
Il coraggio della discontinuità
Pubblicato il 7 mar 2013
di Gianluigi Pegolo -
Il risultato elettorale ci consegna un paese attraversato da una crisi profonda che investe non solo la sfera economico-sociale, ma anche quella politico-istituzionale. Una crisi la cui manifestazione più evidente è l’affermarsi di pulsioni populiste, di diversa ispirazione, verso le quali s’incanala il disagio sociale. Un disagio sociale profondo e crescente che non premia la sinistra in senso lato, o perché interna a orientamenti liberisti che sono responsabili del malessere sociale, o perché afona e incapace di rappresentare una domanda di cambiamento.
In questo quadro la vicenda della lista Ingroia è esemplare. L’aver raccolto le poche forze che si erano opposte alle politiche di Monti non è stato sufficiente. A maggior ragione nel momento in cui la proposta avanzata in campagna elettorale ha esaltato i temi della legalità anziché quelli sociali. Né tanto meno ha giovato l’azzeramento delle forze di sinistra ridotte a pure ancelle, private di alcuna visibilità. Ciò che si è verificato era quindi prevedibile: da un lato, la fuga verso il Movimento cinque stelle (in particolare dell’elettorato IdV come dimostrano le analisi dei flussi), dall’altro, verso più direzioni (è il caso dell’elettorato di sinistra).
La lista, quindi, ha mancato sul punto essenziale: intercettare il consenso di una sinistra orfana di rappresentanza. Come è stato giustamente notato, più che di una rivoluzione “civile”, avremmo avuto bisogno di una rivoluzione “sociale”. Così non è stato, per l’eterogeneità delle forze messe in campo, per l’influenza della deriva populista, per la sopravvalutazione dell’efficacia della personalizzazione. Ma è anche vero che noi, come partito, in quel contesto non siamo stati in grado di condizionare il percorso, non riuscendo a far emergere adeguatamente nella compagna elettorale proposte che dessero una risposta ai grandi temi posti dalla crisi (dalla disoccupazione, al reddito, alle nuove povertà). Senza contare alcune scelte subite, sicuramente devastanti, come quelle sulla composizione delle liste.
Il punto ora è che fare di fronte ad un esito così negativo, agli enormi problemi che si riverberano sull’esistenza stessa del partito e alla presenza di nuovi appuntamenti elettorali (dalle prossime amministrative, alle europee del prossimo anno, a possibili elezioni anticipate). A tale riguardo, bisogna essere consapevoli che l’errore più grande che si potrebbe fare è quello di sottovalutare la gravità della situazione, indugiare in atteggiamenti auto-assolutori, negare i nostri limiti. Perché i limiti vi sono stati. E non solo e non tanto nel modo con cui si è condotta la partita elettorale, ma soprattutto nel come ci si è arrivati, dopo anni d’inutili rincorse a progetti fallimentari, come quello della FdS, in mancanza di un impegno adeguato di radicamento sociale, e senza un’azione efficace nella costruzione di una sinistra alternativa, né subordinata né settaria.
Occorre allora il coraggio dell’auto-critica e, conseguentemente, di una scelta di “discontinuità”. Per farlo occorre attivare un percorso di discussione vera che conduca nei tempi adeguati a un congresso. Le dimissioni presentate dalla segreteria avviano tale percorso, ma vanno chiariti i tempi e i modi. E, infatti, un grande disagio percorre il partito, dove la volontà di un vero cambiamento si assomma al timore legittimo che tutto si risolva in un puro regolamento di conti. Per questo credo che il congresso non possa tenersi a breve, oltretutto vi sarebbe la difficoltà oggettiva rappresentata dalle elezioni amministrative di maggio. Inoltre, occorre un percorso che abbini il rilancio verso l’esterno (per esempio con una grande assemblea nazionale intorno al nodo del ruolo della sinistra in questa fase) con quello di un ripensamento profondo dei nostri limiti (per esempio con alcuni appuntamenti seminariali costruiti con un’ampia partecipazione), per giungere a un congresso a tesi aperte, in cui vi sia la possibilità di misurare non solo le differenze, ma anche gli elementi di convergenza.
In questo percorso vanno affrontati alcuni nodi. Il primo è quello politico. Le proposte che sono oggi in campo (dalla continuità dell’esperienza della lista Ingroia, alla costituente di un nuovo soggetto politico) sono profondamente inadeguate, per il semplice fatto che ripropongono, in un modo o nell’altro, la questione del contenitore, anziché quella dei contenuti e, peraltro, dopo esperienze fallite. Senza contare il fatto, che a sinistra prevale oggi la disgregazione e la disomogeneità, che le culture politiche oscillano fra le tentazioni dell’anti-politica e dell’assemblearismo carismatico, per non parlare del ruolo subordinato di SEL nel centro-sinistra. Pensare, magari con disinvolte operazioni di assemblaggio, di costruire a breve un’aggregazione significativa, in grado di entrare in campo con un progetto compiuto e con un consenso elettorale in grado di superare gli sbarramenti elettorali già molto elevati è perlomeno azzardato.
Essenziale è lavorare per la costruzione di una sinistra di alternativa fin da ora, ma con realismo, sapendo che i tempi non saranno necessariamente brevi, che non automaticamente ciò condurrà a esiti elettorali soddisfacenti e che, pertanto, anziché puntare su aggregazioni pasticciate, occorre lavorare sui fondamenti. E cioè: la convergenza reale sui contenuti delle proposte, un disegno politico chiaro, un’agenda d’iniziative mirata alla ricostruzione di un consenso sociale. Per fare tutto ciò occorre spazzare via alcuni approcci che si sono rivelati deleteri. Una sinistra di alternativa non può partire dal presupposto grillino della rottamazione dei soggetti politici e di un presunto primato della società civile, deve rimettere al centro l’iniziativa sulla condizione sociale a partire da quella del mondo del lavoro, deve rifuggire dalle tentazioni plebiscitarie celate dietro l’appello alla partecipazione. Per tutto questo al primo posto non va posta la precipitazione della soluzione organizzativa, ma una pratica unitaria effettiva. La modalità più credibile è quella dell’”unità d’azione” che non pregiudica alcuna scelta impegnativa, ivi compresa la convergenza elettorale.
Presupposto della costruzione di una sinistra di alternativa adeguata è l’esistenza di un soggetto politico che ne costituisca il motore. Questo oggi resta, con tutti i limiti, Rifondazione Comunista. Non vi è in questo nessuna supponenza, né alcuna tentazione autoreferenziale, ma una semplice constatazione. Basti pensare a chi ha garantito il maggiore impegno nelle campagne referendarie o nella stessa recente campagna elettorale. La titubanza con cui è stato rivendicato questo nostro ruolo, magari nell’illusione che il fare un passo indietro avrebbe consentito più ampie convergenze, è stata un errore. Lo è in particolare per un corpo politico generoso che si è speso in tutti i modi, spesso senza alcun riconoscimento, e che oggi per restare unito ha anche bisogno di avere una certezza, e cioè che questo partito ha ancora un ruolo e non è in liquidazione. Per questo credo sia un grave errore farsi attrarre da prospettive di auto-scioglimento in nuovi soggetti politici, peraltro del tutto evanescenti.
Il senso di sé è essenziale se si vuole sopravvivere e svolgere un ruolo a sinistra. Di fronte a quello che è avvenuto in questo paese, la riscoperta dello “spirito di scissione”, nel senso gramsciano di consapevolezza della propria alterità, è essenziale. Sarebbe tuttavia ingenuo ritenere che ciò sia possibile omettendo il riconoscimento dei nostri limiti e senza il coraggio di una profonda autoriforma. E’ necessario allora entrare nel merito di questi limiti che sono tanti, ma che in particolare attengono: alla scarsa capacità, non tanto di sostenere i movimenti, quanto di radicarsi in essi, a partire dalla presenza del tutto insoddisfacente nel sindacato; alla debolezza della cultura politica e all’esiguità degli strumenti formativi e informativi a disposizione dei nostri iscritti; a modalità organizzative inadeguate, di fronte alla rivoluzione dei sistemi comunicativi; all’assenza di un’autonomia finanziaria sempre più indispensabile.
Un’autoriforma è inoltre la condizione per attrarre nuove forze. E’ il tema evocato da molti, anche da quanti hanno insistito in questi anni sul tema dell’unità dei comunisti. E’ un nodo destinato a riproporsi e al quale occorre dare una risposta. Credo che Rifondazione debba essere un soggetto inclusivo e non porre limiti all’adesione di quanti credono nella necessità di una forza comunista. Credo, tuttavia, che l’esperienza negativa della FdS qualcosa ci abbia insegnato e cioè che dietro comuni riferimenti ideologici si celano spesso divergenze politiche rilevanti. La questione resta pertanto quella di sempre: i contenuti devono essere alla base dell’unità. Apertura quindi, ma anche rigore sulle scelte. Rispetto alle quali la questione essenziale è la vocazione “trasformativa” e non “adattativa” di un partito comunista, il suo ancoraggio alla concretezza della condizione sociale, prima che alla tattica delle alleanze.
L’autoriforma del partito, il suo adeguamento, resta un nodo fondamentale ma esso ha un baricentro e questo sta nella ricostruzione di una comunità solidale oltre che politicamente omogenea. Al primo posto resta cioè la questione della costruzione di un partito unito, in cui sia percepibile la solidarietà, in cui la dialettica politica sia trasparente e non strumentale, in cui vi sia rispetto e inclusione delle minoranze, in cui la selezione dei gruppi dirigenti avvenga sulla base prima di tutto del merito e delle capacità. Per questo non è più rinviabile il tema del superamento di una modalità di funzionamento che si regge al centro su un sistema decisionale pattizio e alla periferia sulla balcanizzazione. Lo scioglimento delle correnti e la costruzione di una democrazia fondata sull’ampio consenso nelle decisioni, restano forse la principale sfida che va oggi affrontata.
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