Un esercito europeo per la guerra mondiale? Appunti per un dibattito urgente.

Un esercito europeo per la guerra mondiale? Appunti per un dibattito urgente.

 

Gregorio Piccin*

La guerra in corso in Ucraina rappresenta un nuovo spartiacque. Non sarà questa guerra in sé ad aprire una nuova fase negli assetti globali ma di certo rappresenta il punto di arrivo di una traiettoria. Per il governo russo questa rappresenta sia una chiara e rischiosa affermazione di potenza, copia-incolla su scala minore delle guerre scatenate dal blocco euro-atlantico, sia una “risposta” alle incontrovertibili provocazioni suscitate dall’espansione della Nato verso est. L’invasione russa dell’Ucraina è una palese violazione del diritto internazionale che si inserisce in una consolidata “abitudine”. Il diritto internazionale è stato infatti sistematicamente fatto a pezzi, al pari del ruolo dell’ONU e della stessa OSCE, in trent’anni di pretestuosa belligeranza euro-atlantica (Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria).

Lo scorso 21 marzo delegazioni politico-militari dei governi Ue si sono incontrate a Bruxelles per rilanciare la difesa europea incentrata sulla così detta “Bussola strategica”. Ecco alcuni stralci del documento che è stato discusso ed approvato:

“…Viviamo in un’epoca di competizione strategica e di complesse minacce alla sicurezza. Nel nostro vicinato e oltre assistiamo a un aumento dei conflitti, degli atti di aggressione e delle fonti di instabilità, oltre che a un incremento delle forze militari, che causano gravi sofferenze umanitarie e sfollamenti. Aumentano anche le minacce ibride, sia in termini di frequenza che di impatto. L’interdipendenza è sempre più improntata alla conflittualità e il soft power è trasformato in un’arma: i vaccini, i dati e gli standard tecnologici sono tutti strumenti di competizione politica. L’accesso all’alto mare, allo spazio extra-atmosferico e alla dimensione digitale è sempre più conteso. Ci troviamo ad affrontare crescenti tentativi di coercizione economica ed energetica. Inoltre i conflitti e l’instabilità sono spesso aggravati dai cambiamenti climatici che agiscono da “moltiplicatore della minaccia

(…)

Un’UE più forte e capace nel settore della sicurezza e della difesa contribuirà positivamente alla sicurezza globale e transatlantica ed è complementare alla NATO, che resta il fondamento della difesa collettiva per i suoi membri (…)

Con la crisi del multilateralismo si osservano sempre più spesso relazioni transazionali tra Stati. Lo spettro delle minacce è oggi più diversificato e imprevedibile. I cambiamenti climatici agiscono da “moltiplicatore della minaccia” e ci riguardano tutti. Dopo trent’anni di forte interdipendenza economica, che avrebbe dovuto ridurre le tensioni, il ritorno alla politica di potenza e persino all’aggressione armata rappresenta il cambiamento più significativo intervenuto nelle relazioni internazionali (…)

L’attuale realtà internazionale è basata sulla combinazione di dinamiche caratterizzate da un numero crescente di attori che cercano di ampliare il proprio spazio politico e di sfidare l’ordine di sicurezza…”

https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-7371-2022-INIT/it/pdf?fbclid=IwAR1mNG-L5fhznrSIz68qwW6uDd10id11JzAhxa6J3YnXx4amlOdqtYXlqAs

 

In questo documento ci si riferisce ad aggressioni, violazioni delle regole internazionali, politiche di potenza che accompagnano la rivendicazione di sfere d’interessi, riarmo e corsa agli armamenti da cui l’Europa sarebbe minacciata e quindi messa nelle condizioni di dovere “reagire” riarmandosi e serrando i ranghi atlantici. Attraverso questo capovolgimento della realtà (lo vedremo numeri alla mano) vengono cancellate pretestuosamente tutte le comprovate responsabilità del blocco euro-atlantico nell’ultimo trentennio in quanto ad aggressioni militari, guerre economiche e sanzioni. Dal punto di vista della politica internazionale, ma anche da un punto di vista psicanalitico, potremmo definire questo approccio dell’occidente come “autismo suprematista”. Questo approccio agisce come una calamita posta sotto alla bussola rendendola completamente sballata. 

Il fatto che l’aggressione russa all’Ucraina sia presa come “scusa” per il riarmo anche europeo non cancella l’evidenza che questo stesso riarmo (con annessa concreta belligeranza) sia già in corso da decenni.

Dopo la fine della guerra fredda, momento storico davvero propizio per una concreta politica di disarmo, gli Stati uniti hanno invece rilanciato la loro struttura militare planetaria e la loro leadership nella Nato.

Questa struttura militare globale è stata immediatamente imposta come piattaforma di proiezione, standard organizzativo e standard industriale dove la capacità di “proiezione” è corrisposta ad uno stato di guerra permanente, lo standard operativo è corrisposto alla richiesta ed ottenuta professionalizzazione delle ff.aa alleate e lo “standard industriale” ha comportato lo sviluppo della tecnologia di punta, il rilancio della corsa agli armamenti e il salvataggio dei fatturati del comparto messi in crisi dalla sopraggiunta fine della guerra fredda.

Secondo il Sipri di Stoccolma l’80,4% nella produzione di armi e sistemi d’arma a livello globale, con annessa internazionalizzazione della filiera bellica, è controllato da multinazionali del blocco euroatlantico e dai suoi impresentabili alleati (tra cui Turchia, Israele, Emirati Arabi). I 35 miliardi per la “difesa” messi a disposizione dall’Italia si sommano ai 100 miliardi recentemente stanziati dalla Germania e non faranno altro che confermare ed accrescere il dato del Sipri. Senza considerare che già ora i soli budget della “Difesa” francese e tedesco sono quasi il doppio di quello russo e che la spesa Nato è 18 volte superiore.

Con queste evidenze appare chiaro che la responsabilità per la corsa agli armamenti degli ultimi trent’anni e la conseguente “guerra mondiale a pezzi” con la sua scia di milioni di morti, profughi e devastazioni ricade quasi esclusivamente sull’occidente e sulle proprie oligarchie.

Queste oligarchie, che si fondano storicamente sulla superiorità militare e finanziaria, da qualche tempo intravvedono una clamorosa perdita di potere a causa della stessa globalizzazione capitalista che hanno tenacemente spinto e di cui hanno sempre goduto da una posizione dominante. Una nuova divisione del mondo in blocchi (non più ideologici, anche se questa è la narrazione posticcia) sembra essere l’opzione maggioritaria oggi percorsa dalle oligarchie euroatlantiche con importanti propaggini ed alleanze nel quadrante asiatico in funzione apertamente anti cinese.

Ma questo processo non lineare e contraddittorio, che comporterà la ridefinizione delle catene di approvvigionamento e della divisione internazionale del lavoro sarà doloroso e incerto ed in parte dipenderà anche dagli esiti del conflitto in Ucraina.

Da un lato l’interdipendenza che il capitalismo stesso ha creato e ampliato sin dalle sue origini, dall’altro le recenti votazioni all’Onu sulla questione ucraina e l’affacciarsi di nuovi sistemi di scambio valutario/finanziario nell’area euroasiatica, dimostrano ancora una volta che il mondo e la così detta comunità internazionale non si risolvono nel blocco euroatlantico…

L’unica certezza è che, come sempre, a pagare il prezzo di questa ristrutturazione saranno le classi lavoratrici intese in senso lato ed anche pezzi importanti del tessuto delle PMI che verranno spazzate via o assorbite e rimodulate dai processi di concentrazione capitalistica tipici di ogni crisi.

Il riarmo, apparentemente inutile vista la già straripante e documentabile supremazia euro-atlantica, assume in questo quadro contorni inquietanti.

Esso infatti sta accompagnando una ribalta dei nazionalismi, delle politiche di potenza e parallelamente un approfondimento della chiusura degli spazi multilaterali dove affrontare i grandi problemi dell’umanità: disuguaglianze, fame, cambiamento climatico. 

Il riarmo europeo in particolare sembra rivolto non tanto alla “difesa” dalla Russia (o di altre non meglio precisate minacce ibride) ma all’accompagnamento di una politica di potenza interna alla NATO nel quadro di un approfondimento dello scomposto neocolonialismo europeo verso le tradizionali aree di conquista: Africa, Medio Oriente, America Latina e parte dell’Asia. Una prospettiva che ricorda molto i prodromi della prima guerra mondiale. Ma oggi, con la variante nucleare.

Tutto ciò appare come un vicolo cieco, in un mondo multipolare “controllato” da superpotenze, medie potenze, piccole potenze sulla pelle della maggior parte degli esseri umani e sconvolgendo il clima dello stesso pianeta che ci ospita. Eppure le variabili in gioco sono molteplici a cominciare dalla stessa composizione del capitalismo che non è un monolite ma è attraversato spesso da interessi divergenti anche all’interno dei singoli “sistemi-Paese”.

Ci sono frazioni di capitale, generalmente grande capitale, interessate alla belligeranza permanente e all’estrattivismo predatorio mentre ci sono frazioni di capitale meno rappresentate politicamente ma oggettivamente interessate alla stabilità delle relazioni internazionali ed alla conversione energetica. Se si parla di “Europa” ma soprattutto di un’altra Europa risulta allora necessario entrare nel merito di queste relazioni materiali, facendo anche i conti con le interdipendenze globali.

Gli Stati continuano ad essere soggetti operanti delle relazioni internazionali.

Nella grande maggioranza dei casi sono sempre più espressione univoca  degli interessi oligarchici (interni od esterni), stanno rapidamente dismettendo la loro funzione regolatrice per concentrarsi sulla funzione repressiva interna e di proiezione militare verso l’esterno in piena sintonia con la natura stessa del capitalismo storicamente inteso. Un trasversale ceto politico di centro-destra-sinistra (+ tecnici) si è fatto garante di questo processo post ’89.

Lo stesso schema neocolonialista, in sintesi, rappresenta la versione aggiornata e perfezionata del colonialismo e dell’imperialismo novecenteschi: multinazionali di bandiera e grandi banche > ricerca scientifica e tecnologica > professionalizzazione delle forze armate e proiezione militare> controllo dei mercati, della forza lavoro e delle materie prime.

L’asse militare franco-tedesco.

Nel 2017 Germania, Repubblica Ceca e Romania hanno annunciato, decisamente in sordina, l’avvio di un programma di radicale integrazione militare. L’81^ Brigata meccanizzata romena e la 4^ Brigata di fanteria ceca (già dispiegate in Kosovo, Afghanistan, Iraq e Bosnia Erzegovina) sono entrate a far parte di due grandi unità tedesche: la 10^ Divisione corazzata e la Divisione di Reazione Rapida. Il comando viene esercitato dalla Germania e la lingua che si utilizza è l’inglese e forse non a caso visto che l’annuncio di questa operazione (gennaio 2017) è stato fatto dai ministri della difesa dei tre Paesi con la presenza di Camille Grand, Assistente alla Segreteria Generale per gli investimenti della difesa della NATO.

La Germania non ha intrapreso un’iniziativa unilaterale ma ha sviluppato il Framework Nations Concept della NATO che invita i piccoli eserciti ad integrarsi in sub-alleanze coordinate, funzionali ed organiche allo stesso Patto atlantico. Qualcosa di molto lontano da un “esercito europeo”.

Il governo tedesco ha colto la palla al balzo: disporre di alcune migliaia di soldati già professionalizzati, compensare la propria capacità di combattimento attraverso il conveniente sharing militare e quindi aumentare il proprio peso in seno alla NATO attraverso una rincorsa ai pesi massimi nucleari del proprio quadrante (Francia e Regno Unito). Ricordiamo che la Germania, come Italia, Turchia, Belgio e Paesi Bassi, partecipa pure al programma “Nuclear sharing” della NATO ossia ospita testate atomiche statunitensi e addestra i suoi piloti al bombardamento nucleare.

Questo processo di espansione delle capacità militari tedesche viene oggi approfondito e sostanziato dall’investimento eccezionale di altri 100 miliardi di euro.

Dall’altra parte dell’asse che domina l’Eurozona abbiamo la Francia. Questo Paese è una media potenza militare con capacità nucleari, con estesi interessi nel continente africano e con conseguenti spiccate capacità di proiezione della forza militare che esercita regolarmente ed in maniera unilaterale. La pretestuosa aggressione alla Libia nel 2011, di cui la Francia fu promotrice e capofila (insieme al Regno unito), è stata un chiaro esempio di quanto questo Paese sia disposto a fare per la “difesa” della propria area di interesse strategico. Nel caso della Libia si è trattato principalmente di neutralizzare il progetto di Gheddafi di mettere in gioco le ingenti riserve auree, il petrolio e il gas libico per costruire una moneta panafricana che potesse insidiare il franco CFA tuttora in uso in 14 Stati sub sahariani, già colonie francesi.

Da parte sua la Francia, oltre alla Bomba, alla sua straripante industria “della difesa” e al potere di veto all’Onu, dispone di basi, avamposti e pezzi di “territorio nazionale” in diversi continenti ed oceani con conseguenti spiccate capacità di proiezione della forza militare. Macron ha ereditato da Hollande il rilancio del protagonismo francese nel continente africano. Parigi intende infatti consolidare la presenza militare in Africa dalla Costa Atlantica fino all’Oceano Indiano, dal Senegal a Gibuti, passando per il Sahel e quindi ricongiungersi con altre basi e avamposti già presenti nei due oceani.
Questa visione strategica espansionista, aggressiva e molto ambiziosa richiede un concorso negli “oneri per la sicurezza” che la Germania offre già da anni. La capacità di proiezione globale (condivisa come piattaforma con gli alleati) offre all’industria bellica francese prospettive senza fine. Il ruolo di capofila richiede però alla Francia (e a tutti i francesi) un forte aumento della spesa militare: con la nuova Legge di Programmazione Militare del 2018 Macron ha stanziato la somma di 295 miliardi di euro in cinque anni, ben 105 miliardi in più rispetto al quinquennio precedente.

L’8 febbraio del 2018, nel presentare la LPM il ministro della difesa Parly ha giustificato questo forte aumento definendolo “…necessario per mantenere l’influenza globale della Francia ed intervenire in ogni luogo del globo in cui vengano minacciati gli interessi della Nazione e la stabilità internazionale…”.Il piano ha l’ambizione di garantire “l’autonomia strategica” nazionale ed “europea”.

E proprio l’Africa, in particolare quella centro-occidentale, sembra essere diventata il terreno di una sorta di una ricomposizione di interessi a livello di alcuni Paesi dell’eurozona.

Da quando il franco francese è scomparso, il CFA è stato infatti agganciato all’euro mantenendo il sistema bancario francese come centro drenante dei capitali provenienti dalla Francafrique. Ma la convertibilità CFA/euro ha portato con sé almeno due conseguenze importanti: la prima è che i Paesi sottoposti a questa sorta di vessazione finanziaria, hanno sviluppato economie dipendenti dalle importazioni dall’Europa con una oggettiva difficoltà a produrre per il mercato interno ed estero e con una capacità d’acquisto della popolazione strutturalmente depressa; la seconda è che la Francia non può più mantenere l’esclusiva su questa partita.

Tutto questo attivismo deriva, così ci viene detto, dalla necessità di fronteggiare terrorismo jihadista e immigrazione. In realtà, sullo sfondo, si muovono accordi commerciali esclusivi, forniture di sistemi d’arma da una parte e materie prime dall’altra, multinazionali di bandiera e soldati che ne garantiscono, certificano ma soprattutto difendono l’esito.

Questo classico schema neocolonialista è il vero centro della così detta “difesa europea – ognuno per sé”, congiuntamente al sostegno diretto al comparto industriale militare made in Europe…Non certo il diritto internazionale, il multilateralismo o l’Onu indicati come contesti di riferimento nella grottesca premessa del protocollo PESCO o della “bussola strategica” approvato lo scorso marzo.

PESCO (Permanent Structured Cooperation) o NATO?

La PESCO (Permanent Structured Cooperation) a cui si riferisce anche la Bussola Strategica, è un programma di cooperazione militare europeo messo in campo nel 2017. Questo protocollo, in concreto, è il prodotto di un compromesso tra Francia e Germania più Spagna e Italia in quanto gruppo di Paesi dell’eurozona più popolosi e rilevanti dal punto di vista militare (operatività e tecnologia) per favorire l’integrazione delle industrie europee della difesa.

In realtà è già diventato il campo di battaglia di suddette industrie per assicurarsi i finanziamenti messi a disposizione dal Fondo Europeo per la Difesa.

Ogni Paese ha infatti le sue minime o estese aree di influenza e relativi interessi, spesso in conflitto o in competizione con quelli degli altri.

Ogni Paese poi ha la sua (più o meno) sviluppata industria nazionale degli armamenti e sue proprie direttici di sviluppo dello strumento militare, direttrici che sono strutturalmente legate all’assorbimento della produzione della propria stessa industria.

E’ vero che esistono scampoli di condivisione e coordinamento in alcuni settori strategici come programmi di acquisizione, tecnologie, industrie, esportazioni, ricerca, missioni internazionali. E’ pur vero che l’80% delle acquisizioni e il 90% dei progetti di ricerca si sviluppano su basi saldamente nazionali e che le missioni internazionali di un certo rilievo ossia le guerre di aggressione e le occupazioni di Paesi terzi a cui anche l’Italia ha partecipato e partecipa sono possibili solo nel quadro delle capacità di proiezione messe a disposizione dagli Stati Uniti.

Il cuore della PESCO è costituito da una lista di 20 punti.

Il primo di questi punti richiede l’aumento del budget da dedicare alle spese militari. A seguire una lista di direttive rispetto alle quote di budget da dedicare alla ricerca e sviluppo di sistemi d’arma sia di interesse “nazionale” che di interesse comunitario.

Solo due dei 20 punti indicati nel protocollo fanno riferimento ad impegni legati a disponibilità e dispiegamento di truppe in un quadro comune.

Si tratta in realtà di un invito ai Paesi che già non lo abbiano fatto di costituire il proprio Battle group (1500 uomini), di renderlo disponibile per esercitazioni congiunte e per il turno semestrale di stand-by nel quadro degli European Battle Groups (ossia due battle group per semestre). Tutto ciò con un esplicito riferimento alla interoperabilità con la NATO.

In sintesi ciò che l’Europa ha messo in campo a partire dal 2005, e che ha confermato con la PESCO, sono al massimo tremila uomini divisi in due Battle group in attesa di essere impiegati in una qualche missione.

Per completare il quadro va detto che in sedici anni di dottrina European Battlegroup nessuna di queste unità è mai stata impiegata in guerra ed anzi qualche annata ha visto persino latitare almeno una delle quote previste…

Questo semplice dato potrebbe far pensare che i Paesi europei (compreso il nostro) siano in realtà pacifici ed abbiano abbandonato le loro pulsioni belligeranti ma la storia degli ultimi vent’anni dimostra che gli stessi Paesi, mentre hanno tenuto parcheggiati a turno i loro soldati nel European Battlegroup, hanno partecipato e continuano a partecipare in ordine sparso a tutte le guerre d’aggressione targate USA/NATO.

Non solo, dal 2002 questi paesi hanno anche trovato le risorse per inquadrare i propri soldati nella NATO Response Force (NRF), una forza di reazione rapida costituita da 20.000 effettivi, pronta per l’impiego e proiettabile in ogni angolo del pianeta in tre giorni.

Esercito europeo?

Riferirsi genericamente ad un esercito europeo nel contesto appena tracciato, come presunto contrappeso alla tracotanza statunitense non ha quindi alcun senso per varie ragioni:

1)   non può esistere un esercito europeo quando di fatto non esiste l’Europa come entità politica. L’Europa è un’aggregazione di Stati che condividono moneta e ideologia neoliberista ma in politica estera ognuno fa per sé. Nessuno, dalla Commissione europea in giù, parla nei fatti di un esercito europeo che comporterebbe peraltro la smobilitazione dei ventisette esistenti in funzione di una riorganizzazione tanto improbabile quanto ingestibile. Già lo scorso anno i socialdemocratici tedeschi avanzarono la proposta del 28° esercito europeo, usando impropriamente questa definizione, per riferirsi ad un corpo di spedizione da 6000 soldati. Non a caso questa è la proposta che è stata accolta, rilanciata e leggermente ridimensionata dalla Commissione europea: quello che si vorrebbe mettere in campo oggi è un corpo di spedizione da 5000 soldati più vari assetti aerei, navali e cyber. Nonostante si parli di un’unità militare che numericamente corrisponde ad una normale brigata non è ancora chiaro chi deciderà del suo impiego, da chi sarà partecipata, comandata, finanziata. Servirà l’unanimità? Deciderà chi ci metterà più soldi? Chi sarà in grado di mettere a disposizione una piattaforma di proiezione che oggi è assicurata dagli Stati uniti e dalla Nato?

2)   Un presunto esercito europeo dovrebbe eliminare tutte le ridondanze dei vari sistemi di difesa nazionali. Dato che i clienti domestici sono i primi garanti dei fatturati delle rispettive industrie belliche di bandiera, quali tra queste rinunceranno alle loro quote di mercato? Già sulla produzione del caccia di sesta generazione gli stessi Paesi promotori della PESCO sono divisi: Francia, Germania e Spagna hanno un loro progetto, Italia e Svezia ne seguono un altro con il Regno Unito.

3)   Nel dibattito interministeriale sulla “difesa europea” e la presunta “autonomia strategica” il funzionamento della “bussola strategica” si dovrebbe fondare sul coordinamento della intelligence community europea, per definire interessi e minacce comuni. E tuttavia, anche in questo caso, i singoli interessi nazionali difficilmente potranno essere ricomposti. Quale sarà infatti l’interesse prevalente che determinerà una “politica di sicurezza”, sarebbe meglio dire di intervento armato, comune?

4)   Un esercito europeo per fare cosa? Se il modello organizzativo è sempre quello professionale e da spedizione, quindi un modello concepito per l’offesa e non per la difesa, appare evidente che il supposto smarcamento dagli Stati Uniti non corrisponde ad una revisione della politica estera dei Paesi europei in senso distensivo e cooperativo ma anzi l’esatto contrario ossia un’aumento dell’autonoma capacità di esprimere militarmente i propri interessi nazionali eventualmente ricomposti ove possibile.

Tutti questi quesiti e le relative risposte che ci possiamo dare dovrebbero essere sufficienti per esprimere un chiaro no all’ipotesi, per quanto fantascientifica, di costituzione di un esercito europeo su queste basi e condizioni. Così come dovrebbe essere espresso, molto più concretamente, un chiaro no anche alla costituzione di questo corpo di spedizione da 5000 soldati “a geometria variabile” che, al netto della sua nebulosa gestione comune, non ha nulla a che fare con la “difesa” da improbabili aggressioni.

Faccio presente che oltre alla NATO Response Force da 20.000 effettivi esiste già una brigata franco-tedesca da 5000 effettivi che fornisce soldati ed assetti alla stessa NRF ed ha partecipato a diverse missioni tra cui Bosnia, Afghanistan e Mali. La cooperazione bilaterale in campo militare che questa unità rappresenta è stata rafforzata col trattato di Aquisgrana sottoscritto dai due Paesi nel 2019.

Il dibattito sul “che fare” in questo campo potrebbe quindi muoversi su due binari, uno teorico e uno contingente. Da una parte entrare nel merito dei concetti di “difesa”, sicurezza”, “interesse nazionale” rideterminandone il senso dal punto di vista delle classi lavoratrici e demolendo le millanterie belliciste delle narrazioni ufficiali. Dall’altra considerare il peso del trattato di Aquisgrana, delle nuove e vecchie faglie di scontro globale e dell’intenzione dei governi francese e tedesco di fare, in questo contesto, da capofila di un rinnovato assetto belligerante e neocolonialista continentale.

Quale modello di difesa?

L’Italia in tutto questo è tredicesima nella top ten mondiale dei produttori di armi e sistemi d’arma e undicesima nella classifica della spesa militare globale. E’ seconda dopo gli Stati uniti, per presenza di effettivi ed asseti inviati nelle varie missioni dell’Alleanza (il nostro Paese sta per assumere il comando della missione NATO in Iraq ed ha già schierato assetti e soldati in Sahel al fianco delle truppe francesi),

L’Italia è il quinto avamposto militare statunitense nel mondo: le basi di Aviano e Ghedi custodiscono le atomiche mentre i piloti militari vengono addestrati al bombardamento nucleare grazie al programma NATO di nuclear sharing. A Ghedi in particolare sono in corso lavori di ampliamento per ospitare le nuove bombe atomiche dagli Stati uniti. Camp Darby a Pisa è la prima polveriera statunitense al di fuori dei confini della madre patria e anche qui sono in corso lavori di ampliamento per rafforzare il collegamento della polveriera col porto di Livorno,

I nostri stessi porti sono al centro del traffico di armamenti verso Mediterraneo, Medio oriente e non solo,

Sempre a proposito di porti siamo il porto sicuro della sesta flotta statunitense ed ospitiamo a Napoli il comando europeo della marina militare statunitense,

Poi c’è Sigonella coi droni e anche qui lavori di ampliamento per permettere decollo e atterraggio di aerei cisterna, poi Il Muos di Niscemi, fondamentale per le comunicazioni militari degli Stati uniti a livello globale,

Solo nei due anni di pandemia, col ministro della difesa Guerini (PD) prima con Conte Bis ora con Draghi, i governi hanno avviato programmi di acquisizione per sommergibili, mezzi corazzati, elicotteri, altri F35, missili tomahawk con cui armare fregate e sommergibili, missili con cui armare i droni, droni kamikaze da dare in dotazione alle forze speciali.

Le spese militari coerentemente con questo delirio guerrafondaio hanno raggiunto i 70/80 milioni di euro al giorno e sono in aumento per raggiungere il famoso 2% del pil richiesto dalla Nato.

Sempre grazie a Guerini è stata introdotta la norma Government to Government che ha formalmente trasformato il ministero della difesa in agente di commercio dell’industria bellica nazionale. La stessa industria bellica è definita senza scandalo pilastro della politica estera. E mentre Profumo, amministratore delegato di Leonardo, definisce le missioni militari a cui partecipa l’Italia la migliore vetrina per il prodotto bellico nazionale le stesse forze armate sono diventate parte integrante dei pacchetti commerciali bellici verso paesi terzi.

Ognuno dei punti che ho elencato non vive di vita propria ma fa parte di un modello di difesa, sarebbe meglio dire di offesa, organico e coerente.
Attenzione, nessuno di questi punti può essere preso a parte rispetto agli altri. Tutto è tenuto insieme dal concetto della proiezione di forza oltre confine come legittimo strumento della politica estera, in barba ovviamente al dettato costituzionale. Ma questo grosso guaio non è cosa degli ultimi anni…

La disinvolta sovrapposizione tra “pubblico” e privato, tra fatturati e campi di battaglia, tra generali e consigli di amministrazione ha assunto contorni gravissimi, una vera e propria emergenza democratica/costituzionale creata da una trasversale maggioranza parlamentare che nel corso di questi ultimi trent’anni ha guadagnato tutto il parlamento ed accumulato pesantissime responsabilità di guerra, mentre ancora dobbiamo fare i conti con quelle accumulate con le aggressioni di epoca fascista (Etiopia, Libia, Spagna, Jugoslavia, Russia).

Risulta urgente fare un’analisi di merito sulle forze armate in quanto tali e sul loro modello organizzativo. Tema accantonato da troppo tempo.

Bisogna entrare nel merito di quale modello di difesa vogliamo per il nostro Paese prima ancora di pensare a quello che vorremmo eventualmente per una Europa che al momento risulta evanescente.

Questo tema è sostanziale per qualsiasi ragionamento che voglia aggredire la questione della belligeranza, di una sensata riduzione delle spese militari, di una conversione dell’industria bellica, della distensione verso il disarmo.

Ad ogni postura della politica estera corrisponde generalmente una particolare organizzazione delle ff.aa e vice versa. L’organizzazione basata sul volontariato professionale, richiesta dagli Stati Uniti agli alleati al vertice NATO di Roma del 1991, rappresenta la chiave di volta tecnica e giuridica anche della belligeranza del nostro Paese.

Da quel vertice infatti emerse che non sarebbero più serviti eserciti territoriali adatti a fronteggiare un’ipotetica invasione ma corpi di spedizione da integrare, come già detto, in un nuovo standard tecnico-organizzativo di proiezione di forza: la NATO si preparava a diventare apertamente offensiva e a percorrere le immense praterie che il crollo dell’Unione sovietica aveva aperto.

Il modello era (ed è) quello anglo-statunitense basato su professionisti volontari, su una ferma di almeno 4 anni e sulla sostanziale ricattabilità sociale della truppa, tutti requisiti indispensabili per permettere ai governi di gestire operazioni di guerra e occupazione oltre confine (compresa la morte sul campo dei soldati e le tremende malattie professionali) senza i “fastidi” derivanti dalle dichiarazioni ufficiali di guerra e dalle conseguenti mobilitazioni.

Un ridimensionamento della leva militare/civile, un suo adeguamento democratico (con aumento delle opzioni civili) non venne nemmeno preso in considerazione: la postura eminentemente difensiva che ne sarebbe derivata non era compatibile con la nuova fase di rilancio della “Nato globale” e col nuovo concetto di difesa che, in barba al dettato costituzionale, ricomprendeva gli interessi nazionali nella difesa in armi del Paese.
Se non si affronta questo nodo strutturale della nostra belligeranza risulta difficile proseguire con altri ragionamenti sui temi della “difesa” e della “sicurezza”.

Su questo terreno non saremmo peraltro al punto zero in quanto ad alternative concrete da mettere in campo.

C’è un Disegno di Legge depositato dal nostro compagno Giovanni Russo Spena nel 1999 che mantiene ancora intatta la sua attualità ed anzi proprio oggi, sul banco di prova della storia recente e del presente che stiamo vivendo, dovrebbe essere rilanciato con i dovuti aggiornamenti e diventare punto di programma politico.

La revisione/ribaltamento dei concetti stessi di “sicurezza”, “difesa” ed “interesse nazionale” dovrebbero poter sostenere una proposta di riforma organica di tutto il comparto: abbandono del modello offensivo/professionale e riassetto delle ff.aa in funzione difensiva/territoriale sviluppando concrete sinergie, non sostituzioni, col settore civile nelle emergenze ambientali; ripristino della Guardia Forestale come corpo civile di polizia ambientale; scioglimento dei Carabinieri come corpo di polizia militare (addirittura elevati al rango di quarta forza armata), adeguamento della politica industriale di Leonardo alle nuove necessità delineate dalla riforma strutturale del comparto.

Per ciò che riguarda l’Italia, ma non solo e sarebbe interessante capire se in altri paesi si sta sviluppando un ragionamento di merito, questa riforma consentirebbe di agire su diverse questioni:

  1. renderebbe le forze armate inservibili alla Nato, ad operazioni di guerra e occupazione, più in generale ad un profilo neocolonialista;
  2. “accontenterebbe” il terzo settore con la reintroduzione della leva civile, linfa vitale del no profit;
  3. porterebbe ad un consistente risparmio di risorse nel quadro di nuove sinergie d’impiego civile;
  4. permetterebbe una conversione della logistica e della organizzazione militare verso una immediata ed efficace compatibilità con la Protezione civile;
  5. permetterebbe di aprire un ragionamento meno bellicista sul futuro di Leonardo;
  6. sarebbe coerente con l’uscita dell’Italia dalla Nato e con una rescissione degli accordi bilaterali che regolano la cessione di territorio nazionale per basi e strutture statunitensi;
  7. sarebbe funzionale alla definizione una nuova politica estera e commerciale basata sulla cooperazione strategica piuttosto che sulla normalità belligerante con ciò ridimensionando concretamente le cause delle tragiche migrazioni umane a cui stiamo assistendo.

La crisi economica, l’incessante susseguirsi di emergenze ambientali, i costi del nostro avventurismo militare che si sta trasformando in una vera e propria economia di guerra hanno già duramente colpito la fiducia popolare nel “tricolore armato” spedito per il mondo al seguito degli Stati Uniti.
La guerra in Ucraina, interi settori economici pilastri del Pil nazionale come manifatturiero ed agroalimentare depressi dalla nuova guerra fredda contro la Russia sono lì a dimostrarlo.

Credo sia urgente agire sulla sfiducia strumentale in questo modello di difesa prospettando una alternativa credibilmente più utile, razionale, meno costosa e non offensiva che possa accompagnare una ridefinizione della politica estera del nostro Paese in senso neutrale, una riduzione sostanziale delle spese militari, una progressiva conversione del comparto militare industriale, un protagonismo nei processi di disarmo convenzionale e nucleare. Fuori dalla Nato e da qualsiasi ipotesi di esercito europeo.

Non un ritorno al passato ma semmai un necessario ritorno al futuro.

*Responsabile Dipartimento pace, Partito della Rifondazione comunista – Sinistra Europea


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