Israele, tempo di contestazioni

Israele, tempo di contestazioni

di Chiara Cruciati -
Gerusalemme, 27 maggio 2013, Nena News – È periodo di contestazioni in Israele. Diverse le forme e le modalità, dalla rete alla piazza, che fanno vacillare il consenso nei confronti del neoeletto governo guidato (di nuovo) dal falco Netanyahu. Dopo la presentazione del piano di austerity, fondato su tagli alla spesa e privatizzazioni, in migliaia sono scesi nelle strade delle principali città israeliane per protestare.

Le misure proposte dal ministro delle Finanze, Yair Lapid, per coprire un buco di bilancio di 35 miliardi di shekel (7 miliardi di euro), impoveriranno ulteriormente il Paese: questo il messaggio inviato da sindacati e manifestanti. Un Paese già profondamente diviso tra ricchi e poveri: secondo i dati forniti pochi giorni fa dall’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OECD), il tasso di povertà israeliano è il peggiore dei 34 Paesi membri dell’organizzazione internazionale che riunisce Paesi a libero mercato. Nel 2010 il 20,9% della popolazione israeliana viveva sotto la soglia della povertà,  oggi il tasso è salito al 23,6% secondo i dati Index.

Il sindacato, poche settimane fa, aveva annunciato scioperi generali e proteste di piazza in piazza. Non si è assistito a nulla di simile, ma qualcuno si muove. A mettere in discussione le politiche israeliane, economiche e di difesa, sono i giovani. Martedì il blogger Omri Hayun si è visto spiccare un mandato d’arresto per aver pubblicato post critici nei confronti del governo di Tel Aviv. La polizia ha bussato alla sua porta e, non trovandolo, ha emesso il mandato per la sua cattura.

Di cosa è colpevole Omri? Di aver utilizzato Facebook per fare un appello ai cittadini israeliani: «Prendete la legge nelle vostre mani e create il caos». La sfida critica alle politiche economiche non è piaciuta alle autorità. Così come non piace il gesto di un giovanissimo israeliano, Natan Blanc, 20 anni, che da sei mesi disturba il sonno del ministro alla Difesa. Come altri prima di lui, Natan – una volta compiuti diciotto anni – ha rifiutato di compiere il servizio militare per ragioni politiche. Un obiettore di coscienza, figura non riconosciuta dalla legge interna israeliana, per questo Natan è stato arrestato. È stato arrestato dieci volte, per un totale di sei mesi di prigione per la sua ferma opposizione all’occupazione israeliana della Cisgiordania e all’utilizzo delle armi nella gestione di un conflitto lungo 65 anni. Natan non vuole farne parte e ha rifiutato di vestire la divisa, momento di passaggio obbligatorio per ogni cittadino israeliano all’interno di una società profondamente militarizzata.

Il suo rifiuto ha scatenato il dibattito nell’opinione pubblica israeliana. Non che sia il primo a prendere una simile decisione, ma i continui arresti a cui è sottoposto hanno attirato l’attenzione del pubblico: la scorsa settimana oltre 30 esperti legali – tra cui il preside della facoltà di legge della Hebrew University – hanno firmato una lettera in cui chiedono all’esercito di rilasciare il giovane e rispettare la sua libertà di coscienza. Manifestazioni si sono tenute anche di fronte al quartier generale dell’IDF, l’Israeli Defence Force.

Il primo rifiuto di Natan risale allo scorso novembre: da allora ha trascorso in prigione 178 giorni, a cui si sono aggiunti interrogatori continui da parte di generali e colonnelli per convincerlo a infilarsi l’uniforme. Lui ha risposto con un video: «La principale ragione per cui rifiuto di servire è che sento che il nostro Paese sta andando verso la non-democrazia, una situazione di disuguaglianza civile tra noi e i palestinesi. Una situazione in cui ci sono due popoli nello stesso Stato, uno dei quali ha il diritto di votare e partecipare alle elezioni mentre l’altro non può. Ritengo che l’esercito israeliano giochi un ruolo di primo piano nel preservare tale situazione e la mia coscienza non mi permette di farne parte».

Una scelta, quella di Natan, che non gli costa solo la temporanea libertà. Il servizio militare in Israele è obbligatorio: tre anni per gli uomini e due per le donne, prima dell’università (con l’eccezione degli ultraortodossi, dei cittadini palestinesi di Israele, i malati fisici e mentali). Chi non veste l’uniforme per altre ragioni – ovvero per ragioni politiche e morali – è nella pratica tagliato fuori dalla società: difficile iscriversi ad alcune università e anche trovare un lavoro. «Nella stragrande maggioranza dei casi, durante un qualsiasi colloquio di lavoro – ci spiega Y. B., refusnik (il termine con cui vengono indicati in Israele gli obiettori di coscienza) – ti chiedono in quale unità hai servito e dove eri di stanza, come è stata la tua esperienza nell’esercito. Se dici che non hai servito per motivi di coscienza, sei fuori. Per questo, molti refusnik preferiscono rifiutare il servizio militare fingendosi pazzi o malati, anche se a muoverli sono ragioni politiche. Una volta che definisci te stesso un refusnik, la società ti esclude. E in alcuni casi anche la tua stessa famiglia non ti sostiene – prosegue Y. B. – Mio padre era un generale dell’IDF, ha scelto la carriera militare. Quando ho rifiutato di servire nell’esercito, abbiamo rotto i ponti. Ora, con il tempo ci siamo riavvicinati. Ma l’unica cosa che ti resta è lavorare per organizzazioni no profit o associazioni sociali e politiche».

Questa è sicuramente una delle ragioni del basso numero di refusnik israeliani. Dati certi non esistono -  l’esercito preferisce non tenere simili imbarazzanti statistiche – ma secondo Y. B. si aggirano sui 20-30 l’anno. «Non è facile reperire dati certi – ci spiega l’analista israeliana Connie Hackbarth -Per due ragioni: da una parte l’esercito non ha alcun interesse nel divulgare tali statistiche. Tratta i refusnik come criminali: tutti gli obiettori finiscono in prigione. Alla base sta la concezione della società che l’esercito ha e impone all’esterno: in teoria i diciottenni israeliani, appena usciti dalle scuole superiori, dopo anni di indottrinamento scolastico e familiare che mostrano l’esercito come una scuola di vita, dovrebbero essere facilmente controllabili. Se rifiutano, mettono in discussione le basi stesse della società israeliana».

«La seconda ragione è che molti degli obiettori di coscienza, per evitare ripercussioni sulla loro vita futura, fingono di essere malati o pazzi per non servire nell’esercito. Addirittura si calcola che il 30% degli israeliani non fa il militare, anche se molti di loro sono ebrei ultraortodossi (esclusi per legge). La società israeliana è parzialmente fondata sul mito del servizio militare per tutti, uomini e donne. Gli obiettori sfidano questo mito, dicendo che è legittimo e morale dire di no all’esercito. In questo modo sfidano la narrativa mainstream israeliana, per cui si entra nell’esercito senza nemmeno pensarci. L’effetto che hanno sull’opinione pubblica non è certo di grandissimo impatto, ma il fatto che l’IDF cerchi di reprimere il fenomeno significa che qualcosa si muove».

«Israele, come qualsiasi altro Paese del mondo – prosegue la Hackbarth – è teatro di diversi movimenti di opposizione, sociali, economici e politici. Come il movimento degli indignados dell’estate del 2011. Le proteste però non sono mai in grado di coinvolgere un ampio numero di persone e quindi di tradursi in un cambiamento minimo, anche solo durante le elezioni. La stragrande maggioranza degli israeliani sostiene il governo, qualsiasi esso sia, e l’esercito, che è considerato la base fondante il Paese».

Negli anni sono nate diverse associazioni che sostengono i refusnik: le principali sono Yesh Gvul, la femminista New Profile e Shministim, formata da studenti delle scuole superiori.

da Globalist.it


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