Di Lello ricorda Falcone: «Non lo capii quando andò a Roma, ma aveva ragione»

Di Lello ricorda Falcone: «Non lo capii quando andò a Roma, ma aveva ragione»

23 MAGGIO 1992, TRENT’ANNI DALL’ATTENTATO DI CAPACI. Intervista al giudice Giuseppe Di Lello che ha lavorato con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel pool antimafia, prima con Chinnici e poi con Caponnetto. Il ricordo degli anni di lavoro insieme, dell’amicizia e dei dissensi sulla decisione di lasciare Palermo e andare al ministero a Roma con Martelli. Peppino Di Lello è stato parlamentare di Rifondazione Comunista. 

di Andrea Fabozzi

«Quando Giovanni Falcone arriva a Palermo per occuparsi di civile e fallimentare, come aveva fatto a Trapani, io ero già all’Ufficio Istruzione di Rocco Chinnici, ci siamo conosciuti lì. Per me non era stato facile arrivarci, avevo fatto domanda ma ero già conosciuto come “toga rossa”, anche se allora non si chiamavano così, e il Csm preferì assegnare solo uno dei due posti per quell’ufficio, dandolo a Giovanni Barrile, pur di non mandarci me. Solo dopo una lettera di protesta che scrissi su suggerimento del procuratore Gaetano Costa la mia domanda fu accolta».

Giuseppe Di Lello, abruzzese, si è trasferito in Sicilia oltre cinquant’anni fa, primo incarico alla pretura di Alia. A trent’anni dalla strage di Capaci, è un testimone straordinario della storia del pool antimafia in cui ha lavorato con Falcone, e prima dell’esperienza del gruppo di magistrati attorno a Rocco Chinnici.

Come si lavorava con Chinnici?

L’ufficio istruzione era enorme. Chinnici non costituisce un vero pool antimafia, ma comincia a concentrare i processi di mafia assegnandoli a pochi giudici. Era un embrione del pool, lavoravamo fianco a fianco, ma non ancora assieme. Neanche Falcone e Borsellino lavoravano assieme. Chinnici diede impulso alle prime indagini bancarie. Prima erano considerate una perdita di tempo, anche se già allora il segreto bancario non era opponibile agli inquirenti. Falcone, grazie anche alla sua esperienza nel civile e nel fallimentare, in questo campo era implacabile. Ma all’epoca non c’erano i computer né i telefonini ed era molto più difficile seguire le tracce, io avevo un armadio pieno di assegni sequestrati.

Chinnici viene fatto saltare in aria il 29 luglio del 1983. Che ricordo hai di quella strage?

Il ricordo di un sopravvissuto. Con Chinnici condividevamo la macchina, allora non c’erano tanti uomini di scorta, si può dire che le vere misure di protezione sono arrivate dopo la strage di via D’Amelio. Di solito il maresciallo dei Carabinieri Mario Trapassi passava a prendere prima me e poi Chinnici, quella mattina io ero ansioso di andare in ufficio perché dovevo chiudere delle cose prima di partire per le ferie. Ma mia moglie era incinta di mio figlio e non stava bene, la nostra collaboratrice domestica tardava e allora io per aspettarla uscii più tardi. Sentimmo il botto dell’autobomba che eravamo in salotto.

Nello scoppio morì anche Trapassi. Dopo Chinnici a guidare l’ufficio istruzione arrivò Antonino Caponnetto. Voi giudici antimafia come prendeste la notizia della sua nomina? Lo conoscevate?

Per niente, non sapevamo chi fosse. Chiesi a un mio amico fiorentino e mi disse di stare tranquillo, Caponnetto era uno che conosceva il codice a memoria. Quando arrivò immediatamente ci propose di formare un gruppo di giudici che si sarebbero occupati di mafia. Falcone, Borsellino, Leonardo Guarnotta e io. Del resto il filone di tanti delitti, non solo degli omicidi ma anche delle rapine, era unico, era la mafia. Avere una lettura complessiva avrebbe aiutato. Una delle prime cose che facemmo fu ottenere dalla Guardia di Finanza un gruppo di finanzieri molto bravi distaccato presso i nostri uffici. Li guidava il capitano Ignazio Gibilaro (oggi generale comandante per l’Italia meridionale, ndr), stavano in una stanza accanto alle nostre e dalla mattina alla sera facevano le indagini sui conti correnti. Finì così la pratica burocratica di mandare le richieste al comando e aspettare per mesi la risposta.

Voi del pool cosa avete saputo della decisione di Tommaso Buscetta di collaborare? Quando Falcone partì per il Brasile vi informò di tutto?

Certo, condividevamo ogni informazione. Falcone fu molto bravo, quando Buscetta in Brasile fece un’allusione al tempo infinito che ci sarebbe voluto se avesse deciso di parlare. Giovanni capì subito che non stava parlando in astratto. Riuscimmo a ottenere l’estradizione in Italia, mentre Badalamenti se lo presero gli americani. Gianni De Gennaro, allora capo del nucleo centrale anticrime, prese Buscetta in custodia direttamente presso la questura di Roma a San Vitale e lì, a due passi dal Quirinale, andava da Palermo una o due volte a settimana Giovanni Falcone con il pm Vincenzo Geraci a interrogarlo. Buscetta parlava e Falcone verbalizzava a mano, con la sua bellissima grafia, il mafioso si fidava del magistrato che del resto ne capiva tutte le sfumature. Quando tornava a Palermo, Falcone faceva qualche fotocopia dei suoi appunti e le distribuiva a noi del pool e alla polizia giudiziaria, a Ninni Cassarà, perché le leggessimo, poi si preoccupava anche di ritirarle. Buscetta ha parlato per mesi e sui giornali non è mai uscito nulla, lo rivendico come un tratto di serietà del pool. Neanche si sapeva che stesse parlando. A un certo punto la mafia se ne accorse perché non era in nessun carcere, avemmo la sensazione che la notizia stesse per trapelare e così decidemmo di chiudere il lavoro in una notte. Quella sera ero andato a cena fuori e poi a letto a dormire, mi svegliò Borsellino dicendomi che c’era una macchina che stava venendo a prendermi per portarmi in ufficio a firmare le ordinanze, da qui è nata la leggenda per la quale sarei arrivato in tribunale in pigiama ma non è vero niente, ero vestitissimo. Nelle caserme erano già pronti i carabinieri, la polizia e la finanza, Palermo fu chiusa ermeticamente e nessuno dei 366 mandati di cattura andò a vuoto.

Era quella la maxi inchiesta che portò al primo storico maxi processo, un’altra leggenda vuole che l’atto d’accusa lo scrissero Falcone e Borsellino all’Asinara.

Premessa: malgrado tutti noi fossimo giudici istruttori senza vincolo di gerarchia, riconoscevamo che il capo era Falcone. Detto questo il provvedimento finale riempiva una quarantina di volumi: materialmente non avrebbero potuto scriverlo in due. Lo scrivemmo anche Guarnotta ed io, in particolare io mi sono occupato di tutti gli omicidi singoli, Caponnetto rileggeva e correggeva. Falcone e Borsellino furono portati per un periodo limitato all’Asinara perché era arrivata la segnalazione di un pericolo imminente. Mi ricordo che un fine settimana andammo a trovarli Giuseppe Ayala e io, Ayala secondo il vecchio codice sarebbe stato poi il pm di udienza. Questa fu un’altra intuizione di Falcone: avere sempre lo stesso pm di riferimento in modo che conoscesse il processo alla perfezione. Fu un fine settimana di lavoro, ma anche di relax al mare, ne ho un ricordo molto bello.

Diresti che eravate amici?

Lo eravamo. Condividevamo una vita blindata, tra di noi si parlava sempre del processo e chi occasionalmente stava con noi rapidamente si annoiava. C’era il problema della sicurezza, per cui dopo il lavoro non andavamo al ristorante ma più o meno a turno a casa dell’uno o dell’altro, con i familiari che così si conobbero anche loro.

Mi racconti la vostra routine di lavoro in ufficio?

In genere al mattino stavamo ognuno dietro le sue pratiche, chi andava all’Ucciardone per raccogliere testimonianze, chi restava in ufficio a scrivere. Poi nel pomeriggio ci riunivamo nella stanza di Falcone e si lavorava insieme, si scambiavano le informazioni, si rileggevano e correggevano gli atti. Avevamo un armadio di ferro nel quale nascondevamo una bottiglia di whisky, Giovanni a un certo punto ci fermava e a metà pomeriggio ci facevamo un bicchiere insieme, tranne Guarnotta che è astemio.

Arriviamo al 1988, quando il Csm scelse Antonino Meli al posto di Falcone per guidare l’ufficio istruzione. Tu facevi parte di Magistratura democratica che, in maggioranza, votò per Meli. Che ricordo hai di quel passaggio che amareggiò moltissimo Falcone?

Prima del voto al Csm, Md riunì il consiglio nazionale a Roma, nella biblioteca della Corte d’appello. Di abitudine non parlavamo mai delle nomine in quelle riunioni, ma di politica giudiziaria, quella volta invece si parlò solo di Falcone e Meli. La sezione di Palermo, naturalmente me compreso, faceva il tifo per Falcone. Ricordo anche un intervento di Francesco Misiani, che era stato a Palermo, in favore di Falcone. Invece fecero capire che, per l’anzianità, andava preferito Meli sia Pino Borrè che Elena Paciotti, che erano al Csm e infatti votarono contro Falcone. Due voti decisivi, mentre il terzo consigliere di Md, Giancarlo Caselli, votò per Falcone. A Palermo eravamo distrutti, non sapevamo come spiegare che due dei nostri avevano votato contro Giovanni. Anche perché Caponnetto aveva chiesto il trasferimento convinto che il suo posto sarebbe andato a Falcone.

E come andò con Meli alla guida dell’ufficio istruzione?

Quando arrivò, la prima cosa che disse fu che Cosa nostra non era poi così unitaria da giustificare il fatto che tutti i processi si tenessero a Palermo. I processi andavano smembrati e rimandati nelle varie sedi di competenza. Meli però non aveva la competenza necessaria, chiese allora a Falcone e a tutti noi del pool di dargli una mano. Di aiutarlo a fare a pezzi quello che avevamo unito. Io e Giacomo Conte dicemmo di no, non ci stiamo. Lasciammo il pool pur restando nell’ufficio istruzione. Giovanni invece decise di collaborare con Meli, lui era fatto così, non voleva polemiche e soprattutto non voleva correre il rischio di essere anti istituzionale. L’unica volta che fece domanda di trasferimento per polemica la ritirò subito. Falcone era innanzitutto un uomo delle istituzioni. Ci fu amarezza tra noi, ma non litigammo. Ce ne andammo senza sbattere la porta.

Per Falcone cominciò allora un periodo difficile, buio. Il fallito attentato all’Addaura, gli attacchi dell’antimafia militante.

A quell’epoca andò in pensione anche Vincenzo Pajno, il procuratore della Repubblica con il quale avevamo lavorato molto bene. Al suo posto arrivò Pietro Giammanco e Falcone, con il nuovo codice, andò a fare il procuratore aggiunto. La prima cosa che gli disse Giammanco fu che i rapporti internazionali, fondamentali nelle indagini su Cosa nostra, li avrebbe tenuti lui in quanto capo dell’ufficio. Poco alla volta tolsero molti procedimenti a Giovanni, mi ricordo che molto presto cominciò a pensare di andarsene. Spesso quando arrivava la mattina in ufficio mi faceva chiamare dalla segretaria, la signora Barbara Sanso. Lui aveva una moka in ufficio, ci prendevamo il caffè e mi chiedeva: “Secondo te che devo fare?”. “Te ne devi andare”, rispondevo io, “perché sei la foglia di fico della procura, non fanno niente e dicono che hanno Falcone”. Ma non sto sostenendo che decise di andarsene perché gliel’ho detto io. Anche perché se ne andò da Martelli.

Nel frattempo era stato messo all’indice da Leoluca Orlando, Alfredo Galasso e altri che lo accusavano di nascondere «nei cassetti» le prove dei mandanti degli omicidi eccellenti.

Questi personaggi, reduci da un buon successo elettorale con la Rete, si sentivano l’unico baluardo contro la mafia. Erano convinti che la magistratura dovesse arrestare mezzo mondo, non sapendo che Falcone era uno che si muoveva sempre con i piedi di piombo perché considerava inutile arrestare qualcuno avendo la certezza di doverlo scarcerare. Ricordo che quando venne fuori un presunto pentito, un certo Pellegriti che sosteneva di conoscere i mandanti dell’omicidio di Piersanti Mattarella, Falcone lo fece arrestare per calunnia. L’antimafia militante lo accusò di aver fatto un favore a Salvo Lima e ad Andreotti, misero in giro che c’era stato un colloquio telefonico tra Falcone e Andreotti. Naturalmente aveva ragione Falcone, ma l’amarezza che provò per questi attacchi ha senz’altro avuto un peso nello spingerlo a lasciare Palermo. Aveva scoperto di avere contro un pezzo della città che contava.

Bocciato dal Csm, attaccato dall’antimafia militante, messo ai margini in procura, consigliato – anche da te – di andare via, Falcone accetta l’incarico che gli offriva il ministro della giustizia. Ma tu ugualmente non la prendesti bene.

Certo, perché andava da Martelli! Martelli era partecipe del Caf, il patto Craxi-Andreotti-Forlani. E il Psi era sparato contro i giudici di Palermo e il pool antimafia. Molti di noi ci restarono malissimo e glielo fecero sapere. In definitiva eravamo noi un po’ stupidi, Falcone aveva capito benissimo che Martelli gli stava affidando un incarico fondamentale. Direttore degli affari penali, era un secondo ministro per il penale. Giovanni pensava che da quel posto avrebbe potuto fare qualcosa di buono e infatti lo fece, subito. Il maxi processo stava per arrivare in Cassazione e lui dispose una ricognizione sull’assegnazione dei processi. Corrado Carnevale, il giudice noto come «ammazza sentenze», si spaventò e si ritirò, non volle presiedere quel collegio e la Cassazione confermò le condanne.

Fatto sta che quando accetta l’offerta di Martelli per la seconda volta in poco tempo non siete d’accordo. Avete discusso, litigato? Com’è cambiato il rapporto tra voi?

Non abbiamo litigato. Il rapporto tra noi è diventato assai meno forte solo perché abbiamo smesso di frequentarci. Lui era a Roma e io a Palermo, le occasioni di vederci sono diventate pochissime. Ci siamo incontrati in qualche cena, mi pare, avevamo alle spalle tanti anni di vita in comune e la stima era rimasta intatta.

Eppure quando, poco dopo, dal ministero proprio lui si inventò la procura nazionale antimafia, l’Anm reagì con lo sciopero e molti magistrati, te compreso, firmarono un documento di pesante critica.

La nostra era una preoccupazione garantista. In generale il doppio binario mafia – criminalità comune ci piaceva poco. Inoltre contrastavamo l’idea che si potessero creare procuratori di serie A e di serie B. Temevamo la gerarchizzazione dell’ufficio del pm. Anche io avevo questa preoccupazione, lo riconosco. Poi la procura nazionale ha avuto una sua evoluzione, ora è ben inserita nel sistema.

Ti ricordi dov’eri il 23 maggio di trent’anni fa quando ti diedero la notizia della strage di Capaci?

Ero a casa mia, era un sabato. Avevo appena finito di fare una lunga conversazione telefonica con Alfredo Morvillo, il fratello della moglie di Giovanni, Francesca, ammazzata anche lei a Capaci. Con Alfredo dovevamo prendere accordi per un processo che ci sarebbe stato il lunedì successivo, io ero il gip e lui il pm. Neanche il tempo di attaccare con lui che mi chiama mia moglie e mi dice di accendere la televisione.

Qual è l’eredità più importante di Falcone nella lotta alla mafia, secondo te?

Il metodo d’indagine, non c’è dubbio. Da lui in poi si è cominciato a indagare seriamente e professionalmente sulle organizzazioni criminali, da lui in poi non ci sono stati più alibi. Giovanni ha dimostrato che per indagare sulla mafia bisognava saper entrare nei segreti delle banche, dei consigli di amministrazione, delle camere di commercio ma anche incrociare le prove, cercare i riscontri E comunque stabilire rapporti di collaborazione con gli inquirenti di altri paesi e soprattutto con l’Fbi.

Proprio Alfredo Morvillo ha detto di recente che Falcone e Borsellino sono morti invano, visto che due condannati con sentenza definitiva per reati mafiosi oggi orientano la politica siciliana.

È grave che Cuffaro e Dell’Utri stiano ridisegnano la mappa politica della Sicilia proprio nel trentennale delle stragi ed è anche la prova provata per tutti i giustizialisti di ieri e di oggi che la magistratura non può risanare la società. Può e deve perseguire i reati, ma non può cambiare la politica. L’analisi di Morvillo la condivido, però Giovanni e Paolo e tutti gli altri non sono certo morti invano. Negli anni 80 a Palermo c’erano più di cento morti ammazzati ogni anno. Ora non è più così, la mafia armata è tutta all’ergastolo. La mafia siciliana è molto debole, anche nei quartieri di Palermo. Non così la camorra e soprattutto la ‘ndrangheta.

Cade quest’anno anche il quarantennale della legge Rognoni-La Torre.

Una legge fondamentale, naturalmente. Soprattutto per le prime misure patrimoniali contro Cosa nostra. Ma lasciami ricordare con un po’ di orgoglio anche un’altra legge, complementare alla Rognoni-La Torre, quella sulla destinazione sociale dei beni confiscati alla mafia che ho scritto io quando ero deputato del gruppo dei Progressisti e che è stata approvata nel 1996 anche grazie alla mobilitazione promossa da Libera.

fonte: il manifesto

 


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