
Sandro, una vita da compagno scomodo
Pubblicato il 22 nov 2017
Maria R. Calderoni
Il 22 novembre 2008 è scomparso il compagno Sandro Curzi, che di “Liberazione”, il nostro giornale, fu direttore per sei anni. Ci piace ricordarlo oggi, con l’articolo che gli dedicammo allora. Ciao, Sandro
Non si è fatto mancare niente. Precoce. Mai dietro le quinte. A tredici anni, siamo nel 1943, è un ginnasiale del “Tasso”, ma fa anche il piccolo partigiano, dando il suo contributo di ra- gazzo al gruppo della Resistenza romana con la quale è venuto in contatto, insieme a studenti solo un poco più grandi di lui, Alfredo Reichlin, Citto Maselli, Aggeo e Arminio Savioli. A quattordici scrive il suo primo articolo («non era un articolo, era milizia politica distillata sotto forma di parole scritte. Dovevo stendere un omaggio, un ricordo per Massimo Gizio, un caduto nella guerra per la libertà»). A quattordici, ancora a quattordici, marzo 1944, si mette in tasca la sua prima tessera del Pci, sarebbe troppo giovane ma gliela danno lo stesso, quel quasi bambino che non manca mai nelle agitazioni studentesche della capitale, in zona Ponte Milvio-Flaminio.
Alessandro Curzi, Sandro, chi lo ferma più, la sua biografia è una rincorsa a tappe, al seguito di quella tessera là, Pci anno 1944. E praticamente vissuta tutta “dentro” il cerchio magico dell’infor- mazione.
Alessandro Curzi, Sandro, giornalista. Nel biennio 1947-48 lavora – «mi presentai come volontario» – al settimanale militante, ultramilitante, il socialcomunista “Pattuglia” diretto a quattro mani da Dario Valori e da Gillo Ponte- corvo; nel ’49 è redattore di “La Repubblica d’Italia”, quotidiano della sera, area comunista, uno dei famosi giornali “fiancheggiatori”, diretto da Michele Rago; nello stesso anno è tra i fondatori della Fgci, la mitica Federazione giovanile comunista italiana che ebbe Enrico Berlinguer come primo segretario generale.
E’ questa, la sua unica, breve parentesi fuori dai giornali. «Era quasi un addio al giornalismo, arrivai alla sezione Stampa e Propaganda e dire che non giocò in questa mia decisione il fascino esercitato da Berlinguer, severo e pieno di umanità, sarebbe dire il falso».
Arriva il sessantotto e arrivano i primi guai, i primi “non si può”. Eravamo divisi per come trattar- li, questi studenti che occupavano, manifestavano e se la prendevano anche con il partito. Io ero tra coloro che inclinavano ad appoggiare il movimento e qui ho il primo scontro con Terenzi». Attento, giornalista! Lo tolgono dall’Unità, lo promuovono e lo mandano come vicedirettore a Paese Sera («lì è meno pericoloso»), ma anche al giornale-cugino le acque non sono tranquille, Botteghe Oscure c’è. «Sulla questione del divorzio ci schierammo per il referendum prima del Partito e con il Pci mugugnante. Lo stesso sul movimento studentesco. Un giorno mettiamo gli studenti alla grande in prima pagina. Non passano che poche ore dall’uscita del quotidiano e arriva in redazione il segretario della Federazione romana, Luigi Petroselli. Era mezzogiorno, noi eravamo in riunione di redazione, lui entrò e platealmente prese in mano il numero e lo accartocciò come fosse carta straccia». Un’altra volta, «in tipografia Alberto Jacoviello rovesciò via dal bancone di composizione col suo unico braccio la prima pagina di Paese Sera», aveva un titolo troppo incline a Israele.
Ma anche col nuovo direttore di Paese Sera, Arrigo Benedetti, lui non è molto in sintonia. «Avevo scritto qualcosa sulla Rai, niente di sconvolgente, ma Benedetti volle fosse ampiamente corretto, pena la non pubblicazione… Dovevo andar via, era chiaro. Avevo sotto gli occhi il mio primo licenziamento, anche se non lo vedevo come tale». Continua a essere quello, Alessandro Curzi, Sandro, un tipo scomodo, “ingombrante”.
Se ne va via, dunque, «finirò alla Rai». «Era la mia casa che lasciavo. Non l’ho mai rimpianta, ma non ho mai smesso di ricordarla con amore». E qui si apre, è il 1975, il capitolo della sua “nuova” vita di giornalista, quella targata Rai. Il capitolo di come, entrato a via Teulada con concorso pubblico come redattore ordinario, giunge ad essere direttore del Tg3 (1987-1993), passando attraverso un breve soggiorno alla Radio.
Ma la carta stampata lo riafferra subito. Eccolo redattore capo di “Gioventù Nuova”, mensile della Fgci diretto dal- lo stesso Berlinguer; eccolo curare l’antologia dal titolo pedagogico “Il futuro non viene da solo” (illustrata da Anna Salvatore, 150mila copie vendute); eccolo inviato come reporter nel Polesine a raccontare la tragica alluvione del ’52, «ne scrissi, mentre lavoravo con le bri- gate volontarie».
Non è che l’inizio. Nel ’56 è nel gruppo (Saverio Tutino, Luciana Castellina, Guido Vicario) che dà vita al settimanale della Fgci “Nuova Generazione”, di cui l’anno dopo diventa direttore. Nel suo libro autobiografico “Il compagno scomodo” (Mondadori) racconta: «Ai tempi dell’invasione sovietica dell’Ungheria, avevamo titolato “Il nostro cuore è diviso”. All’epoca era poco meno che uno scisma. Alcune federazioni emiliane non vollero distribuire il giornale, in cui c’era anche un intervento poco ortodosso di un ragazzo, Achille Occhetto, responsabile degli studenti medi di Milano». E Amendola arrivò a chiedere la chiusura del settimanale.
Mai pentito, anzi molto orgoglioso, della sua vita di giornalista-comunista (o comunista-giornalista) non abiura niente. Nemmeno quel periodo là, trascorso a lavorare a “Oggi, in Italia”, radiogiornale trasmesso a Praga, dentro il cuore del socialismo reale. Ma quale imbarazzo, nemmeno un po’. «Quella radio non era una caserma e neppure una stazione di polizia. Avevamo un accordo preciso col governo di Praga, preciso e ufficiale: ci assegnarono l’uso di una villetta fuori città, che divenne non solo proprietà del Pci, ma di fatto anche una sede extraterritoriale».
Ma quale imbarazzo, il Curzi non tentenna: «In quegli anni ero sicuro che la verità da raccontare era la mia, la nostra, quella dei comunisti».
All’Unità arriva nel ’60, capocronista, «e faccio della cronaca una specie di secondo giornale, titoli un po’ gridati, prima pagina un po’ vetrina. E’ una novità, insospettisce». Insomma, è un po’ troppo “giornalista”, disturba; lo rimandano a fare il lavoro di partito, con Giancarlo Pajetta alla Stampa e Propaganda; poi di nuovo giornalista, tra l’Unità e Paese Sera, il quotidiano fiancheggiatore che è la creatura prediletta di Amerigo Terenzi.
«Arriva il Sessantotto e arrivano i “non si può”. Eravamo divisi per come trattarli, questi studenti che occupavano, manifestavano e se la prendevano anche con il partito. Io ero tra coloro che in- clinavano ad appoggiare il movimento e qui ho il primo scontro con Terenzi». Attento, giornalista!
Lo tolgono dall’Unità, lo promuovono e lo mandano come vicedirettore a Paese Sera («lì è meno pericoloso»), ma anche al giornale-cugino le acque non sono tranquille, Botteghe Oscure c’è. «Sulla questione del divorzio ci schierammo per il refrendum prima del Partito e con il Pci mugugnante. Lo stesso sul movimento studentesco. Un giorno mettiamo gli studenti alla grande in prima pagina. Non passano che poche ore dall’uscita del quotidiano e arriva in redazione il segretario della Federazione romana, Luigi Petroselli. Era mezzogiorno, noi eravamo in riunione di redazione, lui entrò e platealmente prese in mano il numero e lo accartocciò come fosse carta straccia». Un’altra volta, «in tipografia Alberto Jacoviello rovesciò via dal bancone di composizione col suo unico braccio la prima pagina di Paese Sera», aveva un titolo troppo incline a Israele.
No che non lo nasconde, il Curzi (così noi lo chiamavamo a Libera-zione): a Botteghe Oscure mica tutti lo volevano a dirigere il Tg3 (spettava, in quei tempi di perfetta lottizzazione, in quota Pci).
Racconta. «Il nodo lo scioglie Alessandro Natta, allora segretario del partito: “A Curzi sarebbe peri- coloso affidare l’Unità, ma la Rai è un’altra cosa”. Napolitano, Chiaromonte e molti altri storcono il naso, ma la decisione è presa».
Orgoglio e amarezza, cenere e diamanti, la sua creatura, quel Tg3 della “ggen- te” – che lui ama definire «“altra” cosa da un notiziario, un “organizzatore collettivo”» – gli procura gioie e dolori. Lottizzati e contenti, e il successo certificato proprio da quel marchio “infamante” inventato e lanciato da Giuliano Ferrara dal palco del congresso socialista all’Ansaldo di Milano: “TeleKabul”. Proprio così, quel marchio lui lo considera un trionfo, la vittoria del “tiggì rosso”, la prova che «il tempio del potere ci indica come la pala che gli scava il terreno sotto i piedi».
«Ma eravamo accerchiati, il giornale “organizzatore collettivo” non poteva continuare. Craxi ci promise in un ristorante romano “i conti definitivi” e non erano quelli della cena. La Dc ci chiamò “nipotini delle Brigate Rosse”. Il colpo di grazia venne però da sinistra, un po’ per scienza e un po’ per caso». Già, in Rai sono arrivati “i professori”, Demattè in testa, «al primo incontro con “i professori” subito capisco che è già finita, per me, per ilTg3 e per la Terza Rete. Ce lo hanno scritto in faccia».
Era sempre quello lì, un tipo scomodo. Occorreva “ridisegnare la Terza Rete”, insomma «sgomberare il campo della sua differenza», addio Curzi. Anche a Botteghe Oscure, ora Pds, «la pensano in maggioranza così». Si dimette (la Rai nel 2005 se l’è ripresa, con la nomina a consigliere di amministrazione). L’avventura con “Telemontecarlo” come direttore del Tg, dura poco, Cecchi Gori, anche lui, lo trova scomodo, “ingombrante” appunto; e non si lasciano bene (e del resto, «Cecchi Gori è uno che “ama” licenziare. Per lui è uno sport»).
Il Curzi ha sposato, nel 1954, Bruna Bellonzi, anche lei “compagna” e anche lei giornalista; hanno avuto una figlia, Candida, di mestiere pure lei giornalista. Ed è al nipote, il figlio di Candida, che racconta: «Un giorno, per le strade di Roma, ho visto sfilare i centomila e passa di Rifondazione comunista. Era l’avvio della loro campagna elettorale. Li ho seguiti con simpatia, anzi ho cominciato a muovere qualche passo con loro…».
Ed è così che è arrivato da noi, a Liberazione, nostro nuovo direttore per sei anni filati.
Il Curzi qui, bel colpo.
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