Cosa avrebbe detto Frisullo della Turchia?

Cosa avrebbe detto Frisullo della Turchia?

di Annamaria Rivera -
Ben dieci anni sono passati dalla scomparsa prematura di Dino Frisullo, militante antirazzista e pacifista, giornalista e scrittore, poeta e intellettuale poliglotta, appassionato difensore dei diritti dei migranti, dei rifugiati, dei rom, dei palestinesi, dei curdi e di altre minoranze oppresse. Eppure a noi, privilegiati per averlo avuto come amico, interlocutore, compagno di una stagione fertile di lotte, tuttora capita di chiederci, a ogni evento politico che ci sembri importante, cosa Dino ne avrebbe detto e scritto, in quale impresa politica ci avrebbe coinvolti.
Di sicuro si sarebbe entusiasmato, Dino, per il movimento di rivolta che percorre la Turchia: nato dalla protesta contro la distruzione di un parco, presto divenuto resistenza contro la deriva autoritaria del “moderato” Erdogan, col suo perverso mélange d’islamismo sempre più bigotto, neoliberismo sempre più sfrenato, repressione sempre più brutale. Avrebbe apprezzato, Dino, soprattutto la molteplicità della partecipazione: operai, sfrattati, precari, moltissime donne; la sinistra e l’estrema sinistra; gli ultras dei tre principali club calcistici di Istanbul, fino a ieri feroci rivali; gli alawiti al fianco dei suoi amati curdi… E vi avrebbe forse intravisto la speranza di una soluzione della questione curda per cui spese tanta parte del suo impegno, politico e intellettuale, e della stessa sua vita. Segnata profondamente, fino alla morte, da quella che fu per lui, come avrebbe dichiarato, l’esperienza «più dura e formativa»: i quaranta giorni di detenzione (era il 1998) nell’inferno del carcere speciale di Diyarbakir, cui seguì la condanna, con la condizionale, per apologia di terrorismo.
Da quel «comunista curioso» che egli era, «avido di conoscenza e di amore», per dirlo con le sue parole, sarebbe corso a Istanbul per dare il suo contributo alla lotta, incontrare queste e quelli, scambiare con loro pane e parole. Sarebbe poi tornato in Italia a raccontare, documentare, mobilitare in favore di quella rivolta (oggi, invece, tutto tace da noi mentre scrivo, mentre migliaia di greci e centinaia di newyorkesi sono in piazza a solidarizzare).
La sua propensione a «guardare il mondo, anche il nostro, con gli occhi degli altri» – per citare una frase sua – era il frutto, razionale ma anche emotivo e sentimentale, di un impegno che non aveva espunto l’empatia e la pietas, e che si nutriva di rigore morale, conoscenza, lungimiranza politica: impegno intransigente fino all’ostinazione, totalizzante e generoso fino al sacrificio di sé. Una delle lezioni che Dino ci ha lasciato è che per comprendere il fenomeno dell’immigrazione e degli esodi contemporanei, il problema dei rom o dei rifugiati, le questioni curda o palestinese, e per andare al di là delle visioni convenzionali, occorre dapprima abbandonare lo sguardo che esteriorizza e oggettivizza, e cercare di assumere lo sguardo del singolo migrante, rom, rifugiato, curdo, palestinese. Insomma, per fare politica bisogna fare inchiesta; e per fare inchiesta occorre condividere «anche solo per un attimo, una parte delle loro vite», e così conferire senso e valore alle loro piccole storie in cui è racchiuso il senso della grande storia.
Sarà anche in virtù di questa inclinazione – così vicina all’etnografia, come oggi la s’intende – che Dino, dirigente di Avanguardia operaia e poi di Democrazia proletaria, una volta arrivato a Roma da Bari, a partire dagli anni ’80 seppe cogliere l’importanza delle nascenti lotte dei migranti: dalla grande manifestazione romana seguita all’assassinio di Jerry A. Masslo fino all’occupazione, nel 1991, dell’ex pastificio Pantanella. E qui incontrò, fra gli altri, Sher Khan e don Luigi Di Liegro, che come lui avrebbero raggiunto prematuramente il giardino vasto come il cielo e la terra ove «le moschee di Gerusalemme» si ergono tra gli «ulivi di Puglia».
Più tardi, nel 1995, fondammo la Rete antirazzista nazionale che, sebbene dalla vita breve, resta l’unica esperienza di coordinamento tra associazioni di volontariato, organizzazioni sindacali e gruppi locali. La Rete fu espressione di un antirazzismo colto e radicale, che anticipò di molti anni analisi, temi e rivendicazioni che oggi si credono inediti: i migranti e i rifugiati come soggetti esemplari del nostro tempo, la critica alla vulgata differenzialista, il tema della cittadinanza europea di residenza -oggi ridotto a ius soli – la battaglia per il diritto di voto e la civilizzazione delle competenze sul soggiorno. Su questi ultimi tre temi la Rete elaborò, nel 1997, altrettante proposte di legge d’iniziativa popolare, con relativa raccolta di firme in tutt’Italia: un’iniziativa che non incontrò il favore delle grandi organizzazioni che pure ne facevano parte, fiduciose che la legge sull’immigrazione, ch’era in cantiere, avrebbe risolto ogni cosa. Quando poi la Turco-Napolitano fu partorita, la Rete antirazzista, voce fuori del coro, ne criticò soprattutto i procedimenti di espulsione e i Cpt, che avrebbe aperto la strada alle perversioni della Bossi-Fini. Poco più tardi una parte di essa, delusa dall’esito della campagna per le tre proposte di legge e forse fiduciosa nel “governo amico”, ne decise di fatto lo scioglimento, nel momento stesso in cui Dino pativa il carcere speciale a Diyarbakir. Ne sarebbe uscito assai provato, anche nel fisico, ma battagliero come sempre, fino alla morte.
Oggi si svolgerà una giornata in ricordo di Dino Frisullo, organizzata dall’associazione Senzaconfine, in collaborazione con Arci, Asgi, Azad, Centro Ararat, Focus-Casa dei diritti sociali. Ci si ritroverà alle ore 11 presso il Cimitero del Verano, per un saluto commemorativo, per poi spostarsi nel pomeriggio alla Città dell’Altraeconomia, dove verranno premiate le tesi vincitrici della V edizione del Premio Dino Frisullo. Seguirà una serata con cena curda, interventi, proiezioni di video, reading di poesie e canzoni.

Il Manifesto – 05.06.13


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