Ocalan e la libertà secondo Facebook

Ocalan e la libertà secondo Facebook

Stefano Galieni

Che due padroni trovino terreno comune di azione è scontato. Se i due in questione sono però il signor Zuckeberg creatore di Facebook e il sultano Recep Tayyp Erdogan, ufficialmente capo di Stato di quel carcere a cielo aperto che va sotto il nome di Turchia, può accadere che la decantata democrazia orizzontale dei social network venga tranquillamente trattata con gli stessi metodi con cui si garantisce la libertà di stampa e opinione in Turchia.

I fatti: il 10 febbraio scorso, a Milano, la sera prima della manifestazione nazionale per la libertà di Abdullah Ocalan e di tutte e tutti le persone detenute per motivi politici in Turchia, Rifondazione Comunista aveva organizzato un dibattito peraltro riuscito e propagandato per settimane proprio attraverso Fb.

Partecipavano oltre al segretario del Prc-S.E. la parlamentare Hdp e nipote del presidente del PKK, Dilek Ocalan, un suo collega dello stesso partito, Faysal Sariyildiz e gli avvocati Mahmut Sakar e Barbara Spinelli.

Poco prima dell’iniziativa veniva scattata una foto della sala vuota. Dietro il fondo, sul muro, campeggiava una foto di Abdullah Ocalan con accanto una bandiera curda, la foto che trovate in copia.

Pochi giorni fa questa foto che veniva proposta su Fb veniva da ignoti segnalata in quanto “inappropriata”. Gli zelanti funzionari dell’immagine del maggior social network mondiale rimuovevano l’immagine accogliendo la segnalazione e comunicandolo con la seguente frase: “Abbiamo rimosto il post perché non rispetta gli standard della comunità di Facebook”.

Interessante notare come invece continuino a rispettare gli “standard della comunità”, pagine e profili sessisti, omofobi, razzisti e inneggianti al fascismo. Da “Benito Mussolini Duce d’Italia” celebrativo, al terrorizzante “Tutti i crimini degli immigrati” ai tanti profili in cui si manifesta odio verso stranieri, fedeli di altre religioni, donne, omosessuali e a seguire una caterva di post puntualmente e pubblicamente segnalati alla polizia postale ma mai rimossi in quanto considerati invece “confacenti a detti standard”.

Se la libertà di stampa in Italia, considerando gli strumenti ufficiali di informazione, ci vede nel mondo scendere perennemente di classifica quella social oltre ad avere dimensione globale, ridefinisce i criteri di “lecito” e “illecito” in base a quelle che sono le decisioni di oltre oceano.

E laddove oggi trionfa il dominio di Trump diviene inevitabile che “gli standard di comunità” non possano contemplare né Ocalan né tanto meno quanto attiene a formazioni considerate “eversive da sinistra”.

Non solo in quanto il PKK risulta ancora e per ragioni meramente strumentali è considerato da U.E. e U.S.A. all’interno delle “black list”, fra le organizzazioni considerate terroriste.

Ma anche e soprattutto perché il pensiero unico che si va riformando in questo scorcio di ventunesimo secolo non può accettare forme plurali, aperte e attive di partecipazione alla politica e l’immaginario collettivo che attraverso i social deve essere veicolato non può neanche suggerire l’esistenza di pratiche e situazioni diverse da quella dominante.

La sfida oggi passa anche attraverso queste sconfinate censure della comunicazione, selettive e gerarchiche, in cui chi ne fa uso è unicamente consumatore che non determina neanche la domanda ma è subalterno all’offerta.

Una ragione in più per ripubblicare la foto di quella bella serata di lotta.

 


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