
Italia capolista mondiale del precariato, ai referendum 5 sì per cancellare anni di bugie, parla Emiliano Brancaccio
Pubblicato il 31 mag 2025
Intervista di Umberto De Giovannangeli -
“Il nostro Paese ha ridotto le tutele più di tutti. ‘Dobbiamo creare più occupazione’, era il mantra neoliberista. Che però è stato smentito persino dal Fmi. I quesiti sono una chance per ridiscutere il sistema”.
In vista dei referendum su lavoro e cittadinanza dell’8 e 9 giugno, la maggioranza di governo invita a disertare le urne. Per Meloni e i suoi alleati, infatti, il successo dei referendum pregiudicherebbe il boom dell’occupazione ottenuto in questi anni. Ma è proprio così? Ne parliamo con l’economista Emiliano Brancaccio dell’Università Federico II di Napoli, che sui legami tra precarietà e occupazione ha pubblicato ricerche d’avanguardia e ha tenuto importanti dibattiti presso la Scuola Superiore della Magistratura, con Tiziano Treu e altri fautori della flessibilità.
Professor Brancaccio, lei ha sostenuto che la deregulation del lavoro è stato “lo spirito del tempo” che ha dominato l’ultimo trentennio. Può spiegarci?
Nei Paesi Ocse, dal 1990 abbiamo assistito a un crollo medio degli indici di protezione dei lavoratori di circa il 20 per cento e a una riduzione della loro variabilità internazionale di quasi il 60 per cento. In sostanza, c’è stata convergenza internazionale al ribasso, nella direzione del precariato. In questa tendenza generale, l’Italia ha precarizzato più della media. Nel nostro paese, le politiche di flessibilità del lavoro hanno abbattuto le tutele di oltre il 35% per i contratti temporanei e oltre il 20% per i contratti a tempo indeterminato. Siamo stati ai vertici della corsa mondiale a precarizzare.
Il governo sostiene che se al referendum vincono i Sì, ci sarà un aumento della disoccupazione. È così?
È un vecchio slogan totalmente smentito dall’evidenza scientifica. L’88% delle ricerche pubblicate nell’ultimo decennio su riviste accademiche internazionali, mostra che la precarizzazione non stimola affatto le assunzioni e che le tutele non aumentano i disoccupati. Questo risultato è sempre valido, quali che siano le citazioni degli articoli, gli impact factors delle riviste scientifiche esaminate o le tecniche di indagine utilizzate.
Un risultato sorprendente…
Non più di tanto. Già la Banca mondiale nel 2013 riconosceva che “l’impatto della flessibilità del lavoro è insignificante o modesto”. Anche il Fondo monetario internazionale, nel 2016, è giunto alla conclusione che le deregolamentazioni del lavoro “non hanno effetti statisticamente significativi sull’occupazione”. E l’Ocse, nello stesso anno, ha ammesso che “la maggior parte degli studi empirici che analizzano gli effetti delle riforme per la flessibilità, suggeriscono che queste hanno un impatto nullo o limitato sui livelli di occupazione”. Insomma, le stesse istituzioni che per anni hanno propugnato la deregulation, oggi ammettono che questa politica non crea posti di lavoro.
Se la flessibilità non stimola l’occupazione, quali sono i suoi effetti?
L’evidenza scientifica mostra che i contratti flessibili rendono i lavoratori più “docili”, e quindi provocano un calo della quota salari e più in generale un aumento delle disuguaglianze. Anche questo risultato trova conferme in studi pubblicati dalle principali istituzioni, tra cui il National bureau of economic research. Anche da questo punto di vista l’Italia è caso emblematico: da noi la precarizzazione ha contribuito fortemente ad abbattere i salari.
C’è poi il quesito contro gli appalti selvaggi, che mira a contrastare la tragedia delle morti sul lavoro. Che ne pensa?
In Italia, più che altrove, la tendenza storica al declino dei morti sul lavoro si è arrestata. E si intravede una pericolosa inversione della curva. Gli appalti senza regole sono sicuramente parte del problema.
C’è chi dice che la vittoria dei Sì comporterebbe un insostenibile aumento dei costi. Licenziamenti più gravosi e appalti più difficili metterebbero in crisi molte imprese che già faticano a restare sul mercato.
L’idea secondo cui bisogna aiutare in tutti i modi le imprese che non riescono a restare sul mercato è la ragione per cui, nel nostro paese, ancora prosperano enormi sacche di capitalismo inefficiente. Se abitui l’imprenditore a vivacchiare di prebende statali, bassi salari, evasione fiscale e assenza di controlli sulla sicurezza, togli qualsiasi stimolo all’innovazione produttiva. Al contrario, aumentare i costi per il lavoro e la sicurezza è una “frusta competitiva” che forza le imprese a migliorarsi.
Altri avanzano contestazioni politiche: i referendum sono appoggiati anche dal Pd, che è lo stesso partito che in passato ha portato avanti le politiche di precarizzazione…
Questa obiezione mi sembra autolesionista. Da Treu a Renzi, ho sempre messo in evidenza le falsificazioni ideologiche dei propugnatori della precarietà che venivano dal Pd. Ma se capita l’occasione di intervenire sul quadro legislativo, direttamente e nella direzione giusta, penso che si debba cercare di coglierla.
Anche perché il quorum è a rischio…
È a rischio non per beghe infantili tra fautori dei “piccoli passi” e apologeti del “tanto peggio, tanto meglio”. La verità è che manca la capacità di sviluppare tra masse totalmente depoliticizzate una critica del capitalismo all’altezza di questi tempi tremendi. Molti parlano di carenze organizzative che impedirebbero di creare il movimento. In realtà, opportunamente aggiornato, oggi vale più che mai il vecchio detto: senza moderna teoria “rivoluzionaria” non c’è movimento “rivoluzionario”.
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