
Referendum, 5 si per cambiare strada in Italia e in Europa
Pubblicato il 2 giu 2025
di Roberto Musacchio -
Se invece di togliere la scala mobile e firmare patti concertativi l’Italia avesse portato nella costruzione della UE ciò che il movimento operaio, e il PCI, avevano conquistato, la stessa integrazione europea poteva essere diversa.
Avere questa consapevolezza porta ad affrontare con la giusta determinazione i referendum dell’8 e 9 giugno.
È importante recuperare una memoria storica. La sconfitta del referendum sulla scala mobile che era stato fortemente voluto da Enrico Berlinguer ma che egli non poté contribuire a vincere perché portato via dalla morte fu il funerale cinico opposto a quello solenne che fu riservato all’ultimo segretario del PCI che aveva la lucidità di vedere cosa stava succedendo nel rapporto tra integrazione europea e dinamiche di classe nel vecchio continente. Lucidità che ancora apparteneva all’insieme di quel partito. Basta leggere i resoconti del dibattito sulla adesione allo Sme, quando praticamente tutto il partito aveva chiaro che una politica monetarista avrebbe determinato di scaricare non più sulla svalutazione ma direttamente sul lavoro i costi della integrazione. Che sarebbe stata un’integrazione passiva per le stesse imprese. Il pressing di La Malfa e degli altri mentori di quella che allora si chiamava politica dei redditi fu fortissimo. Erano i tempi della avanzata elettorale del PCI e della marcia verso il governo. Aderire allo Sme, e togliere la scala mobile, era il prezzo che si chiedeva che il PCI pagasse. E il PCI disse no. Resse fino a che c’era Berlinguer. Poi arrivarono I colpi duri.
Privatizzazione della Banca d’Italia, e dunque del debito pubblico. Attacco alla scala mobile. La politica dei redditi, che si giustificava con la lotta all’inflazione come se questa non fosse anche la reazione febbrile del capitalismo alla perdita di quote di profitto, scivola verso il neoliberalismo di Maastricht in cui si rovescia la lotta di classe e la febbre infatti la si raffredda a danno di salari, pensioni, welfare e consentendo alle borghesie di riprendere profitti e potere. A battere in testa alla classe operaia da sconfiggere, al posto dell’inflazione subentra il debito che funge da maglio. Per altro con una moneta unica per modo di dire visto che prevede, unica al mondo, gli spread che colpiscono anch’essi le classi subalterne. Insieme alla finanziarizzazione che lucra su debiti, privatizzazioni, catene del valore. Queste dinamiche valgono per tutta la UE. Compresa la Germania che pratica una moderazione salariale e, dalla riunificazione in poi, doppi standard che le consentono i surplus esportativi record e strutturali. Le borghesie accettano perché tutto ciò consente appunto di rovesciare la lotta di classe.
Ora è evidente, e lo era allora, che la UE non era un’area ottimale per una moneta unica così come la definiscono studiosi come Mundell. Aveva piuttosto una somiglianza di modello sociale nonostante economie e condizioni economiche molto distanti tra loro. Una integrazione che fosse partita dal modello sociale e avesse lavorato ad integrare e armonizzare economie, salari, welfare sarebbe stata in continuità col modello sociale e democratico. Maastricht fa l’opposto. E l’Italia ci entra facendo l’opposto di quanto pensavano Berlinguer e il PCI. Infatti il PCI viene sciolto quasi in contemporanea al togliere la scala mobile, concertare a perdere e firmare Maastricht. Poi è tutta una rovinosa discesa che porta l’ Italia ad avere salari peggiori del 1990 e la UE ad investire sulla guerra invece che sul welfare.
Con un patto di stabilità che viene tolto in Germania per fare armi mentre resta in Italia. Cosa che chiama a tristi presagi. Le leggi che dobbiamo abrogare stanno nella china rovinosa della precarizzazione e nella frammentazione del lavoro. Anche quella sulla cittadinanza ai migranti lo è. Un vulnus di civiltà, certo. Ma anche la creazione di un esercito del lavoro alla mercé, di una nuova feudale servitù della gleba. Che la UE ha voluto e l’Italia ha contribuito a volere. È ora di uscire da questo giogo, a partire dal vincere i referendum. Per l’Italia e, tanto, anche per l’Europa.
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