Millenovecentosessantotto

Millenovecentosessantotto

Rino Malinconico

Ho scritto questo carme trentaquattro anni or sono. Nel 1990 lo inserii nella mia prima raccolta di poesie (Noi e io, Editrice Imbarco), e lo ripropongo ora, a cinquant’anni dal ’68, perché mi pare ancora capace di dire qualcosa. È corredato da note esplicative che facilitano la lettura.  

 

MILLENOVECENTOSESSANTOTTO

(ai miei compagni)

I

Poi l’occhio fu segnato dalla vita

e perse di purezza.

Altri lidi emersero dall’onda

e la risacca

quasi in controcanto

fece più lenti i battiti del cuore.

 

 

 

II

 

Tempo consumato in un respiro

mi premi addosso

e ancora m’affatichi

di fole il capo

e teco

per disperato incanto

mi conduci.

 

 

 

III

 

Quest’incanto veniva di lontano

oltre il bambù

in terra di levante.

Un uccello vi volava in cerchio

a novantamila lì sopra il terreno.

E c’era un vecchio che spianava i monti

al fin che l’uomo

vincesse la sua storia.

 

 

 

IV

 

Non s’aspettava che l’assalto al cielo

e nulla di meno.

E si fremette pure ad occidente

per questo gonfiar

del vento di campagna

che dietro si portava e semi e terra

e luccichìo di sole nel mattino.

 

 

 

V

 

Fu anche tempo di pettine e di nodi.

Troppo spessa era stata la quiete

e lungamente.

Fu rotto dal rimbombo quel silenzio

degli elefanti un’altra volta accorsi

a reclamar l’avorio.

 

 

 

VI

 

Diede il segnale la pantera nera

e fu versato nell’Ohio il sangue

e a Detroit.

Fu come scatto d’improvvisa rabbia.

Nelle giungle di ferro e di cemento

i bagliori percorsero i quartieri

e le università e le periferie.

 

 

 

VII

 

Quando giunse alle fabbriche quel fumo

prese paura il mostro-capitale

e la ferocia gl’iniettò lo sguardo.

Nella cintata terra delle Alpi

fece brillare mine nella folla.

Altrove, a Danzica e Stettino

guidava i carri a liberare il passo.

E nel sole del Messico dorato

profanava d’Olimpia il sacro rito.

 

 

 

VIII

 

Ma agli angoli del mondo

barcollava

il vecchio impero e il nuovo.

E a nulla valse scavare in Indocina

ancora più crateri della luna.

La borghesia sorpresa rimirava

il sacro fuoco riflesso nella Senna

e paventava un nuovo diciassette.

 

 

 

IX

 

Prematuro timore!

Troppo fondo era il solco

scavato dalla talpa-capitale.

Espugnati tutti erano stati

gli antichi fortilizi proletari

e non più che mondo nuovo

sua veste la Russia ripigliava

qual santa e madre.

 

 

 

X

 

Ma bastante era alla forza

l’orgoglio giovanile

e l’impazienza

e l’iconoclastia,

onde tuonò l’appassionato verso

all’inclito vate dallo sguardo amaro

plaudente al crudo servo

in Valle Giulia.

 

 

 

XI

 

«Voi foste fatti

della stessa turpedine dei padri».

Tal detto ingiustamente proferirvi

come di voce della Bibbia austera

che nega il moto al mondo

e lo condanna.

 

 

 

XII

 

Dimenticasti forse

il travaglio lungo della storia

che rapporti affatica e li rinnova?

Così Natura e Tempo

trasformano le cose

e l’universo senza sforzo vive

continuamente

quando continuamente muore.

 

 

 

XIII

 

Quei furon cuccioli nutriti

al palmo della mano gentilizia.

Poi conobbero l’osso e la catena

e pur se brusca la carezza prima

non cassarono i calci e la fatica

e tennero a pie’ fermo

il giuramento

del quadrato intorno alla magione

e l’offerta del petto al buon signore.

 

 

 

XIV

 

Ma venne tempo che al patrizio desco

poco cibo avanzava ed il peggiore

e le carni nutrite ai giorni buoni

la catena nel collo sanguinava.

Quella catena che dianzi ancora

era vessillo di sicura sorta

or si mostra strumento di selvaggio

e ne costringe la sfrenata corsa

lontan dall’ombra del signore antico

da protettrice in Cerbero mutata.

 

 

 

XV

 

Sopra di sé per vera

allora riconobbe l’ingiustizia.

Ché in tal modo a noi umani

ci è dato di entrare nelle cose:

per gradi, a pezzi

e poi profondamente

sol quando dalla mente esse disvelano

nel solco della vita

e quando il nome

secrèta finalmente l’ansia.

 

 

 

XVI

 

Si veste dunque

d’esperienza il nome

e Verità centuplica le forze.

S’appalesa così che l’ingiustizia

pasce fin l’ultimo interstizio del reale.

I figli quindi del prisco privilegio

le membra tesero a spezzare il ferro

che nel cuore mordeva

a loro e al mondo.

 

 

 

XVII

 

Come il calore trepido

irrompe la fanghiglia

che gelida coperse la campagna

e la natura

ritorna aprìca a bere

al sorso della vita

sì che nova e lucente appare agli occhi

così talora avviene

rigenerarsi all’uomo.

 

 

 

XVIII

 

Non si ristette il pianto

alla perduta aurora

ma l’orizzonte a costoro si dislaga.

Miseria e sfruttamento

ed oppressione

mostrarono la loro umana

carne dolorante.

Sentirono bisogna allora

di un mondo nuovo

e senza privilegio.

 

 

 

XIX

 

La bramosia struggente

dell’umano

come conquista da lungo tempo attesa

nella pelle vibrava

e nelle teste.

E fu entusiasmo

e fu speranza

e fu noncuranza estrema del periglio.

E fu durezza

e ripida battaglia.

 

 

 

XX

 

Dall’animale all’uomo

con rabbia s’invocava il brusco salto.

Ma non fu tempo che l’ordine del mondo

venisse rivoltato.

Mille altre ragioni

doveansi forgiare ancora

e ancora mille fili

la forza della storia

premeva avviluppati.

 

 

 

XXI

 

La massa proletaria

appena era al risveglio

ed esitava a vivere lo scontro.

Fu allor mestieri che cotanta forza

riversa nelle strade

si disperse.

Tramutossi di gioia in sordo dramma

e sùbita disfatta.

 

 

 

XXII

 

Si visse il cupo brividìo

come freddo ritrarsi di marea.

E chi testardo volle

mancar la riflessione

sull’arco lungo del percorso intero

inutilmente inseguiva la vittoria

nella potenza

del rovente acciaio.

 

 

 

XXIII

 

Restorno in pochi

a suggere da Gaia

linfa e calor per sostener la pianta

che giovinetta rinsecchìa nell’ombra.

Altri invece scomposero le membra

incontro al cielo

e febbrilmente

diversa e bella forma

nel vuoto altero

stimaron di vedere.

 

 

 

XXIV

 

All’onde infine

quei tanti rimisero il timone

consegnandosi al Fato per l’approdo.

I vecchi dèi del santo-capitale

al porto indussero la nave

nella inumana terra

degli umani.

 

 

 

XXV

 

Piagato corpo ai naviganti

bruno del salso sole

e del ventoso

nascondeva in letizia e falsa gioia

quel che dentro si muore

lentamente.

Con implacabil gesto

placenta e pelle si discaglia via

e riparava il petto

di sudicia stanchezza.

 

 

 

XXVI

 

Eppure accade a volte

di sollevar lo sguardo al sogno audace

e ricercare l’ostinato segno

del tempo e del riscatto.

Rivive nuovamente allor l’antica speme

quando forzando il cerulo orizzonte

ci venga incontro

come d’improvviso

il balenìo di un vortice lontano.

 

(marzo – dicembre 1984)

 

(Rino Malinconico, Noi ed io. Millenoventosessantotto e altre poesie, Editrice Imbarco 1990)

 

 

NOTE

III         Il riferimento è alla Cina, in particolare alla Rivoluzione Culturale (1966 – 1969). Dell’uccello Peng che “volava alto” (il “lì” è una unità di misura cinese) parla Mao Tse-Tung in una sua poesia. Rivolto al passero atterrito che vuole fuggire lontano dal ciclone, il Peng esclama: «Basta con queste idiozie / guarda la terra e il cielo sconvolti da cima a fondo». Come altrove, anche qui Mao sostiene che grandemente positivo è proprio “il disordine sotto il cielo”.

Il vecchio che spianava i monti è anch’essa un’immagine ripresa da Mao. Rielaborando una vecchia favola cinese, egli narrava di un contadino, Yu-Kung, che decide di spianare, armato semplicemente di zappa e con l’aiuto dei soli suoi figli, tre grandi montagne che isolano e imprigionano il villaggio. I suoi compaesani gli danno del pazzo e lo esortano ad abbandonare un’impresa impossibile. Ma per Yu-Kung non è affatto impossibile spianare quelle montagne: «Io morirò ma resteranno i miei figli, moriranno anch’essi ma resteranno i nipoti e, dopo di loro, i figli dei nipoti. Così le generazioni si susseguiranno all’infinito. Le montagne sono alte, ma non possono diventare più alte; e ad ogni colpo di zappa diventano sempre più basse». Nella versione tradizionale gli dèi, commossi dalla tenacia e dalla volontà di quell’uomo semplice, intervenivano e, in men che non si dica, le montagne venivano spianate. Yu-Kung simboleggiava, per Mao, la condizione del Partito comunista cinese, il suo sforzo generoso ed isolato di buttar giù le grandi montagne dell’imperialismo, del feudalesimo e del capitalismo. E nella sua riformulazione gli dèi non sono altro che le masse popolari: se esse si “muoveranno a compassione”, l’«impresa impossibile» della rivoluzione potrà essere realizzata.

 

IV        Ancora una eco di Mao. Il vento di campagna adombra la strategia maoista delle campagne “che accerchiano la città”, ovvero l’idea che la rivoluzione proletaria possa partire dal Terzo mondo per arrivare poi ai paesi del capitalismo avanzato.

Anche i semi, la terra e il sole del mattino riprendono immagini di Mao: «Noi comunisti siano come i semi e il popolo è come la terra. Ovunque andiamo dobbiamo unirci al popolo, mettere radici e fiorire in mezzo al popolo». Ai giovani Mao ricordava: «Il mondo è vostro come è nostro, ma in ultima analisi è vostro. Voi giovani, pieni di vigore e di vita, siete come il sole tra le otto e le nove del mattino…».

 

V         Gli “elefanti che reclamano l’avorio”, ovvero il proletariato che si riappropria di ciò che produce, riecheggiano una immagine adoperata da Jacques Prèvert nel suo testo del 1931 Tentativo di descrizione di un banchetto a Parigi.

 

VI        Qui, come in seguito, non viene rispettata la cronologia degli avvenimenti ma si mettono assieme fatti del 1968, del 1969 e del 1970. Nell’Università di Kent, nell’Ohio, durante un sit-in di protesta contro la guerra del Vietnam furono uccisi quattro studenti dalle fucilate della guardia nazionale. È solo uno dei tanti episodi sanguinosi collegati alla protesta giovanile contro la guerra.

A Memphis, Chicago e altre città americane ci furono, invece, grandi rivolte nere (le “Pantere nere” erano uno dei gruppi politici della sinistra nera ed ebbero un ruolo rilevante nella lotta per l’emancipazione della comunità afro-americana). Le rivolte durarono per tutto il 1968 e furono particolarmente estese dopo l’assassinio di Martin Luther King (4 aprile del 1968).

 

VII       Le “mine nella folla” sono le bombe che tra l’aprile e il dicembre del 1969 inaugurarono in Italia la strategia della tensione e lo stragismo di Stato.

A Danzica e Stettino ci fu, nel 1970, la repressione durissima dei moti operai.

A Città del Messico avvenne il massacro di Piazza delle tre culture. Era il 2 ottobre 1968: centinaia di studenti che protestavano contro il governo furono falciati dalle mitragliatrici dell’esercito. Pochi giorni dopo, come nulla fosse, quello stesso governo inaugurava le Olimpiadi del 1968.

 

VIII      Tra il 1963 e il 1986, in Vietnam, Laos e Cambogia, gli americani hanno scaraventato più tonnellate di bombe di quelle usate nel corso della seconda guerra mondiale da tutti gli eserciti su tutti i fronti. Nel solo Vietnam del Nord si contavano a milioni i crateri causati dai bombardamenti.

Per quanto riguarda la dizione “imperi vecchi e nuovi”, il riferimento è, da un lato, alle grandi potenze occidentali, gli USA in particolare; dall’altro all’Urss. Il sistema imperiale di quest’ultima verrà insidiato dalle vicende cecoslovacche e dalle lotte studentesche in Polonia per tutto l’arco del 1968.

Infine, la rivolta parigina del maggio fu, probabilmente, l’episodio più significativo dell’intero ‘68: operai e studenti sembrarono davvero vicini a prendere il potere.

 

IX        L’accenno alla “Santa madre Russia” di zarista memoria rivela un’idea precisa della storia sovietica. Per l’autore, dopo il 1917 e la fase leninista, il potere proletario non ha avuto in Russia alcuna vigenza reale. Lo stalinismo attuò un originale ed efficace arretramento controrivoluzionario, conservando formalmente i simboli dell’ottobre ma stravolgendone completamente i contenuti. L’idea di fondo è che il comunismo fu sconfitto già nel corso degli anni ‘20, non solo in Europa, in Asia e in America, ma nella stessa Urss. Del resto, il carattere imperialista dell’Urss venne fuori in modo inequivocabile nello stesso 1968, con l’invasione, in agosto, della Cecoslovacchia.

 

X         L’“inclito vate” è Pier Paolo Pasolini. Sul numero 10 di Nuovi Argomenti (aprile 1968) pubblicò un violentissimo attacco agli studenti. Commentando gli scontri di Valle Giulia tra studenti e polizia del primo marzo, Pasolini affermava enfaticamente di stare dalla parte della polizia, il “crudo servo”. La sua motivazione era classista: i poliziotti sono figli di operai e contadini, della povera gente del Sud; gli studenti appartengono invece alle classi privilegiate. Il loro ribellismo era, per Pasolini, strumentale, venato di anticomunismo: «Avete facce di figli di papà / Vi odio come odio i vostri papà. / Siete pavidi, incerti, disperati / (benissimo!) ma sapete anche come essere / prepotenti, ricattatori, sicuri, sfacciati: / prerogative piccolo-borghesi, cari».

 

XI, XII, XIII, XIV         A Pasolini l’autore obietta l’incomprensione dei cambiamenti sociali e la staticità dell’analisi. In sostanza, viene contrapposta alla invettiva pasoliniana la tesi della “proletarizzazione crescente” della piccola borghesia: da massa di manovra del blocco dominante, destinatario di briciole di privilegio e baluardo sociale dell’ordine costituito, il piccolo borghese viene progressivamente trasformato dallo stesso capitalismo, dalla sua crisi (ma ancor di più, ciò che qui non è detto, dalla sua ristrutturazione), in proletario oppresso e sfruttato alla stessa maniera dei proletari tradizionali.

Va comunque ricordato che Pasolini attenuò, negli anni successivi, il suo giudizio polemico.

Cerbero è il cane con tre (o cinquanta) teste della mitologia greca. Era posto a guardia degli inferi, mansueto con chi rientrava e terribile con chi tentava di uscire.

 

XV, XVI, XVII, XVIII             La perdita della condizione di privilegio servile pone le basi sociali per una possibile presa di coscienza anticapitalista da parte degli antichi strati piccolo-borghesi. Il movimento studentesco del 1968 e l’idealità ugualitaria che lo animava hanno rappresentato, per l’autore, la “rivelazione” inequivoca di tale processo storico.

 

XXI     Il ciclo delle lotte aperto dal ‘68 si chiuderà nella seconda metà degli anni settanta. Nonostante la grande fiammata del ’77, la conclusione fu di netta sconfitta, e ciò proprio perché non era maturata fino in fondo la proletarizzazione generalizzata della società. Dalla rapida disgregazione del movimento emergeranno distinte tipologie politico-culturali, abbozzate dall’autore nelle strofe successive.

 

XXII    Alla sconfitta storica del movimento, dovuta alla immaturità della composizione di classe, alcuni tentano illusoriamente di contrapporre la escalation militare. Il riferimento è soprattutto alle Brigate rosse.

 

XXIII   Non mancarono coloro che dalla sconfitta si proposero di trarre riflessioni utili per tenere in vita la pianta giovine della rivoluzione (“suggere da Gaia”: Gaia è la dizione ionica di Gea, antica divinità greca, la Terra-madre nata dal caos), ma restarono in pochi. Di fatto, la gran parte di coloro che mantenevano una visione critica rinunceranno ad un discorso unitario e si rappresenteranno il mondo  come un “post-qualcosa”, proclamando superata la stessa necessità di un movimento generale di lotta contro il capitalismo e indicando, invece, obiettivi più particolaristici, spesso venati da pulsioni individualistiche (“diversa e bella forma”).

 

XXIV, XXV, XXVI     Infine quasi tutti si consegneranno (è negli anni ’80, il decennio dell’“edonismo reaganiano”, che fu scritto il carme) all’avversario, alla borghesia nuovamente rampante, che li riaccoglierà nell’ambito dell’ordine costituito. È il “riflusso”: coloro che pure avevano sognato il “mondo nuovo”, accettano amaramente le regole e le condizioni del capitalismo. E però non riescono del tutto a “mutar pelle”, poiché la speranza umana di un vivere più felice per tutti continuerà a tentarli, ponendoli all’ascolto di un nuovo, possibile vortice della storia.

 


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