
Il paradosso di Bologna
Pubblicato il 17 mag 2013
di Giuseppe Caliceti -
Il sindaco di Bologna, in perfetto stile berlusconiano, invia una inusuale e accorata lettera ai genitori della città per invitarli a votare, nel referendum del 26 maggio, a favore della privatizzazione delle scuole dell’infanzia. Merola ha ragione a scrivere che «oggi il vero assente è lo Stato che non garantisce la scuola dell’infanzia nemmeno a due bambini su 10», ma è troppo semplicistico e liquidatorio quando definisce il referendum «un imbroglio ideologico».
Scopo del referendum? Decidere se sia giusto o meno destinare 1 milione alle scuole paritarie private, che accolgono più di 1.700 bambini e bambine bolognesi, oltre ai quasi 36 milioni investiti nelle scuole comunali e 1 milione nelle scuole statali. Merola ricorda che «non ci sono bambini di destra e di sinistra», perché «i bambini sono tutti uguali e stanno al primo posto». Giusto. Peccato però che finisca per giudicare ideologico e strumentale l’articolo 33 della Costituzione, per cui «La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato».
Perché tanta paura di un risultato diverso da quello auspicato? Forse perché a prescindere dall’esito, l’aver già indetto tale referendum è un successo per il Comitato referendario Art.33, presidente onorario Stefano Rodotà. O perché questo referendum, che sta assumendo sempre più una valenza nazionale, mette a nudo l’ambigua politica scolastica del Pd in questi decenni, che non ha saputo differenziarsi abbastanza da quella del Pdl, per la privatizzazione della formazione.
In realtà la questione di Bologna è complessa e delicata. E facile alle strumentalizzazioni. Diciamo così: nelle città dove il Pd è all’opposizione, è a favore della scuola pubblica; in quelle, come Bologna, dove governa, anche della privata. Qualcosa non va. E a metterci di mezzo i bambini, in modo strumentale, è proprio chi è a favore della privatizzazione: affermando che è un modo per non lasciar fuori dalla scuola nessun bambino. Chissà se la penserebbero così Miari o Malaguzzi. Insomma, un elettore di centrosinistra, da una regione come l’Emilia-Romagna, da una città come Bologna, si aspetterebbe una battaglia di avanguardia: cioè una richiesta determinata a uno Stato latitante perché istituisca nuove scuole dell’infanzia; invece questa strada non viene neppure contemplata: più semplice sorvolare su un articolo della Costituzione, pare.
Capisco e credo nella buona fede di Merola e compagni, ma non la condivido. Perché in Emilia Romagna, in questi anni di devastazione della scuola pubblica, le amministrazioni locali di sinistra, invece di mettersi a fianco dei docenti e delle famiglie per difendere la qualità della nostra scuola, – quella pubblica, – hanno dato sempre più credito alle private. E in un impeto di falso pragmatismo, invece di dar voce al disagio, hanno cercato di rattoppare le lacune crescenti di una scuola statale di qualità offrendo migliaia di educatori, forniti da apposite cooperative, per sostituire i docenti licenziati. Tutti educatori sottopagati a 6 euro l’ora, meno di una babysietter. Magari cercando di far bene, per carità, ma sbagliando tutto in partenza: avvallando in questo modo una forma iniziale di privatizzazione addirittura della scuola pubblica, dalla quale ora pare non possa esserci più ritorno.
Come? Trasformando, come suggerito dal Pdl, anche lessicalmente, un diritto individuale all’istruzione in un servizio a pagamento. Mettendo al centro della propria politica e didattica non lo studente, ma economia e utenti dell’azienda: le famiglie. Giocando sempre al ribasso: non su un maggior investimento e una difesa del diritto all’istruzione, come in Germania o negli Stati Uniti, ma su un progressivo disinvestimento su fondi e qualità della formazione. Proprio da Bologna, che dell’educazione primaria ha sempre fatto una bandiera e ha investito tanto, ci aspetteremmo, – come accadde in passato, per esempio con l’istituzione del tempo pieno e delle prime scuole dell’infanzia, – qualcosa di più che un appello a rinnegare l’articolo 33. Ci aspetteremmo un messaggio «forte» allo Stato, di cui anche i comuni sono di fatto emanazione, non il perpetuarsi di un inciucio pedagogico e politico che ha già regalato ai nostri figli più ombre che luci. Non vogliamo più luoghi di deposito per i nostri figli, vogliamo la scuola di cui si parla nella nostra Costituzione. O la Costituzione è un imbroglio? O è diventata troppo ideologica?
Il Manifesto – 17.05.13
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