Parigi, dipartimento 93: un passato che non passa

Parigi, dipartimento 93: un passato che non passa

di Carlotta Benvegnù

Bobigny, Seine-Saint Denis il famigerato dipartimento 93. Una foresta densa di palazzi, le cosiddette cités, un intricato labirinto di passerelle sopraelevate che collegano i diversi livelli di questa giungla urbana. Un luogo freddo, ostile, come accade spesso in queste zone viene da chiedersi cosa avessero in mente architetti e urbanisti quando hanno progettato un luogo simile. Non un bar, un ristorante, un negozio in vista.

Spiccano tra i palazzi il centro commerciale e il blocco grigio del tribunale, davanti al quale è stato lanciato l’appuntamento per il presidio in solidarietà con Théo, l’ultima vittima in ordine di tempo della quotidiana violenza perpetuata della polizia nei quartieri della periferia francese.

Il presidio, annunciato in rete solo qualche giorno prima, inizia alle 4 del pomeriggio di sabato. La folla è numerosa, ben sopra le aspettative, 5000 persone si dice.

Freddo glaciale, a tratti pioggia. La tensione è palpabile mentre si susseguono gli interventi al microfono. “Faut que ca barde” si sussurra, devono pagare.

La composizione del presidio è diversa dal solito. Qualcosa che se non è inedito è quantomeno molto raro. Associazioni, militanti, ma soprattutto tanti gli abitanti dei quartieri popolari, molti ragazzini, quella composizione che si fatica a vedere nei grandi cortei sindacali, quella composizione che ci si chiede di continuo perché non la si riesce a portare in piazza, quella di cui l’assenza a Nuit Debout si è tanto discusso.

Il presidio si trova in un piazzale, una sorta di conca sopra la quale una passerella collega il tribunale alla stazione della metro. Sopra questa, come un po’ ovunque nei dintorni del concentramento, un gruppo di poliziotti presidia il passaggio. E’ un attimo, un lancio di sassi e le prime cariche. Da sotto si osserva un po’ straniti lo spettacolo. Un gruppo di giovani carica a più riprese la polizia nello strettissimo passaggio, lanciano pietre. La polizia risponde con lacrimogeni, carica a sua volta. I giovani contrattaccano. Dopo pochi minuti si vede il primo fuoco accendersi poco lontano, un furgone di una radio nazionale è in fiamme. Comincia così una lunga serata di riot urbano: negozi saccheggiati, barricate, macchine date alle fiamme, e 37 fermi.

In questi territori, laboratori del nuovo ordine securitario e di costruzione del nemico interno, il passato coloniale della République informa le pratiche di gestione dell’ordine pubblico.

Una violenza strutturale, fatta di umiliazioni, violenze, vessazioni quotidiane: se sei nero o se sei arabo hai 10 volte più di possibilità di essere fermato dalla polizia. Controlli au faciès li chiamano.

Poi succede che di questi controlli qualcuno ci muore, e la lista è lunga. Le chiamano “bavures”: sbavature, errori, casualità. Ma il ritmo a cui si succedono, da l’idea di quanto poco ci sia di casuale in questi atti. Il razzismo, la violenza e gli omicidi non sono appannaggio esclusivo dei poliziotti statunitensi.

L’ultimo in ordine di tempo è Adama, 24 anni, morto il 19 luglio scorso dentro un commissariato a Beaumont-sur-Oise. Adama scappava da un controllo di polizia, come scappavano Zyed e Bouna, i due ragazzini di 17 e 15 anni, morti fulminati in una centralina elettrica nel 2005, a Clichy sous Bois. La scintilla che aveva fatto scoppiare la rivolta dei quartieri nello stesso anno.

Théo, 22 anni, ha avuto il coraggio di intervenire durante uno di questi controlli di polizia a Aulnay-sous-Bois, interponendosi tra gli agenti e un gruppo di giovani.

Per questo è stato punito e portato dai 4 poliziotti in un luogo tranquillo, lontano dalle telecamere di video sorveglianza della cité, buttato a terra, e violentato con un manganello. Con una ferita di 10 centimetri nel retto, ora si trova in ospedale, l’intestino in una sacca. Da qui Théo ha raccontato la violenza subita davanti alle telecamere dei telegiornali, con un coraggio da lasciare senza fiato. Racconta di essere stato buttato a terra, i pantaloni abbassati, violentato, insultato: “negro”, “puttana”, “bambula”. Quest’ultimo, insulto razzista e vagamente paternalista, veniva usato dai coloni francesi in Africa. Echi di un passato ben ancorato nel presente.

Le violenza subita da Théo, come il suo carattere sessuale, vanno letti in un contesto più ampio: umiliare, mortificare, per ricordare a questi giovani “discendenti della colonizzazione”, a questa “classe pericolosa”, che se ne deve stare al suo posto. Violenze e umiliazioni servono a confermare quotidianamente l’autorità della polizia e riaffermare l’ordine materiale e simbolico della Repubblica.

Nei giorni seguenti l’arresto di Theo si sono susseguiti scontri e imboscate alla polizia nei quartieri del 93. A nulla sono serviti gli appelli alla calma della famiglia e di Theo stesso. La rabbia è troppa, la misura è colma e lo è da troppo tempo. La “cocote minute”, la pentola a pressione che è Parigi circondata dalla sue periferie, sembra sempre sull’orlo dell’esplosione. Il ricordo della rivolta del 2005 è ancora vivido, la République sa che basta poco. In un contesto di tagli al welfare, in un paese dove nei quartieri “sensibili” i tassi di disoccupazione giovanile arrivano al 45%, dove vige lo stato d’emergenza, e in un paese che è stato da poco attraversato da un movimento sociale durato più di 5 mesi, il pericolo che Théo diventi simbolo e nome collettivo è troppo grande. Tanto grande da far scomodare lo stanco presidente Hollande, apparso a pochi giorni dai fatti davanti alle telecamere, leggermente imbarazzato, in fianco a Théo sul letto d’ospedale.

Una manifestazione è prevista per sabato prossimo a Aulenay-sous-Bois, la città di Théo. Per il 19 marzo è stata confermata la Marche pour la dignité et contre les violences policières che l’anno passato aveva visto sfilare diverse migliaia di persone in centro a Parigi.

 fonte: infoaut

theo hollande


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