Cinecittà è di nuovo pubblica. Evviva, ma ora la battaglia si fa più dura

Cinecittà è di nuovo pubblica. Evviva, ma ora la battaglia si fa più dura

Stefania Brai*

Quanto è costata la riacquisizione degli Studi e il ritorno alla gestione pubblica? A quanto ammontano i debiti di Abete e soprattutto quanto è costata allo Stato la sua gestione? Cosa succederà ai lavoratori di Cinecittà? Tante le domande, ma anche le richieste. A cominciare dal “progetto di sviluppo e rilancio” che vogliamo sia reso pubblico e condiviso tra le forze sociali, culturali e professionali che fanno parte del mondo del cinema. Perché ora comincia la battaglia più dura: impedire che la “filosofia” fondamentalmente mercantilistica della legge Franceschini pervada il progetto di rilancio degli studi…

Finalmente gli studi di Cinecittà tornano alla gestione pubblica. Ci sono voluti anni di battaglie e occupazioni da parte dei lavoratori contro la drastica ristrutturazione aziendale messa in atto da Abete, con licenziamenti, cassa integrazione, contratti di solidarietà, eccetera.

Ci sono volute mobilitazioni nazionali e internazionali per salvaguardare gli studi di via Tuscolana e impedirne la cementificazione e con essa la trasformazione di Cinecittà in “sito turistico e commerciale”. Ci sono voluti anni, “morti e feriti” per prendere atto del totale fallimento – istituzionale, culturale ed economico – della gestione privata di un bene pubblico.

Quindi abbiamo vinto. Hanno vinto i lavoratori prima di tutto; hanno vinto tutte le forze sociali, culturali e politiche che sono state al loro fianco in questi anni chiedendo sempre il ritorno alla gestione pubblica come unica soluzione della crisi degli Studi; hanno vinto tutti i cittadini che si sono visti finalmente restituire un loro bene, un bene pubblico.

Prendiamo allora atto della vittoria, importantissima non solo per il cinema e la cultura italiana, ma perché mai come adesso, mai come in questa occasione si tocca con mano la follia delle privatizzazioni di tutto ciò che è “bene e servizio pubblico”; mai come adesso e in questa occasione si dimostra che non sono certo i privati a garantire l’efficienza, la funzionalità e la correttezza delle gestioni aziendali. Per “carità di patria” non accenniamo neanche ai risultati culturali e sociali.

Ma da adesso cominciamo a ragionare del futuro, in modo pubblico e collettivo, per impedire che ancora una volta ci si trovi di fronte a fatti compiuti che passano sulla testa di tutti, lavoratori e cittadini. E per cominciare a ragionare del futuro abbiamo, prima di tutto, bisogno di alcune risposte.

Quanto è costata la riacquisizione degli Studi e il ritorno alla gestione pubblica? A quanto ammontano i debiti di Abete e soprattutto quanto è costata allo Stato la gestione Abete? Cosa è successo – o succederà – con gli studi di Terni? Quanto lo Stato ha deciso di investire nel “progetto di sviluppo” presentato dal presidente e dal consiglio di amministrazione dell’Istituto Luce-Cinecittà al ministro della cultura e a quello dell’economia?

Ma ancora, e forse prima di tutto: cosa succederà ai lavoratori di Cinecittà? Quale è il loro destino all’interno del progetto di sviluppo? Nel comunicato stampa di tre cartelle a questo proposito si dice solo che “punto qualificante del piano è la salvaguardia delle professionalità presenti a Cinecittà”. Già quel “presenti” preoccupa molto e non promette niente di buono.

Per cominciare a ragionare pubblicamente vorrei provare a fare alcune prime riflessioni, a partire solo dal comunicato stampa, perché altro non abbiamo.

E il primo punto è esattamente questo: il “progetto di sviluppo e rilancio” dovrebbe essere reso pubblico e, visto che non lo si è fatto finora, discusso con i lavoratori di Cinecittà e con tutte le forze sociali, culturali e professionali che fanno parte del mondo del cinema e dell’audiovisivo, quantomeno.

Non è una richiesta di elementare percorso democratico, pure sacrosanta. È che non si può avere provocato tali danni umani, culturali e sociali e poi fare finta di nulla. Non si può aver deciso sull’onda tragica dell’euforia per le liberalizzazioni – leggi privatizzazioni – di affidare a un presidente di Banca (e non una qualunque ma la Bnl) la gestione di un bene pubblico del valore di Cinecittà studi e poi avere assistito per anni alla sua distruzione direi sistematica e scientifica senza che nessun governo e nessun ministro muovesse un dito e poi un giorno come se niente fosse, senza neanche dire “abbiamo sbagliato”, annunciare il ritorno alla gestione pubblica. Tutto ciò che è pubblico ha bisogno di trasparenza, di partecipazione e di controllo. E io cittadino voglio sapere quale è il futuro di quel bene che in quanto pubblico è di tutti.

Secondo punto. Nella lunga storia delle battaglie culturali di questo paese Cinecittà è sempre stata individuata come “volano pubblico” della nostra intera produzione cinematografica. Punto di riferimento insostituibile per tutto il cinema non commerciale (non “difficile” come viene in modo orrendo e inaccettabile definito nella nuova legge cinema di Franceschini): per il cinema d’autore, il cinema documentario, il cinema di ricerca culturale e linguistica, il cinema dei giovani autori, il cinema insomma slegato e liberato dalle logiche di mercato e con finalità culturali e dunque sociali. Il cinema che ha fatto grande la nostra cinematografia e anche la nostra industria. È questo che si prefigura in quel piano di sviluppo o piuttosto si sta cercando in modo surrettizio di trasformare gli studi di Cinecittà in un grande volano turistico e di intrattenimento, invece che di cultura?

Terzo ed ultimo punto. Non è difficile leggere tra le righe del comunicato stampa il disegno di trasformazione del nuovo polo Luce-Cinecittà e Cinecittà studi nel nuovo Cnc, in quel Centro nazionale per il cinema richiesto da anni da tutto il settore. Tutto bene quindi? Direi proprio di no perché per il cinema italiano il Cnc è sempre stato un istituto completamente autonomo dal governo e gestito interamente e autonomamente dalle categorie del settore. Qui mi pare si verifichi l’opposto: totale dipendenza dal ministero della cultura e da quello dell’economia e delle finanze; nessun rapporto con le forze sociali, culturali e professionali del settore; gestione totalmente demandata ad un consiglio di amministrazione di diretta emanazione governativa.

Penso allora che non dobbiamo limitarci a rallegrarci della vittoria e pensare che la battaglia sia finita. Adesso comincia una battaglia forse più difficile: quella che tenta di capovolgere quel senso comune dilagante che considera la produzione culturale come produzione di una “merce” utile e omogenea ai meccanismi di mercato e in base al quale si sono trasformate le istituzioni culturali in “aziende” a struttura imprenditoriale le cui finalità sono strettamente ed esclusivamente economiche e commerciali.

La battaglia difficile ora è quella di vigilare ed impedire che la “filosofia” fondamentalmente mercantilistica della legge cinema del ministro Franceschini pervada il progetto di rilancio degli studi di Cinecittà e per vedere invece ribadita e rafforzata la finalità generale e pubblica, dunque sociale e culturale del più grande polo produttivo cinematografico del nostro paese.

Ancora. La battaglia difficile ora è quella di vigilare e impedire che la costituzione di un eventuale Centro nazionale per il cinema avvenga all’interno di una struttura che ha ben altri importantissimi compiti ma certo nessuno dei requisiti che il mondo del cinema ha sempre chiesto per quella istituzione. Ripeto: un ente di diritto pubblico con totale autonomia dal governo e gestione democratica affidata alle forze culturali, professionali e sociali del cinema.

Non credo che in questo paese la coscienza critica sia stata completamente anestetizzata, come pure dicevano oggi alla radio moltissimi ascoltatori a proposito della spiaggia di Chioggia. Anche se il rischio è enorme e i segnali inquietanti. Credo che la battaglia e la determinazione dei lavoratori di Cinecittà dimostrino che è ancora possibile che avvenga quello che si diceva una volta, e cioè che la “lotta paga”, anche se la strada sembra lunga.

*da Bookciak Magazine, 11 luglio 2017

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