanto il suo rifiuto politico del comunismo stalinizzato. Del resto, Fortini non fu mai iscritto al PCI; i suoi saggi, fin dalla fine degli anni Quaranta, possono all’opposto essere letti come documento storico di un’implacabile requisitoria contro le distorsioni dello stalinismo, italico e mondiale (…)In un testo poetico del 1958, intitolato niente meno che Il comunismo, Fortini descrive, non senza ironia, il proprio tumultuoso rapporto con «la causa» e con «i compagni». (…) Anche se oggi questo termine può sembrare quasi del tutto incomprensibile, Fortini voleva essere un rivoluzionario. Il punto di partenza non negoziabile della sua riflessione critica e poetica è la fine del modo di produzione capitalistico. Per tutta la vita sceglierà di stare dalla parte del lavoro vivo contro la logica astratta ed autodistruttiva dell’accumulazione. (…)  Gli ultimi scritti di Fortini, quelli saggistici, ma – con i dovuti giochi di rifrazione propri del genere – in parte anche quelli poetici, possono essere interpretati come tentativi di trovare una ragione a questa sconfitta e al suo conseguente collasso sociale. Letti oggi molti dei suoi saggi appaiono come referti di un paesaggio devastato. Potrebbero anche essere pensati e studiati come una continuazione, ben più calibrata, delle scritture corsare pasoliniane. Perché se ostinatamente invitano «ad un buon uso delle rovine» sottendono sempre uno sguardo tragico sul presente. Sono testi che ragionano a fondo su una sconfitta violenta. Ma ragionare a fondo su una sconfitta violenta significa anche assumersi la responsabilità politica degli errori commessi. E Fortini non era certo un ingenuo, né tanto meno un velleitario. Sapeva cos’erano i rapporti di forza e che una politica incapace di calibrarli era destinata, nella migliore delle ipotesi, all’irrilevanza. Per questo non era un minoritario per scelta, ma un militante che sapeva stare in minoranza. Ed è una cosa ben diversa. Se cercò negli ultimi anni di capire le ragioni della sconfitta dei movimenti italiani, sapeva che una politica all’altezza del presente andava ripensata da capo, fin dalle radici.”

Daniele Balicco, Fortini e il comunismo come autoeducazione politica, in AA.VV., L’Altronovecento, comunismo eretico e pensiero critico, vol.II, Jaka Book

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“Fortini giace insepolto fuori dalle mura. E si spiega: ha voluto essere una voce poetica di quella parte del secolo che aveva tentato l’assalto al cielo d’un cambiamento del mondo, ha perduto ed è ricaduta fra le maledizioni del Novecento e l’inizio di un millennio che non ne sopporta il ricordo”

Rossana Rossanda

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Ivan Della Mea canta “L’Internazionale” di Franco Fortini (versione del 1994)


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