Una guerra senza fine

Una guerra senza fine

Stefano Galieni*
 

A parlare di Medio Oriente e di Palestina, in queste ore, si corre il rischio di lasciarsi trascinare in analisi dettate dall’emotività. La lunga storia che lega molte/i di noi con la lotta di liberazione del popolo palestinese, con la sua strenua Resistenza, fa a pugni con le immagini reiterate a reti unificate in cui si vedono giovani, tanto simili a quelle e quelli che vivono nelle nostre città, colpiti da missili, proiettili, o rapiti con violenza. Gioca l’intensità che non si realizzava da tempo del conflitto, quanto il silenzio complice dei mezzi di informazione mentre a subire le stessi sorti erano ragazze e ragazzi arabi. O meglio colpisce e indigna che questa volta a morire in maniera atroce siano giovani, civili, cittadini israeliani. Il contesto non è cambiato, se non per quanto riguarda il posizionamento geopolitico delle potenze regionali, in primis Arabia Saudita e Iran e il rischio di un’escalation di cui pagheranno le spese soprattutto i civili che vivono, in condizioni inenarrabili, nella Striscia di Gaza, si sta trasformando in certezza. Eppure, oggi più che in passato, si torna a considerare la Resistenza palestinese come terrorismo cinico e chi non la condanna, come connivente dell’organizzazione a Gaza maggioritaria, il Movimento di Resistenza Islamica più noto come Hamas. Facile dalle nostre città dividere fra “resistenze buone” e “resistenze cattive”.

Le parole poi a volte rischiano di divenire scivolose dal punto di vista semantico. Rigettando al mittente qualsiasi accusa di antisemitismo è però lecito domandarsi anche quanto, all’interno della nostra elaborazione in questi tempi poco attenta e approfondita, lasci spazio ad ambiguità, mistificazioni, debolezze concettuali di fondo. Si tratta in alcuni casi di limiti tali da farci rischiare con alcune affermazioni, che non tengono conto della Storia e della sua complessità, di utilizzare impropriamente o per pura volontà provocatoria, paragoni improponibili. Quanto si compie nei territori di Palestina dal 1948 va ricondotto sotto la voce “crimini contro l’umanità”, “tentativo di pulizia etnica”, “spoliazione radicale di ogni forma di organizzazione sociale non sottomessa ai diversi governi israeliani”, rozzo ed ingiusto l’utilizzo di altre oscenità che la storia ci ha riservato.

Quindi, se si vuole provare a evitare di cadere nella trappola di un sistema binario, campista e profondamente radicato in un’analisi colonialista dei movimenti di liberazione non europei, è opportuno fare un salto nel tempo. Le organizzazioni di stampo religioso, sovente legate alla “Fratellanza Musulmana” sono da sempre esistite in Palestina ma, fino allo scoppio della Prima Intifada (dicembre 1987) il loro ruolo era marginale in ogni ambito della vita sociale. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) fondata nel 1964, raccoglieva le principali quattro forze politiche presenti nei territori di Gaza e Cisgiordania. Al Fatah, era la più moderata e maggioritaria, di matrice musulmana ma con una forte componente laica – separazione della sfera religiosa da quella politica – assimilabile ad una forza di centro in cui si riconosceva il ceto medio e una parte della popolazione che viveva di economia rurale. Ma erano ben tre le organizzazioni solide della sinistra. Il Partito Comunista Palestinese (oggi Partito del Popolo Palestinese), la cui proposta politica ed ideologica risentiva in maniera forte dei partiti fratelli dell’Europa Occidentale, in particolare di quello italiano; il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FplP) organizzazione che si è definita dalla sua fondazione “marxista-leninista, socialista e rivoluzionaria), il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, nato da una scissione del FplP e con un tratto più dichiaratamente maoista. Negli anni Sessanta e Settanta queste organizzazioni – le ultime due politiche e militari – subirono ulteriori scissioni, spesso legate ad appoggi e condizionamenti di altre potenze regionali esterne, ma restarono determinanti negli equilibri politici palestinesi. Tanto è che tutte e 4 fecero parte del “Comando unificato” che gestì quella che è ricordata come la Prima Intifada, la “rivolta delle pietre” in quanto combattuta in gran parte da minorenni armati di sassi contro uno dei più potenti eserciti del pianeta. Chi ebbe modo di frequentare la Palestina in quegli anni trovava un terreno fertile e articolato di dibattito politico e culturale, in cui il laicismo era elemento sostanziale e le donne rivestivano e rivendicavano un ruolo sociale e politico di estremo valore. Parliamo sempre di società – come la nostra – in cui il patriarcato era dominante e veniva accompagnato da tentativi di un uso tradizionalista della religione ma anche su questo nascevano interessanti forme di conflitto e di opposizione sociale. Uno dei primi effetti prodotti, con la repressione all’Intifada (sollevazione in italiano), fu la chiusura, imposta dalle autorità israeliane, nei Territori Occupati di Cisgiordania e Gaza, delle scuole e delle università pubbliche. Scuole ed università in cui i docenti si erano spesso formati all’estero, in particolare nei paesi dell’allora Patto di Varsavia e che garantivano livelli di preparazione estremamente elevati. Tutto questo è stato distrutto in un anno. I Comitati popolari locali sorti per garantire la difesa delle cittadine, dei villaggi rurali e dei campi profughi, riuscirono in parte a resistere a tale repressione creando “scuole clandestine”, ma non riuscirono, inevitabilmente a reggere l’impatto militare e di privazione della libertà di movimento. Per tutta la durata della sommossa, (sei anni) si assistette ad una descolarizzazione delle nuove generazioni che, crebbero in strada, negli scontri con l’esercito israeliano e con i coloni, che stavano già prendendosi – infischiandosene delle risoluzioni internazionali – le terre migliori dove costruivano insediamenti. Soprattutto in Cisgiordania si crearono due paesi sovrapposti, con sistemi di circolazione separati che determinarono un vero e proprio apartheid mentre la Striscia di Gaza, una delle aree a più alta densità abitativa del pianeta, allora costituita in gran parte da campi profughi, divenne un vero e proprio ghetto sottoposto costantemente a coprifuoco. I bambini che provavano a tirare sassi ai soldati dell’esercito di Tsahal, (i militari israeliani), venivano spesso uccisi o – ed era la quotidianità – presi, derisi, umiliati, gettati nelle pozze in cui confluivano i liquami fognari. Crescevano nell’odio e nella paura. E mentre in quegli anni, come si diceva, si proibiva l’istruzione pubblica, venne permesso facilmente l’ingresso di capitali sauditi o degli emirati del Golfo per finanziare l’apertura di moschee e delle madrase (le scuole islamiste), giunsero anche capitali israeliani a sovvenzionare questo intervento che aveva l’obiettivo dichiarato di indebolire l’opposizione, comunque laica, rappresentata dall’OLP.

La fine della prima Intifada, sono passati ormai 30 anni, fu legata agli accordi di Oslo, quelli che avrebbero dovuto portare la pace in nome del sogno “due popoli per due Stati”, ma che non riuscì mai a realizzarsi. Il presidente dell’OLP, Yassir Arafat e il premier israeliano, Yitzhak Rabin, si strinsero la mano di fronte all’allora presidente Usa Bill Clinton, i due leader ricevettero per questo anche il Nobel per la Pace, ma poi nient’altro. Gaza fu abbandonata a se stessa, la Cisgiordania divisa in 3 zone, una sotto controllo dell’Amministrazione Nazionale Palestinese, una di “civili” (israeliani e palestinesi) considerata di “sicurezza” e una terza, in continua espansione, in mano all’esercito israeliano che controllava gli insediamenti dei coloni. Una pace morta sul nascere: vissuta come una vittoria mancata per Israele, che infatti continuò indisturbata ad annettere territori e come un tradimento da parte di fasce sempre più ampie della popolazione palestinese che negli anni era profondamente cambiata.

La delusione verso le promesse progressiste occidentali fece il paio con una forte islamizzazione della società in cui anche le scuole coraniche e le moschee giocarono un ruolo fondamentale. La crescita esponenziale di Hamas avviene in questo contesto, il movimento islamista diviene tanto popolare per la capacità di continuare la Resistenza contro Israele, non rifiutando la lotta armata, quanto Stato nello Stato, vero e proprio welfare privato che suppliva alla scarsità di sostegno garantita dagli altri paesi arabi e dalle agenzie delle Nazioni Unite – vera e propria elemosina – insufficiente a garantire il fabbisogno familiare. Laddove gli omicidi mirati compiuti dall’esercito d’occupazione, gli arresti indiscriminati e spesso senza neanche accuse formulate, persino di minorenni, la distruzione di case, la cacciata di intere famiglie per far posto ai coloni, l’espropriazione delle terre migliori, intervenivano per distruggere qualsiasi speranza nei cittadini palestinesi, interveniva Hamas. Si garantivano e si garantiscono ancora sussidi alle famiglie che hanno avuto martiri o prigionieri, sostegno all’istruzione, soprattutto coranica, arruolamento nelle milizie. In cambio la popolazione più laica del Medio Oriente doveva uniformarsi ai dogmi della sharia e a pagarne le spese, come al solito le donne. Hamas ha anche, più volte, vinto le elezioni, criticando vicende di corruzione e di autoritarismo presenti nell’ANP di cui ha sempre denunciato la scarsa capacità di incidere politicamente e le loro bandiere verdi sventolano a Gaza come, spesso anche in Cisgiordania. Le stesse azioni militari compiute negli anni, le due intifade, nonostante si siano spesso tradotte in tragiche e inefficaci missioni suicide che hanno reso ancora più intollerabile la vita per la popolazione civile, hanno rappresentato una forma di Resistenza con cui si deve fare i conti.

Inutile bollarle come terroriste – erano terroristi anche gli “eroi del risorgimento” – inutile anche denunciare il carattere fortemente reazionario che determina il loro potere laddove si afferma. Nessuna/o di noi vorrebbe molto probabilmente vivere in un territorio governato con simili forme di dominio, ma questo vale per vaste aree del globo, ma come possiamo ridurci a commentatori di una partita che non è iniziata ieri? Dobbiamo avere il coraggio di ripercorrere gli anni in cui non si è stati capaci di imporre soluzioni eque in quel conflitto, capaci di innescare meccanismi di pacificazione che, dopo questo assalto, appaiono ancora più lontani e utopici.

Israele vuole vendetta – il suo governo di destra estrema dopo questo fallimento militare e politico non ha altra possibilità di restare al potere – ma quello che si va compiendo ha le dimensioni della pulizia etnica forse definitiva. Togliere ad una popolazione come quella di Gaza, oltre 2 milioni di abitanti, acqua, energia elettrica, cibo, medicinali invitando – non si capisce da quale varco – i civili ad andarsene, è semplicemente criminale.

E pensare che nei mesi passati sembrava stesse per aprirsi un varco. Tanto fra i giovani della diaspora in giro per il mondo, quanto fra quelli rimasti in patria, la disillusione si stava trasformando in rifiuto verso i vecchi leader, i vecchi partiti, le imposizioni religiose o tradizionali, un approccio, ancora embrionale, alla politica, con caratteristiche fortemente cariche di volontà di liberazione dal passato. I social avevano persino incoraggiato lo scambio fra coetanei israeliani e palestinesi, c’era stato chi aveva denunciato di sentirsi parte di un’unica comunità oppressa a cui era negato il futuro a causa dell’odio e degli errori commessi dai padri. Col risultato che tanto le autorità israeliane che quelle palestinesi hanno dovuto fare i conti con malumori interni profondi e radicati, difficile immaginare quale sarebbe potuto divenire il loro sviluppo.

L’invasione che si prepara non farà altro che accrescere l’odio nei confronti dell’occupante. E lo scenario internazionale, che ha visto in questi ultimi anni la ratifica degli “Accordi di Abramo”, attraverso cui Tel Aviv ha avviato relazioni diplomatiche con importanti paesi come EAU, Marocco e Bahrein, non si è rivelato risolutivo ma inadeguato e ulteriore fonte di problemi. La situazione che si è determinata farà sì che ogni ipotesi di allargamento degli accordi, anche all’Arabia Saudita non avrà più prospettive, questo mentre i Sauditi, insieme all’Iran, entrano a far parte dei BRICS.

Il divampare del conflitto potrebbe riportare Israele in una condizione di totale isolamento nell’area – anche con l’Egitto sorgono problemi –, da cui si potrà difendere unicamente col massiccio sostegno militare USA, europeo e col proprio potentissimo esercito. Per l’ennesima volta la geopolitica, sommata alla scelta di rendere preminenti le relazioni economiche su quelle politiche, non produce pace e dialogo ma si rivela ostacolo a qualsiasi avanzamento diplomatico reale. Fermo restando il fatto che parlare solo oggi di conflitto ad alta intensità è frutto di una misera miopia coloniale che ha impedito per anni di considerare visibile, anche agli occhi dei “distratti” capaci di riconoscere le vittime solo in base al colore della pelle e alla nazionalità, un’altra area della “Guerra mondiale a pezzi” che caratterizza il XXI secolo. Per fermare la catastrofe occorrerebbe l’impossibile. Occorrerebbe che le Nazioni Unite svolgessero pienamente il proprio mandato e permettessero l’applicazione di un immediato “cessate il fuoco”, definendo i passi che diano la speranza di una soluzione lunga a venire nei tempi, di non belligeranza e di sovranità nazionali garantite nella sicurezza, con cessioni da parte di entrambi i contendenti. Una scelta diplomatica che non si vuole percorrere, per mille ragioni abbastanza implicite, ma che se volesse avere chance dovrebbe partire da una capacità di comprendere un contesto politico, sociale e ideologico, profondamente cambiato e peggiorato. Se da una parte, gli anni di militarizzazione di ogni spazio della vita, hanno fatto divenire Israele un paese governato dalle peggiori destre, in maniera simile a come accade in parte d’Europa, in cui si mescolano nazionalismo, islamofobia, rigurgiti religiosi fondamentalisti, anche in Palestina, come abbiamo tentato di raccontare per sommi capi, troppe cose sono peggiorate. Israele giustifica i propri cambiamenti con gli attentati subiti, in Palestina, il dissanguamento di un popolo intero non poteva certo portare a prospettare una diversa visione del mondo. Ma se oggi Hamas, la simile Jihad Islamica, altre formazioni islamiste, dominano militarmente, politicamente e culturalmente, questo lo si deve anche a chi, da apprendista stregone, ha pensato di poter utilizzare il fondamentalismo religioso come grimaldello per indebolire l’avversario. Anche i governi israeliani, di diverso segno, sono responsabili di tale catastrofe, anche chi ha criminalizzato, fin quando ha potuto, l’OLP, come destabilizzante, negando asilo politico, agibilità, ruolo di interlocutore, è colpevole di aver consegnato la Resistenza in mano a forze reazionarie. E pensare che in Italia, in un tempo neanche troppo lontano, uomini non certo animati da ideali progressisti ma convinti assertori della necessità di poter impegnare questo Paese in una strategia di pace e di dialogo, hanno avuto in mano il governo e tali politiche le hanno attuate. Gli Andreotti, i Craxi, persino i D’Alema, sono ancora ricordati in Palestina come interlocutori credibili e affidabili. Dietro a loro c’era una visione della politica estera fondata, malgrado il sistema bipolare, su una comprensione della complessità e della fase di cambiamento epocale che si stava realizzando nel pianeta. Mutazioni che imponevano di guardare con uno sguardo di prospettiva i diversi contesti regionali, non per scegliersi gli alleati ma, soprattutto, per poter comprendere gli interlocutori con cui dover trovarsi a dialogare. Poi, non solo il centro destra, ma anche e soprattutto le sedicenti forze progressiste hanno deciso, in nome degli interessi internazionali che la Palestina andava abbandonata al proprio destino e che solo Israele ha il diritto a restare in piedi. Ed è orribile dover dire che a pagare il conto di quelle scelte dettate da miseri interessi di bottega, saranno, come al solito, i popoli, quello palestinese e quello israeliano, soprattutto le giovani generazioni che si ritroveranno giocoforza arruolate in una guerra senza fine.

*Transform Italia


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