Dentro il sindacato degli stranieri

Dentro il sindacato degli stranieri

NOVECENTO. L’ampio studio di Maria Grazia Meriggi pubblicato da Biblion edizioni. In «La Confederazione generale unitaria del lavoro e i lavoratori immigrati», l’esempio di chi persino negli anni più segnati dallo stalinismo si ritenne internazionalista. Nella Francia degli anni ’20, l’esperienza innovativa di Cgtu e Moe in favore della manopodera immigrata. Erano anche diffuse pubblicazioni nelle lingue dei Paesi d’origine, con tirature che andavano dalle 15mila unità per la comunità italiana alle 4000 per quella yiddish.

di  Paolo Borioni

Il corposo e importante studio di Maria Grazia Meriggi (La Confederazione generale unitaria del lavoro e i lavoratori immigrati, Biblion edizioni, pp. 468, euro 30, con un’appendice di Michel Dreyfus) ricostruisce in profondità ed ampiezza la breve vita di una cultura sindacale europea tra le due guerre: la francese Cgtu. Essa si scinde nel 1922 dalla Cgt per perpetuare la francesissima «azione diretta», la totale autonomia sindacalista, nella fedeltà alla carta di Amiens. Ad Amiens nel 1906 una maggioranza aveva sconfitto le tendenze riformiste della Cgt (concordi sull’autonomia dai partiti ma per un gradualismo sostenuto da legislazione e governi) e quelle socialiste (non moderate ma collegate al partito socialista).

Nella Cgtu (che scindendosi aggiungeva controintuitivamente la parola «unitaire» all’acronimo Cgt) viveva insomma quel sindacalismo rivoluzionario per cui non i partiti né lo Stato erano veicoli di liberazione anticapitalista, ma il sindacato stesso, e per giunta «dal basso», togliendo importanza ai vertici confederali. Esso da «organismo di resistenza» doveva divenire «responsabile della produzione e della distribuzione, base della riorganizzazione sociale».

Nella scissione grande impatto ebbe che il leader di lungo corso Jouhaux aveva condotto la Cgt ad appoggiare il «sacro» sforzo bellico ’14-’18 anziché avversarlo, rinnegando l’antimilitarismo anarco-sindacalista. La Cgtu aderì poi all’Internazionale Sindacale Rossa, costituitasi nel 1921, emanazione del ‘17, nonostante i dettami assai rigidi di Mosca, nonché l’impulso di Lenin a rimanere nei vecchi sindacati per esercitarvi influsso bolscevico. Nonostante le differenze fra dottrina del partito-guida e autonomia «delle lotte» tipica dell’anarco-sindacalismo, la Isr eserciterà forte attrazione sui sindacati avversi alla ricostituita iniziativa socialdemocratica, che risorgeva dalle ceneri della Seconda internazionale anche in campo sindacale ad Amsterdam. All’Isr si interessò infatti anche Borghi, leader della nostra Usi, che però lasciò Mosca poco convinto.

NELLA CGTU, invece, militarono diverse tendenze, adattandosi al periodo dell’estrema sclerosi staliniana («socialfascismo» e «classe contro classe») per poi tornare però dal 1934, sull’onda di lotte generate dalla crisi mondiale post ‘29, verso la ri-confluenza nella Cgt, decisa nel 1936.

Con questa contestualizzazione parte l’amplissima ricerca di Meriggi sull’attività Cgtu presso i lavoratori stranieri. Dal suo studio della rivista Vie Ouvrière emerge nettamente che, anziché condannare la manodopera straniera perché essendo sottopagata deprimeva i salari francesi, ci si impegnava a organizzare tutta quella non sindacalizzata che gli emissari del capitalismo tendevano a reclutare ovunque. Il principio era: «meglio lavorare a fianco di un operaio straniero sindacalizzato che… di un francese non organizzato». Particolare sensibilità era mostrata dagli edili, più esposti alle manovre padronali in proposito (anche oggi nel sindacato edile svedese Byggnads un terzo degli iscritti vota l’estrema destra).

La Cgtu cercò di prevenire la xenofobia opponendosi ad esempio a che 300mila lavoratori immigrati fossero chiamati a rimpiazzare altrettanti francesi sindacalizzati, e sottolineando però: «non ci si può accusare di nazionalismo!». La Cgtu anzi cercò d’integrare gli stranieri specie nelle fasi di lotta, da cui selezionare leader delle diverse nazionalità per ottenerne ulteriore reclutamento. Ma operò anche intensamente con la Isr come ambito di sensibilizzazione e collaborazione coi sindacati dei paesi d’emigrazione. La Isr peraltro era, fin nelle terre coloniali d’origine, protesa a sensibilizzare i migranti in senso anti-imperialista. Così la Francia, sia colonialista, sia «mercato del lavoro plurinazionale come gli Usa», sia (con la Germania fino al ’32) unico paese con rilevante presenza comunista costituzionalmente permessa, era strategica.

DA CUI L’IMPORTANZA di questo studio sulla Cgtu, che persino negli anni più stalinisti si ritenne internazionalista agendo, secondo sempre i dettami di Amiens, «al di là di ogni scuola politica» per «tutti i lavoratori» disposti a «lottare per la scomparsa dei salariati e del padronato». Da cui la convinzione e l’ambizione Cgtu di essere «unitari», cioè apostoli del «fronte unico dal basso»: un’unità generata e decisa dai sindacati di categoria, anche quelli autonomi, e dalle lotte, non dalle confederazioni e tantomeno dai partiti.

Come si può intuire, determinatasi la scissione dalla Cgt si trattò di far convivere tali culture con la disciplina bolscevica, opera in cui fu determinante Lozovsky, prestigioso rivoluzionario russo già emigrato in Francia che magnificò oltremisura (infondatamente) il peso dei soviet in Urss. La Cgtu creò strutture dedicate alla manodopera straniera e coloniale (la Moe, da Main-d’œuvre immigrée, e la Moc, per le colonie) che meticolosamente relazionavano a Mosca per averne collaborazione internazionalista.

Così, il volume veicola una gran mole di conoscenze: Moe e Cgtu diffondono pubblicazioni nelle molte lingue d’immigrazione, con tirature che vanno nel 1930 dalle 15mila unità per la numerosa e politicizzata comunità italiana alle 4000 per la comunità Yiddish. Le pubblicazioni, sussidiate da Cgtu (e spesso dal Partito comunista) per tenere bassi i prezzi, sebbene in crescita non furono risolutive. Lo evidenziano i dati dei Comitati intersindacali nazionali, cui per esempio aderivano 10mila italiani iscritti Cgtu su una comunità di 550mila. I dati di altre nazionalità non erano maggiori, anche se certo nel caso italiano conta il carisma di Buozzi, esiliato operante per la Cgt, e infatti investito dal risentimento della Cgtu.

I rapporti della Moe alla Isr evidenziano queste difficoltà ad epandersi: la repressione mediante rimpatri che colpisce gli immigrati Cgtu, la Cgt rafforzata anche dalla collaborazione con le istituzioni pubbliche del mercato del lavoro e l’organizzazione esile (fin d’allora e in generale) del sindacalismo francese che non offre basi per vere espansioni nell’immigrazione. Colpisce però che l’ideologia anti-statalista giunga al rifiuto (anarco-sindacalista più ancora che comunista) verso i piani pubblici per l’occupazione, che altrove notoriamente contrastarono la drammatica crisi, innescando pluridecennali egemonie del sindacato e del socialismo democratico.

EMERGE COSÌ il materiale per comparare tre fondamentali culture del movimento socialista e comunista: il socialismo democratico che mediante l’intervento e la regolazione pubblica rinforza la classe sindacalizzata, ottenendo una parità sia verso il capitale sia verso il partito di riferimento che diverrà egemonica. Il comunismo con il suo primato «semplice» della politica, in cui il sindacato serve soprattutto per lotte dirette dal partito e reclutamento. E l’autonoma azione diretta «della classe nel sindacato», che più tardo in Francia tenderà all’«autogestione». Proprio perché il libro permette di “cogliere meglio le culture sindacali” della Cgtu, esso conduce a verificare e completare definizioni utili a comprendere il movimento operaio nelle sue varianti storiche.


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