I danni della riforma fiscale del Governo Meloni, “GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO”, 16 ottobre 2024
Pubblicato il 17 ott 2024
di Guglielmo Forges Davanzati -
Fin dal suo insediamento, il Governo Meloni ha annunciato la riduzione delle aliquote IRPEF come principale riforma – insieme alla flat tax – del sistema tributario italiano. Si tratta di un intervento non nuovo, che fa seguito a una lungua sequenza di riduzione degli scaglioni: del 1973 al 1982, l’Irpef prevedeva 32 aliquote comprese fra il 10% e il 72%; nel 1983 le aliquote si ridussero da 32 a 9, successivamente – dal 2003 – a 4 e, con l’attuale Governo a 3. A ciò occorre aggiungere che, in Italia, la pressione tributaria è costantemente aumentata (di circa l’11%) dal 1980 a oggi ed è aumentato soprattutto il peso delle imposte indirette, ovvero quelle che vengono pagate indipendentemente dal reddito e che, dunque, hanno natura regressiva (sono pagate allo stesso modo, in termini percentuali, da parcettori di redditi alti e bassi).
La riforma attuale prevede che i primi due scaglioni IRPEF vengano accorpati in un’aliquota unica del 23% per i redditi fino a 28.000 euro, che si continuino ad applicare le aliquote del 35% per i redditi compresi fra i 28.000 e i 50.000 euro e del 43% per i redditi superiori a 50.000 euro. Il Governo ritiene necessario questo intervento, sia per la semplificazione del sistema tributario, sia perché sarebbe funzionale alla crescita economica.
Proveremo a mettere in evidenza che queste riforme reggono su basi scientifiche molto deboli, che producono effetti deleteri sulle diseguaglianze distributive e sulla mobilità sociale. Nel fare questo, è utile considerare inizialmente che, come documentato in uno studio recente (Massimo Baldini, Redistribution and progressivity of the Italian personal income tax, after 40 years, “Fiscal Studies”, 2020), la riduzione di lungo periodo del numero di aliquote ha prodotto, come principale effetto, un aumento complessivo del carico fiscale a danno soprattutto delle classi medie. Thomas Piketty (Il capitale nel XXI secolo, Bompiani) ha rilevato che l’aumento della tassazione a danno delle classi medie, su scala globale, ha consentito e consente ai Governi di orientamento neo-liberista – (tendenzialmente di centro-destra) di prelevare risorse da gruppi sociali – le classi medie, appunto (che risultano, peraltro, statisticamente quelle con più alti livelli di istruzione) – le cui preferenze elettorali si muovono nella direzione del sostegno a gruppi politici favorevoli a misure di redistribuzione.
Occorre ricordare che la teoria economica che ha ispirato le riforme fiscali, nei principali Paesi industrializzati, Italia inclusa, dagli anni Ottanta a oggi – nota come curva di Laffer, alla quale il Governo Meloni esplicitamente fa riferimento – è stata elaborata alla fine degli anni Settanta da economisti di Chicago di orientamento liberista e applicata, in una prima fase, soprattutto dall’amministrazione Reagan, con effetti prevalentemente negativi. La teoria di Laffer suggerisce che la riduzione dell’aliquota d’imposta incentiva l’aumento dell’offerta di lavoro (nessuno lavorerebbe per pagare un’imposta pari al 100%), che questo, a sua volta, produce maggiore crescita economica e, dunque, maggior gettito fiscale. Gli economisti statunitensi critici nei confronti di questa impostazione sostenevano che il suo successo era dovuto alla capacità di essere facilmente comunicabile perfino a un membro del Congresso.
Reagan ridusse il numero di aliquote, seguendo le indicazioni di Laffer, da 15 a 3 dal 1980 al 1986 e diminuì anche significativamente (di circa il 5%), nel medesimo periodo, la tassazione sui profitti. Il combinato della minore tassazione dei redditi più elevati e della maggiore spesa pubblica per scopi militari, nella fase della guerra fredda, determinò uno dei più significativi incrementi del debito pubblico statunitense generando l’effetto esattamente contrario rispetto a quello previsto da Laffer. L’ampio discredito di cui è oggetto questa teoria oggi, nella comunità internazionale degli economisti, non impedisce al Governo Meloni di utilizzarla, a distanza di oltre quarant’anni dalla sua prima e principale attuazione, peraltro fallimentare.
La sequenza di riforme fiscali ispirate a Laffer e orientate alla riduzione delle aliquote d’imposta e alla flat tax ha generato, nel caso italiano, due danni fondamentali di lungo periodo:
a) L’Italia è venuta gradualmente a collocarsi fra i primi Paesi OCSE per livello delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito, sia fra gruppi sociali, sia su basi regionali. L’indice di Gini, convenzionalmente utilizzato per calcolarle, è pari, nel nostro Paese, a 0,366, in continuo aumento dagli anni Settanta e solo di poco inferiore alle economie avanzate più diseguali al mondo: in particolare, a quella con maggiori diseguaglianze fra i Paesi OCSE, ovvero gli Stati Uniti (con un indice di concentrazione – stando alle ultime stime OCSE – pari a 0,415). Le diseguaglianze sono aumentate, in Italia, anche su basi regionali, a ragione della maggiore incidenza del fisco locale rispetto ai trasferimenti nazionali. Prima dell’introduzione dell’addizionale IRPEF, la fiscalità locale dipendeva per circa l’80% da finanziamenti nazionali sostanzialmente uniformi su scala nazionale: oggi, in misura crescente, il finanziamento dei servizi pubblici locali viene a dipendere dal gettito locale, che è ovviamente minore nelle aree meno sviluppate del Paese.
b) L’effetto delle modifiche delle strutture tributarie sulla distribuzione del reddito ha anche prodotto – in Italia e non solo – il rallentamento della mobilità sociale e, dunque, una sempre minore eguaglianza di opportunità. Si può ricordare che un’elevata mobilità sociale è una condizione per la quale chi nasce in una famiglia con basso reddito può affrancarsi dall’iniziale condizione di povertà e contribuire alla crescita economica – e, dunque, al benessere collettivo – attraverso soprattutto la libera iniziativa privata in un’economia di mercato: si tratta, in sostanza, del mito fondativo del liberismo, soprattutto statunitense, e della retorica che accompagna la figura del del self-made man. A fronte di questo, si stima l’esistenza di una correlazione negativa, su scala globale, fra diseguaglianza e mobilità sociale (correlazione nota come curva del grande Gatsby, dal nome del protagonista del noto romanzo di Francis Scott Fitzgerald) e l’Italia, insieme a Gran Bretagna e proprio agli Stati Uniti, è, oggi, il Paese al mondo con minore mobilità sociale.
Che sia consapevole o meno di questi effetti e dell’ampia letteratura scientifica che ne dà conto, il Governo sta, dunque, aggiungendo una dose addizionale di diseguaglianza e di blocco della mobilità sociale in un’economia – la nostra – che è già ai vertici delle classiche mondiali per questi problemi. L’economia italiana avrebbe bisogno, per contro, di politiche che si muovano in radicale controtendenza rispetto a quanto fatto negli ultimi quaranta anni su questioni fiscali, a partire dal contrasto all’economia sommersa e all’evasione fiscale. Ci si può limitare, in questa sede, a evidenziare la palese irrazionalità di un sistema – quello attuale – nel quale, a fronte di un aumento degli infortuni sul lavoro stimato intorno all’1% dal primo semestre del 2023 al primo semestre del 2024, l’Ispettorato sul lavoro resta paralizzato per un sottodimensionamento che, nella totale inerzia del Governo, andrebbe corretto con almeno tremila assunzioni.
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