Cara di Castelnuovo di Porto, storia di una deportazione e di un ghetto.

Cara di Castelnuovo di Porto, storia di una deportazione e di un ghetto.

di Stefano Galieni*

Lo sgombero manu militari del CARA di Castelnuovo di Porto, in provincia di Roma, disposto dal Viminale e che, secondo disposizioni, dovrebbe completarsi entro la fine di gennaio, ha un significato profondo. In sintesi istituzionalizza che l’accoglienza (spesso mala accoglienza) come la conoscevamo sta per andare definitivamente al macero. Al suo posto aumentano le strutture di detenzione amministrativa, finalizzate ai rimpatri, i centri in cui rinchiudere (non ospitare) chi è in attesa di risposta da parte delle Commissioni territoriali per la richiesta d’asilo, gettare in strada chi ha unicamente un pezzo di carta straccia come la protezione umanitaria o è comunque in condizioni di vulnerabilità tali da non potersi costruire nell’immediato un futuro in piena autonomia. In molte e molti hanno reagito con indignazione a questo ennesimo sopruso. Esponenti politici, sindaco e parroco del paesino a 40 km da Roma, sulla Via Tiberina, hanno utilizzato toni duri, parlando di “metodi da lager” e facendo presente come molti dei richiedenti asilo si siano in questi anni ambientati nel paese raccontando di esperienze scolastiche, lavorative, sociali. Ovviamente a questa indignazione ci uniamo, far giungere l’esercito impedendo persino di programmare uno spostamento è l’ennesimo sopruso inflitto in maniera oscena ed inutile agli ospiti, le riprese hanno mostrato volti affranti e spauriti per un futuro che si presuppone incerto. Sembra, il condizionale è d’obbligo, che dopo le prime notizie da cui si evinceva che donne e bambini sarebbero state separate dagli uomini, si sia giunti ad una decisione per cui i nuclei familiari resteranno integri (alcuni sono già diretti forse in Piemonte) mentre si sta decidendo il destino degli altri. Di certo c’è che in ottemperanza alla legge 132/2018 (Dl Salvini), i titolari di protezione umanitaria che, pur avendo ancora valido il permesso, hanno superato i sei mesi in un centro di accoglienza, saranno sbattuti in strada. Ad un primo calcolo si tratta di 145 persone. Il ministro che parla di “pacchia finita per i finti rifugiati” questa sera dormirà più felice del proprio operato e così i suoi sostenitori magari convinti che i propri guai termineranno grazie alla chiusura di questo centro. Invece di fare appello alla ragione, ormai abusata e poco considerata o a motivi etici, l’atto compiuto va segnalato come una sconfitta figlia delle stesse ragioni che avevano portato all’apertura del centro. Il Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo alle porte di Roma ha visto infatti la luce nel giugno del 2008, quasi in sordina, tanto da portare un consigliere ad una interrogazione comunale. Si era durante una delle tante “emergenze Lampedusa” e il governo di allora non si preoccupò neanche di avvisare la popolazione del piccolo paesino prendendo la struttura, prima della Protezione Civile e poi dell’Inail e adibendola a centro. All’epoca – non esisteva ancora il mega centro di Mineo (Ct) – era il secondo per dimensioni dopo quello di Crotone, potendo ospitare fino a 650 persone ma finendo rapidamente in sovraffollamento con 800 “ospiti”. Il comune all’epoca contava in poco più di 8500 abitanti, una rete di trasporti pubblici disastrata (oggi non è cambiata) e l’impatto non fu dei più semplici. Già ad ottobre si iniziò a parlare di chiusura del centro tanto da portare i richiedenti asilo, giunti da poco, ad attuare forme di protesta. Ma il centro non chiuse e divenne un business di milioni di euro, in alcuni periodi anche di 11 milioni di euro annui. Il calo temporaneo degli arrivi fece pensare ad un ridimensionamento della struttura ma poi, con le “primavere arabe” il centro tornò a riempirsi e a portare affari. Se già aprile 2011 si denunciava il colossale affare che la struttura portava con se , l’emergenza mise in molti a tacere. Poco importava degli ospiti. Vitto scadente, sovraffollamento, notti passate in attesa dei pullman che a volte, nei pressi della fermata vicina al CARA, evitavano di fermarsi soprattutto se erano molti in attesa. Gli “ospiti” soprattutto giovani tunisini, in quel periodo si recavano a Roma tutti i giorni, chi alla ricerca di un lavoro per sbarcare il lunario chi nel tentativo di prendere un treno verso Ventimiglia e poi la Francia. Alla sera chi non riusciva a partire o chi tardava restava in strada spesso doveva dormire nei pressi della Stazione Termini, solo in alcuni momenti si riuscirono ad ottenere autobus supplementari per garantire loro almeno un letto e una doccia. Chi scrive si ritrovò più di volta a dover imprecare contro i gestori della Sala Operativa Sociale per veder risolte le situazioni più critiche, molti fra i ragazzi erano anche minorenni, molti denunciavano abusi subiti nei centri da parte del personale non potendo, in quanto ricattati dalla loro precarietà, mandare nessuno sul banco degli imputati. Nel frattempo il CARA fruttava, con bandi e appalti a suon di milioni. Gestito all’inizio dalla Croce Rossa e su cui aveva posto gli occhi “La Misericordia” restò in mano invece per alcuni anni all’Associazione temporanea di imprese (Ati) formata dalle associazioni Acuarinto di Agrigento e Synergasia di Roma con a capo la francese Gepsa (Gestion etablissements penitenciers services auxiliares) e Cofely Italia, entrambe sono società che appartengono al gruppo Gdf-Suez, multinazionale dell’energia. Gepsa in Francia lavora nel campo delle carceri. Il valore complessivo dell’appalto per il periodo 2010-2013 è stato di 34 milioni e 500mila euro, al netto dell’Iva. Utenze e manutenzione del centro erano e sono a carico della prefettura. In quel periodo se la capienza teorica era di 650 posti, quella effettiva fu di 800. Non ci furono, per molto tempo, posti disponibili. Le persone “vengono messe in sovrannumero per ordine del Viminale”, fecero sapere nel Cara. I tempi di permanenza media calcolati ad agosto sono stati di 255 giorni (dato ufficiale del ministero dell’Interno), pari a 8 mesi e mezzo. Durante il biennio 2014-2015, il centro venne pensato come spazio adeguato allo smistamento per le fallite relocation negli altri paesi europei. Negli anni si sono succeduti enti gestori che hanno creduto o fatto credere di poter rendere vivibile una struttura di per se inadeguata al punto che bastavano piogge stagionali a far allagare stanze e corridoi. Le rivolte ripresero: un giorno ci si mobilitava per chiedere cibo e condizioni di vita migliori l’altro per poter andare regolarmente a Roma, l’altro ancora per poter ricevere il Pocket money di 2,5 euro giornalieri e alla fine affinché venissero velocizzate le pratiche una collocazione più dignitosa, fuori dall’Italia. Nel frattempo, nel 2014 anche il CARA era finito sotto inchiesta nel faldone di Mafia capitale, Buzzi, Carminati e sodali nelle istituzioni e nella magistratura avevano trovato modo di guadagnarci. Castelnuovo, come gli altri Cara divennero gli esempi tangibili di come non si dovesse fare accoglienza, di come il sistema SPRAR di accoglienza diffusa, in appartamenti e garantendo autonomia alle persone accolte, non solo risultava più economico per la collettività ma più efficace per i diritti di tutti, anche delle comunità ospitanti. Ma il clima andava cambiando, cresceva il numero di comuni in cui popolazioni già fomentate, erigevano barricate per impedire l’accoglienza anche di poche decine di persone. Se si eccettuano splendide esperienze di accoglienza riuscita e costruita nei territori, prevalevano due visioni: da una parte le aree disagiate del paese, le periferie delle metropoli, in cui un sottoproletariato incattivito non era disposto ad accettare ulteriori presenze percepite come ostili, dall’altra aree urbane abitate da ceto medio poco disponibile a vedere, a causa dell’arrivo dei profughi, il proprio spazio “contaminato”. Xenofobia, razzismo, rifiuto e ignoranza, amplificati da una comunicazione priva di spunti di analisi, dall’assenza di corpi intermedi e di luoghi di socialità, da una politica in gran parte inadeguata ad uscire da esperienze emergenziali o che ancora più colpevolmente fomentava la rabbia, hanno aperto le porte alla distruzione dell’idea stessa di accoglienza. Non dappertutto certo, ancora oggi ad esempio a Torre Melissa, in Calabria, capita che i cittadini guidati dal sindaco vadano a soccorrere 51 naufraghi mentre contemporaneamente, nell’indifferenza o nel plauso diffuso si consumavano tragedie che, in caso di “lieto fine” si traducono nella ricerca di un porto in cui approdare, nelle peggiori, in naufragi evitabili. Questo per dire che il Cara di Castelnuovo, come gli altri agglomerati da centinaia di persone, andrebbero smantellati in favore di una ospitalità a misura di persone, dove chi arriva e chi accoglie non è trattato come un oggetto. Ma quell’accoglienza sognata non rende, né economicamente né politicamente, almeno per ora. Quindi si smantelli tutto, si faccia nei Cara quello che viene fatto nei centri informali, nelle occupazioni, nei campi rom, si mostri il pugno duro del potere. Che importa se questo poi porterà disagio diffuso nelle strade, l’importante è sfangare le prossime scadenze elettorali e nel contempo mostrare il volto autoritario di uno Stato sempre meno democratico. Fra le voci che si rincorrono in queste ore di sofferenza per chi è cacciato via ce ne è una che ha il sapore della beffa. La struttura del Cara potrebbe diventare un CPR (Centro di Permanenza per i Rimpatri) la nuova denominazione dei CIE voluta da Minniti e resa concreta da Salvini. Non sappiamo se sia o meno fondata ma se ciò fosse si arriverebbe al paradosso che una struttura che, con tutte le sue criticità, ha prodotto anche forme di riscatto individuale si trasformerebbe in un centro chiuso, sorvegliato da polizia come un carcere di massima sicurezza, da cui le persone non potrebbero uscire se non per essere condotte al rimpatrio. Se ciò avvenisse aumenterebbero i costi per la collettività, sarebbero necessari lunghi ed esosi lavori di ristrutturazione, e il nuovo centro diventerebbe luogo di perenne rivolta, ancora più lontana da occhi indiscreti. Ne sarebbero danneggiati prima i reclusi ma poi noi tutti, altro che l’odioso e falso refrain, “prima gli italiani”.

P.S. mentre  proseguono, anche incontrando mobilitazioni, le operazioni di deportazione, viene da domandarsi come mai ad uscirne indenne da questa vicenda siano soltanto gli enti gestori che hanno tratto enorme profitto da questo centro?

*Responsabile nazionale Pace, Immigrazione e movimenti, PRC-S.E.


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