Acciaierie Terni, l’unica soluzione: ripubblicizzare l’Ast

Acciaierie Terni, l’unica soluzione: ripubblicizzare l’Ast

di Battista Garibaldi, ex lavoratore Ast, Comitato Politico Federale PRC Terni –

Lo slogan “Non si tocca neanche un bullone”, coniato dai lavoratori dell’AST ad ottobre del 2012, era dettato dalla consapevolezza di essere giunti oramai ad un punto di non ritorno nella durissima vertenza con la Thyssen Krupp. Vertenza apertasi, nel maggio dell’anno precedente, con l’annuncio della multinazionale tedesca di vendere lo stabilimento ternano e proseguita con l’incredibile parentesi della finlandese Outokumpu.
Quello slogan era la risposta rabbiosa ed istintiva di chi vedeva a rischio il proprio posto di lavoro.
Ma esso rappresentava e dettava anche una lucida linea politica, maturata dall’esperienza delle lotte degli anni precedenti. Non sarebbe stato accettato più alcun compromesso: dopo la partita persa col magnetico, nessun altro ridimensionamento, l’integrità del ciclo e le produzioni dell’AST andavano tutelate nella loro interezza.
A distanza di due anni la parola d’ordine deve essere la stessa: non ci sono spazi per mediazioni e soluzioni diverse. Per raggiungere tale obiettivo c’è un solo strumento: la ripubblicizzazione dell’AST.

L’AST DIMEZZATA NON AVREBBE FUTURO
Sgombriamo il campo da ogni illusione: un’AST ridimensionata e con un area a caldo dimezzata, non avrebbe lunga vita.
La vicenda della Teksid di Torino, acquisita dall’AST alla fine degli novanta, è lì a ricordarcelo.
L’acciaieria torinese, che nel 1985 contava ancora 8mila dipendenti, privata della parte fusoria, si è dapprima ridimensionata a semplice reparto della stabilimento ternano, per poi giungere in pochi anni, alla definitiva e drammatica (per i noti motivi) chiusura.
Troppo costoso alimentare i propri laminatoi con coils di acciaio prodotti in altri siti, a chilometri di distanza.
Terni, colpevolmente, non è riuscita mai a dotarsi delle infrastrutture necessarie ad ovviare al fatto di essere situata lontana dai mari. Oggi, paradossalmente, rischia di esserle fatale quello stesso fattore che, 130 anni fa, fu determinante per la sua localizzazione
Ma la “Terni” è riuscita a resistere tutti questi anni alle varie ristrutturazioni della siderurgia nazionale ed europea grazie al fatto di avere un ciclo integrato e completo, dal rottame al prodotto finito, che produce acciai speciali di qualità e con alto valore aggiunto. Basta citare l’unicità dei suoi fucinati, conosciuti ed apprezzati in tutto il mondo, che la Thyssen Krupp voleva dismettere, come le altre ”seconde lavorazioni”, per ridurre l’AST alla sola mono produzione di inossidabile.
Le acciaierie ternane sono un unicum particolare, un patrimonio che il nostro Paese non può permettersi di smantellare o ridimensionare.
L’AST, potrà continuare ad avere un futuro solo se rimane, quantomeno, con le dimensioni e le produzioni attuali. Non a caso il suo break even, il suo punto di pareggio e di equilibrio è stimato intorno al milione e duecentomila tonnellate di prodotto annuo.
La Terni ad un solo forno, con sette-ottocento mila tonnellate di fuso, per la sola produzione dell’inossidabile, come prospettato nel piano tedesco, è un controsenso industriale ed economico.
E chi si illude che l’AST potrebbe andare avanti senza la parte fusoria, magari alimentandola con l’acciaio prodotto a Taranto, non conosce la differenza tra gli acciai comuni e quelli speciali e la difficoltà e complessità della produzione di quest’ultimi.

DALLA MULTINAZIONALE TEDESCA AD UNA INDIANA ?
E’ quindi evidente che il Piano presentato dalla multinazionale tedesca debba essere rispedito al mittente, come hanno imposto ed ottenuto, per il momento, i lavoratori ternani.
Il Piano della Thyssen Krupp è stato, molto probabilmente, congegnato col futuro compratore e naturalmente risponde solo agli interessi ed alle strategie di quest’ultimo.
Chi esso sia non è dato sapersi, ma le cronache di questi giorni, riguardanti gli altri due centri siderurgici nazionali, parlano di trattative dei commissari straordinari italiani rispettivamente con la multinazionale franco-indiana Arcelor- Mittal per Taranto e con l’indiana Jindal per Piombino.
Anche in quest’ultimo caso, come per Terni, l’acquirente indiano è interessato solo ai laminatoi ed alle infrastrutture portuali del polo siderurgico toscano, ma non della sua parte fusoria.
Per l’altoforno spento a Giugno di quest’anno e per l’aerea a caldo di Piombino, speranze di riaccensione ridotte pressoché a zero.
E’ possibile che lo shopping indiano preveda, a prezzi di saldo, anche le acciaierie ternane.
Aperam, il cui azionista di riferimento è Arcelor-Mittal, aveva già avanzato un offerta di acquisto dell’AST ad Outokumpu che la respinse perché troppo bassa. Ora potrebbe essere la volta buona.
A Terni, importanti dirigenti di un PD in evidente stato confusionale, propongono ed auspicano proprio questa soluzione, non rendendosi conto di fare proprio, nei fatti, quel piano tedesco che, a parole, intendono contrastare.

LE COLPE DELLA CLASSE POLITICA LOCALE E NAZIONALE
Malgrado a Terni siano ormai quasi chiaro a tutti che l’AST o si salva così come è oppure le speranze “di raccontarla” si riducono al lumicino, chi ha le maggiori responsabilità politiche in città e nel Paese non sa che pesci prendere; oppure, come detto, propone ricette che rischiano di essere fortemente penalizzanti per l’immediato e rovinose per gli anni a venire.
Si sono persi anni decisivi, dopo la vicenda del magnetico, senza sforzarsi di cercare altre strade che non fossero la sola riduzione del danno, nella vana speranza che a noi non toccasse.
E’ vero che questo è il momento dell’unità e non delle polemiche. Ma è altrettanto vero che se non si individuano le cause e le responsabilità è impossibile rimuoverle e cercare soluzioni.
A noi sembra evidente che la crisi industriale del ternano e del Paese necessita del superamento della subordinazione politico-economica verso le multinazionali subita in questi anni.
Superamento che il centrosinistra ternano non ha saputo praticare e che ha portato il PRC di Terni, questa primavera, a scegliere la strada dell’indipendenza, dopo aver avanzato, in splendido isolamento, la proposta dell’acquisizione di AST da parte del Governo, come l’esproprio, per pubblica utilità, di Basell. Proposte di cui gli eventi di queste settimane ribadiscono la necessità.
Passare da una multinazionale straniera ad un’altra poco cambia. Che sia tedesca o franco-indiana o coreana, la logica con cui si muove una multinazionale è indifferente agli interessi delle economie dei singoli paesi ospitanti.
Come oramai sperimentato a caro prezzo, il pericolo dismissione e di delocalizzazione improvvisa, è sempre dietro l’angolo. Gli esempi, per il nostro territorio, sono già molteplici.

L’INDISPENSABILITA’ DELL’INTERVENTO PUBBLICO
La domanda a cui deve rispondere la politica italiana è se il nostro Paese deve ancora avere un futuro industriale e se deve continuare o meno le produzioni siderurgiche.
Se la risposta è affermativa, allora, a nostro avviso, non c’è altra strada che quello dell’intervento diretto dello Stato.
Le forme di questo intervento possono essere le più svariate, ma è chiaro che esso non può risolversi solo nel coprire debiti o bonificare siti inquinati. L’intervento dovrebbe soprattutto essere mirato a creare una struttura centrale dotata di adeguate risorse finanziarie e competenze tecniche, capace di intervenire a sostegno non solo delle proprie imprese siderurgiche, ma anche dei settori industriali e delle aziende ritenuti più importanti in campo nazionale.
Si potrebbe, a questo scopo, ampliare il già esistente Fondo Strategico Italiano, estendendone compiti ed obiettivi, per costituire un autentico Sistema Italia della siderurgia, a governo pubblico. La Cassa Depositi e Prestiti potrebbe destinarvi parte dei suoi fondi.
Questa struttura potrebbe acquisire, dalla Thyssen Krupp, tutto o parte significativa del pacchetto azionario dell’AST, col compito di restituirle l’autonomia societaria, rispettarne la polisettorialità produttiva e sostenerla nel recupero delle quote di mercato nazionale ed estero. Il tutto tenendo conto della necessità, altrettanto impellente, di affrontare e risolvere il problema della discarica e quello ambientale.
Analogamente si potrebbe operare per Taranto e Piombino, sfruttando possibili sinergie tra i due produttori di acciai comuni.

UN PIANO INDUSTRIALE PER FERMARE LA DEINDUSTRIALIZZAZIONE
Dopo la fase di ricostruzione del sistema industriale nazionale nel dopoguerra tramite l’IRI, serve una nuova stagione d’intervento dello Stato, per arrestare la deindustrializzazione in atto nel Paese.
È ora di rilanciare quell’esperienza, sull’esempio dei socialismi latino-americani, inserendo forme di controllo da parte dei lavoratori per scongiurare gli abusi del passato.
Non servono le dimensioni di allora, ma la medesima determinazione e capacità d’intervento.
Non bisogna dimenticare che l’IRI, l’ENI, ecc., da pubbliche, ma indipendenti, furono un successo e che solamente quando divennero appendici dei partiti di governo, smisero di funzionare, diventando il problema e non la soluzione.

PORRE FINE ALLA STAGIONE DELLE PRIVATIZZAZIONI
Le istituzioni europee l’anno scorso fecero saltare, per motivi ancora oscuri, la vendita di AST alla multinazionale finlandese (in buona parte pubblica!) Outokumpu, cancellando un piano industriale che aveva messo lo stabilimento ternano al centro di strategie di sviluppo nel Sud d’Europa e del mondo.
La stessa Europa che, allora, affermò la necessità di un quarto produttore europeo per prevenire posizioni monopolistiche, non dovrebbe, oggi, frapporre seri ostacoli alla ricostituzione di un polo siderurgico pubblico (o pubblico-privato) ad un Paese che è il secondo produttore industriale europeo ed il secondo consumatore di acciaio del continente.
A meno che non si intendano difendere solo gli interessi di quei Paesi e di quelle imprese che hanno tutto da guadagnare, nella spartizione dei mercati, dal ritiro unilaterale dell’Italia, in seguito alla lunga e scellerata stagione delle privatizzazioni, iniziata negli anni novanta e sostenuta, ancora oggi, da una classe politica inetta, corrotta, senza passato né futuro.

OCCORRE UN RADICALE CAMBIO DI PARADIGMA
Esiste una alternativa, quindi, al piatire un intervento miracolistico al Presidente del Consiglio di turno, sperando nelle sue doti taumaturgiche, come si sta facendo a Terni.
Una strada che l’ultimo della nidiata, Renzi, come già, prima di lui, Letta, Monti e Berlusconi, difficilmente imboccherà spontaneamente. Il dogma liberista, diventato pensiero unico, è difficile da superare.
Non saranno le loro promesse a portare lavoro. A Terni, come nel resto del Paese.
C’è bisogno di una spinta dal basso che solo i territori e le popolazioni coinvolte possono esercitare.
E’ necessario un radicale cambio di paradigma, per mettere al centro non più le esigenze del “mercato”, ma gli obiettivi, gli strumenti e i conflitti necessari ad una graduale conquista della capacità di autogovernarsi in tutti i campi, a partire da quello economico.
I lavoratori di Terni, Piombino e Taranto potrebbero e dovrebbero mettersi alla testa di questo movimento.

Terni, 26 Agosto 2014


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