Gramsci ridotto a una banale storia di spie

Gramsci ridotto a una banale storia di spie

di Gianni Fresu
Recensione del libro di Franco Lo Piparo, L’enigma del quaderno, Donzelli, 2013. «La Nuova Sardegna», Cultura e Società, domenica 24-2-2013.
È oramai appurato, in Italia esiste una categoria di studiosi specializzati in indagini sulla presunta conversione politica, quando non anche religiosa, di Antonio Gramsci ai paradigmi del liberalismo. È il caso dell’ultima fatica di Franco Lo Piparo,  incentrata  sulla  misteriosa  sparizione  di  un quaderno del carcere. Lo Piparo emette un trittico di sentenze inappellabili su ragioni e responsabili della  scomparsa:  manca  un  quaderno;  l’ha fatto sparire Togliatti;  in  esso  Gramsci  ripudia  il comunismo e il suo partito. Non si tratta di un saggio storico, ma di una vera e propria spy story per la cui redazione l’autore afferma di essere ricorso a una «immaginazione sorretta da argomentazioni a loro volta ancorate a fatti reali». Ho letto tutte le 140 pagine, più appendice, ma francamente di fatti  reali  non  ne  ho  trovati,  in  compenso  ho  riscontrato  molta  fantasia,  associata  a  un  ferreo pregiudizio di condanna che a mio modesto parere ha anticipato e guidato, non seguito, l’indagine. Tutte le contraddizioni sul numero dei Quaderni, relative a documenti e testimonianze discordanti, assai  plausibili  tenuto  conto  della  clandestinità  sotto  il  fascismo  e  poi  dalla  disorganizzazione seguita alla guerra, sono qui utilizzate come prova di un reato per il quale esistono però solo indizi. L’intero lavoro si basa sull’interpretazione “creativa” di lettere e documenti: in alcuni casi si cerca un significato recondito ed equivoco ad affermazioni fin troppo evidenti, in altri, magari rispetto a lettere scritte con linguaggio cifrato, per ovvie ragioni di sicurezza, si da un’interpretazione certa e univoca. Paradossalmente anche l’assenza dei documenti necessari a fondare le tesi dell’autore sono utilizzate come prova della sua sentenza. La struttura logica del ragionamento è la stessa: se questi documenti non si trovano sono stati distrutti, dunque c’era qualcosa da nascondere, il responsabile è Palmiro.  A dominare tutte le valutazioni sulle “stranezze” ci sarebbe la malafede del gruppo dirigente comunista e soprattutto di Togliatti, regista di tutti i depistaggi orditi con la complicità di moglie,  cognata  e  amico  strettissimo  (Piero  Sraffa)  del  povero  Gramsci,  tutti  agenti  del  Kgb assoldati da Stalin per sorvegliarlo. Le contraddizioni però non mancano. Secondo l’autore, Sraffa e Tania avrebbero  giocato  una «partita a scacchi»: il primo  «per venire in possesso dei quaderni prima che altri potessero leggerli e sfruttarne l’eventuale carica politica¬; la seconda invece per «onorare l’impegno preso col cognato di fare pervenire i quaderni alla moglie per evitare qualsiasi perdita o intromissione di chicchessia¬. Anche quest’affermazione di Lo Piparo ê assai strana. Se Tania era, come lui afferma, un agente segreto sovietico messo da Stalin alle calcagna di Gramsci per controllarlo, perché sarebbe stata interessata a «onorare l’impegno con il cognato» e non quello con i suoi superiori gerarchici di cui Sraffa sarebbe stato emissario? Eppure, in altre parti del libro, Lo Piparo non ha nessun dubbio su questo ruolo e arriva a scrivere:  «Tania lavora nei servizi sovietici  e  non  può  non  essere  stata  addestrata  al  lavoro  di  intelligence».  Anche  ammettendo l’assenza di un quaderno, per quale ragione Gramsci avrebbe dovuto concentrare in esso tutte le sue critiche  al  comunismo  –  ipotesi  contraddittoria  rispetto  alla struttura dell’opera e al  metodo  di lavoro da lui usato – mentre nel resto dei Quaderni nulla di tutto questo è rintracciabile, anzi vale l’esatto contrario? Secondo l’autore il quaderno mancante all’appello fu scritto nella clinica dopo la scarcerazione, ne è tanto convinto da affermare: «Sraffa, Gramsci vivo, sarà stato a conoscenza [del Quaderno] perché dei suoi contenuti i due amici avranno discusso nei colloqui dell’ultimo anno. Anche in questo caso non si comprende in base a quali documenti l’autore possa essere giunto a una tanto perentoria conclusione. Ecco un’altra affermazione contraddittoria di Lo Piparo: «È credibile un Gramsci che, fuori dal carcere e senza esplicite costrizioni censorie, non abbia sentito il bisogno di mettere per iscritto le sue riflessioni e deduzioni teoriche su quanto l’amico Piero gli andava raccontando  degli  sviluppi  del  comunismo?»  Verrebbe  da  pensare  che  in  carcere  Gramsci  non potesse scrivere criticamente del comunismo a causa della polizia fascista, mentre in clinica avrebbe avuto maggiore libertà. Forse Mussolini era sullo stesso fronte della barricata con Togliatti e Stalin per impedire a Gramsci di parlar male del comunismo? A suo dire, Togliatti, grazie alla «catena comunicativa» di Tania e Sraffa, sapeva della disistima nei suoi confronti di Gramsci, perché lo avrebbe  ritenuto  responsabile  della  famosa  lettera  di  Grieco  e  delle  «intempestive»  campagne internazionali di stampa in suo sostegno. Anche in questo caso l’autore si guarda bene dal provare le sue affermazioni, limitandosi a dire «Togliatti era stato escluso dalla cura dei  Quaderni». In realtà Gramsci, in carcere, aveva interrotto qualsiasi comunicazione diretta con i quadri del partito e del Comintern per non apparire più un dirigente comunista in attività e con alte responsabilità, per questo  ritenne  inopportuna  la  lettera  di  Grieco.  L’accusa principale  sarebbe  riconducibile  a  un dissidio  insanabile  tra  Gramsci  e  Togliatti  rispetto  alla  linea  assunta  dal  Comintern  con  il socialfascismo e all’«appiattimento¬ del partito italiano. In realtà l’autore dimostra di aver visionato le etichette dei Quaderni e studiato le incongruenze sulla loro numerazione, ma si è guardato bene dallo  studiare  dinamiche  e  storia  del  comunismo  italiano  e  Internazionale.  Se  lo  avesse  fatto, avrebbe scoperto ad esempio che l’appiattimento  in  realtà  non  era  tale,  e  anche  quando,  dopo interventi pesantissimi da Mosca, si determinò il suo allineamento, ciò fu dovuto all’impossibilità di rompere i rapporti in una fase drammatica, con tutto il suo gruppo dirigente (compreso il capo) in carcere, il trionfo interno e internazionale della dittatura fascista, l’esilio dei superstiti. Quando, al VI  Congresso  del  Comintern  del  1928,  fu  adottata  la  linea  del  «socialfascismo»  (criticata  da Gramsci) e Bucharin venne liquidato per la sua opposizione, proprio Togliatti fu l’unico membro dell’Esecutivo a intervenire, nel gelo e nel silenzio più assoluto, gli tolsero addirittura la parola, in sostegno alla sua relazione. Nell’altrettanto famoso VII Congresso del luglio 1935, che portò alla condanna del socialfascismo e spianò la strada alla politica dei «Fronti popolari» (ossia la linea di Gramsci)  proprio  Togliatti,  insieme  a  Dimitrov,  fu il  protagonista  della  svolta, anticipando  una posizione poi perseguita con continuità fino al ritorno a Salerno nel ‘44. Tutte cose di cui uno studioso  dovrebbe  tener  conto,  nemmeno  sfiorate  da  Lo  Piparo, affaccendato com’ê a cercare vanamente il corpo del reato. Sicuramente, questa la mia conclusione, egli trova tanto fumo ma nessuna pistola.


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