Buon compleanno al compagno Citto Maselli

Buon compleanno al compagno Citto Maselli

Buon compleanno al nostro compagno Citto Maselli che oggi 9 dicembre compie 86 anni. Vi proponiamo una bella intervista che ricostruisce il lungo percorso artistico e politico di Citto.

L’ULTIMO NEOREALISTA. INTERVISTA A CITTO MASELLI

di Marco Ravera 

Il regista è oggi considerato l’autore di una pellicola sia essa un documentario, un corto o un lungometraggio; in fondo come scrisse Jean Renoir “Ogni cosa che si muove sullo schermo è cinema”. Ma non è per nulla semplice rimanere attivi per decenni in un mondo sempre più frenetico e competitivo. Solo i grandissimi ci riescono. Sergej Michajlovic Ejzenštejn diresse film per 34 anni, uno in meno di Yasujiro Ozu e Vittorio De Sica. Federico Fellini e Nagisa Oshima 40 anni giusti, il già citato Renoir vanta 45 anni dietro la macchina da presa. Lina Wertmüller 46. Più longevo è stato Stanley Kubrick che ha “spalmato” i sui 16 film in 48 anni di carriera. C’è stato poi chi è passato dal muto al sonoro come Charlie Chaplin con 53 anni di attività. A 54 anni si sono fermati Alfred Hitchcock e Michelangelo Antonioni. 56 anni di regia per Bernardo Bertolucci, 58 per Orson Welles (prendendo in considerazione il suo Don Quixote uscito postumo e incompleto nel 1992), 59, contando anche Il gigante gentile in uscita nel 2016, per Steven Spielberg. Ma solo tre registi superano, ad oggi, i sessanta anni di attività. Abel Gance, grandioso regista francese autore di Napoleon (1927), debuttò con Pour sauver la Hollande nel 1911 e terminò la carriera con Bonaparte et la révolution nel 1971: 60 anni esatti.

Ma due registi italiani hanno fatto di meglio. Tutti e due iniziarono prima di aver compiuto venti anni: il primo con I ragazzi della via Paal (1935), il secondo coi documentari Tibet proibito (1949) e Bagnaia, villaggio italiano (1949). Il primo ha chiuso la carriera nel 2008 con Vicino al Colosseo… c’è Monti, il secondo è tuttora in attività. Tutti e due comunisti. Il primo, Mario Monicelli, è scomparso il 29 novembre 2010. Il secondo, Francesco “Citto” Maselli, mi concede con grande disponibilità questa che, più che un’intervista, vuole essere una chiacchierata sul cinema.

maselli monicelli

Pensando ai registi citati prima, pensando a te e a Monicelli, viene spontanea una domanda: essere comunisti fa bene al cinema?

Sì, nel senso che l’essere comunisti immerge ogni contenuto in una visione del mondo e in un ideale, dunque ogni film che fa un regista comunista costituisce un sia pur minimo contributo alla costruzione di una coscienza critica e di un ideale per cui vivere e combattere. In realtà così ho risposto se fa bene alla società, non se “fa bene al cinema”. Però è anche vero che carica ogni film di una particolare forza e ogni autore di una ragione in più per continuare a lavorare.

Una precisazione però: “Tibet proibito” non è un mio documentario ma un filmato di Piero Mele di cui io feci solo il montaggio. Il mio primo documentario professionale, cioè sonoro e in 35 mm, è “Bagnaia, villaggio italiano” del ’47 girato quando avevo 16 anni. Non l’ho mai rivisto e non so se sia realmente di valore; all’epoca fu premiato a Venezia e girò molto in quelle catene dei “circoli del cinema” che malgrado le prese in giro di Scola e Scarpelli (in “Ci eravamo tanto amati” mi pare) tanto hanno contribuito – specie in provincia – alla crescita intellettuale dei giovani di allora (ma vale anche per oggi).

Sempre sulla fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta i miei migliori documentari furono “Finestre” purtroppo perduto, e poi “Bambini” che ebbe un buon successo a Cannes non ricordo esattamente in quale anno. Seguirono “Ombrellai” cui tengo moltissimo e “Zona Pericolosa” sull’istigazione alla violenza che il cinema, i giocattoli e la stampa a fumetti costituivano nella società di allora. Non ho rivisto mai nemmeno questo ma credo che malgrado sia un po’ “settario” e schematico, vada inserito nel clima di dopoguerra dove in effetti tutto quello che esaltava guerra e violenza faceva paura. Tuttavia, a quanto ricordo, il carattere un po’ didascalico, di “denuncia”, del film era attenuato da uno stile fortemente poetico e da immagini (volti di bambini e la tragica periferia urbana alla Sironi) di grande intensità. Anche qui, però, chissà a rivederlo oggi? Per quello che riguarda “Ombrellai” che è stato restaurato e ho rivisto, devo dire che per me è tra le cose migliori che ho fatto in assoluto, e a me è molto caro perché colpì particolarmente Visconti segnando l’inizio di un’amicizia e anche di un rapporto di lavoro per me fondamentali.

Sei molisano di origine, ma sei nato a Roma. Tuo padre, Ercole Maselli, era un affermato critico d’arte e scriveva per Il Messaggero, il tuo padrino di battesimo era Luigi Pirandello, la tua casa era frequentata da Emilio Cecchi, Massimo Bontempelli, Alberto Savinio, Corrado Alvaro. Un salotto antifascista, seppur non militante come hai avuto modo di ricordare. La cultura che hai respirato da bambino come ha influenzato il tuo percorso artistico?

maselli antonioniSicuramente molto, anche se si tratta della mia formazione generale perché il “percorso artistico” cioè il cinema è stato influenzato dalle mie conoscenze e frequentazioni successive. Mi riferisco a Zavattini, Visconti e Antonioni. Con quest’ultimo si stabilì una grande amicizia che io “tradii” una volta facendo, dopo il successo de “Gli sbandati” a Venezia, un’intervista in cui dicevo che i registi che più mi avevano influenzato erano Visconti e Mizoguchi (il grande regista giapponese di cui in quegli anni avevo visto con infinita emozione “Ugetsu monogatari” I racconti della luna pallida d’agosto). Non avevo citato Michelangelo e lui si vendicò tanti anni dopo (mi pare una decina) quando al termine di una cena a due al ristorante romano al Bolognese gli chiesi diecimila lire in prestito (in quel periodo ci prestavamo spesso i soldi reciprocamente, secondo gli “anticipi” che di volta in volta riuscivamo a strappare ai produttori) e lui mi rispose sorridendo: “no che non te le presto, valle a chiedere a Mizoguchi”. Io rimasi sbalordito perché mai mi aveva detto di aver letto quella mia intervista. Così scoppiai a ridere e ricordo che lo raccontai a qualche amico. Successe che in breve questo “valle a chiedere a Mizoguchi” fece il giro di Roma e diventò nel nostro ambiente un modo di rispondere a ogni richiesta indesiderata.

E’ vero che all’età di 12 anni spiegasti al tuo amico e coetaneo Sandro Curzi cosa fosse il comunismo e chi fosse Karl Marx?

Si, è vero. All’epoca il “Manifesto dei comunisti” certamente non era pubblicato e non si vendeva, ma io scopersi che in appendice a un volume di Labriola pubblicato a Bari da Laterza c’era una versione credo integrale del Manifesto che illuminò la mia adolescenza e mi permise di partecipare coscientemente alla Resistenza romana sotto la guida di Luigi Pintor e Aggeo Savioli in quel liceo – il “Tasso” – che nel ’43 e ’44 era una fucina di giovani comunisti. Sandro era un mio compagno di scuola genericamente antifascista che io convinsi a diventare comunista, come avvenne nel mio rapporto con Luciana Castellina che, anche se in una classe diversa dalla mia, frequentava il Tasso. Era bellissima e io ricordo che l’avevo un po’ corteggiata e convinta a farsi fare delle fotografie. Così tra una foto e l’altra le parlavo di comunismo eccetera. Quale non è stato il mio stupore nello scoprire trent’anni dopo che lei conservava tutte quelle foto in un cassetto speciale della sua scrivania…

Tornando al cinema, dopo i primi documentari, su tutti Bagnaia, villaggio italiano (1949) e le importanti collaborazioni con Luigi Chiarini e Michelangelo Antonioni, realizzi il tuo primo lungometraggio: Gli sbandati (1955). Il film segue le vicende di un gruppo di giovani alto borghesi dopo l’8 settembre 1943 ed è interpretato da Lucia Bosè, Jean-Pierre Mocky, Isa Miranda e perfino Joop van Hulzen che aveva interpretato il capitano Hartmann in Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini. Sinceramente penso non sia un caso visto che Gli sbandati si inserisce a pieno titolo nel neorealismo italiano. Esistono tuttavia alcune differenze. Il cinema neorealista era caratterizzato da trame ambientate in larga parte fra le classi disagiate e lavoratrici, tu rivolgi l’obbiettivo sull’alta borghesia sottolineandone i rapporti con il fascismo e il nazismo e le ambiguità nel confronti della Resistenza. Perché quella scelta?

Vai a capire. Credo perché quelle ambiguità e quelle contraddizioni profonde le conoscevo bene seppure indirettamente dato l’ambiente in cui vivevo, ma anche facevano in qualche modo parte della complessità sociale, politica e psicologica in cui era immersa la società italiana postfascista. Sotto questo profilo non so se francamente “Gli sbandati” sia neorealismo. Da un lato, infatti, questa tua convinzione mi onora, ma dall’altro lato non la sento giusta. Mi colpisce che tu abbia individuato Van Hultzen. Io lo volevo perché in “Roma città aperta” impersonava un tedesco amaro e tragico, fuori dallo stereotipo dell’ufficiale nazista. Ma ricordo che tutte le ricerche che facemmo – soprattutto da parte di quel grande collaboratore che è stato per Visconti e poi per me Rinaldo Ricci – non ci portavano a nulla. Finché la figlia di Arturo Toscanini che si chiamava Wally e seguiva il mio film – che era girato nella sua villa a Ripalta Guerrina vicino Crema – non ci rivelò che si trattava di un musicologo olandese che frequentava da anni l’ambiente della Scala e che lei conosceva benissimo. Ci andò a parlare e lo convinse a darci tre giorni di lavorazione per pochissime lire, dato che tutto il film fu realizzato con pochissimi soldi in parte datimi direttamente da Luchino Visconti, ma quello è un romanzo a parte.

A proposito di neorealismo, tuttavia, va forse invece citato la “Storia di Caterina” che faceva parte di “Amore in città“, un film a episodi voluto da Zavattini che per me fu il vero e proprio esordio. Era il periodo di massima negazione del neorealismo con un Andreotti e un Gianluigi Rondi scatenati contro. Rondi era allora un uomo potentissimo coinvolto nella gestione di tutte le commissioni e di tutte le leggi da cui dipendeva il cinema italiano, e allora Zavattini ed io decidemmo polemicamente di “superare” in certo senso il neorealismo: facemmo non solo un film interpretato da una non attrice, ma scegliemmo una storia drammatica facendola interpretare da chi l’aveva vissuta direttamente. Non teorizzammo minimamente questo metodo, ma allora, nelle polemiche che traversavano la vita culturale del nostro paese, aveva senso. Per quello che mi riguarda, venne fuori una cosa che forse è la migliore che ho fatto.

La critica alla borghesia italiana, ai “figli di papà”, attraverso una serie di ritratti impietosi, è anche al centro dei tuoi successivi lavori I delfini (1960) e Gli indifferenti (1964). Nel primo fai un ritratto dei “vitelloni” nella provincia italiana, di una città del centro Italia; nel secondo, tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, descrivi il disfacimento di una prestigiosa famiglia borghese. Entrambi i film sono interpretati da Tomas Milian e Claudia Cardinale. Gli indifferenti è arricchito dalla presenza di Rod Steiger, Shelley Winters e da Paulette Goddard, compagna di Charlie Chaplin e attrice in Tempi moderni (1936) e Il grande dittatore (1940), qui alla sua ultima interpretazione per il grande schermo. Tornando a “delfini” e “indifferenti”, tu, borghese con ideali marxisti, praticavi la lotta di classe col cinema?

E’ un po’ presuntuoso dirlo, ma insieme alla mia appartenenza attiva prima nel Pci e poi in Rifondazione Comunista, è certo che con quei film, come ho già detto, cercavo di contribuire in qualche modo a una conoscenza critica della nostra realtà e della nostra storia. Vogliamo dire che questo era un modo di… “praticare la lotta di classe”? Andiamo, sì, forse in fondo e in senso molto generale sì.

I film di cui abbiamo parlato hanno subito piccole censure, baci, abbracci e scene d’amore che oggi fanno sorridere. Un autore come vive la censura?

Male. È fin troppo ovvio. Ma spesso io dovetti correggere non tanto le scene d’amore quanto, nei dialoghi, troppo precisi accenni “politici”.

Tuttavia, a parte “Gli sbandati” dove intervenne De Pirro (allora direttore generale del ministero che aveva il giovanissimo Andreotti come capo), tentando di attenuare alcune frasi antitedesche, non sono stato una grande vittima della censura andreottiana. A questo proposito per “Gli indifferenti” ricordo che qualche compagno benevolo attribuì alla censura il fatto che io non avessi inserito il declino di quella famiglia nel clima pesante del fascismo qual’era nel 1928, e impersonato com’era dal personaggio di Leo Merumeci, l’affarista cinico e libidinoso interpretato da Rod Steigher. Invece si trattò di una mia scelta precisa: dare a tutta la vicenda un senso più profondo ed epocale di decadenza dei valori classici della borghesia ridotti a pura forma ed ipocrisia; il fascismo c’entrava poco o nulla, era un discorso, ripeto, più profondo e anche, per tanti versi, tragico e a volte grottesco. Ricordo che Moravia, quando vide il film finito (da notare che per principio e rispetto nei miei riguardi non aveva voluto seguire né la sceneggiatura che secondo il mio solito scrivevo in massima parte durante le riprese, né la lavorazione del film) mi disse: come mi aspettavo hai creato un altro testo che prende solo come spunto iniziale il mio romanzo adolescenziale per fare un discorso più adulto e maturo, “storico” in certo senso.

A cavallo tra gli anni sessanta e settanta hai sperimentato nuovi generi e nuove tematiche. Con Fai in fretta ad uccidermi… ho freddo! (1967) e Ruba al prossimo tuo… (1969) approdi alla commedia, mentre in Lettera aperta a un giornale della sera (1970) metti in evidenza le ambiguità e le contraddizioni degli intellettuali di sinistra. Nel film, infatti, alcuni intellettuali scrivono una lettera al giornale dichiarandosi pronti a partire per il Vietnam. La lettera viene pubblicata costringendo i firmatari ad interrogarsi sul da farsi. Il film, per chi non lo conoscesse, merita di essere visto, ma oggi gli intellettuali di sinistra dove sono? Uno lo sto intervistando, ma gli altri?

Già. Se ricordo bene fu Le Monde di qualche anno fa a lanciare l’allarme per una sorta di pensiero unico che stava affermandosi a tutti livelli sociali e intellettuali, la cui sostanza era l’adeguamento all’esistente e la scomparsa dell’indignazione intesa come fondamentale categoria etica ed emozionale.

Anche nel successivo Il sospetto (1975) metti il “dito nella piaga” della sinistra. E’ la storia di un militante comunista, interpretato da Gian Maria Volonté, mandato a Torino durante il ventennio fascista per scoprire una spia tra i compagni che operano nella clandestinità. Nella pellicola, rievocando gli errori di alcuni dirigenti antifascisti, racconti come le divisioni interne avrebbero potuto portare la sinistra ad una sconfitta. Il film fu criticato da Pietro Ingrao e Giorgio Amendola, ma fu apprezzato, durante una proiezione a Botteghe Oscure, da Luigi Longo che esclamò “Bravo Maselli!”. Come è stato lavorare con Volonté? E cosa più ricordi del dibattito interno al PCI di quegli anni?

Intanto devo dire che Longo era stato il segretario che aveva incitato Spriano a scrivere la sua monumentale storia del PCI con la spregiudicatezza e il coraggio che Spriano poi dimostrò. Longo promosse poi tutta quella straordinaria memorialistica dei comunisti, che mi spinse a fare “Il sospetto“. A proposito del quale devo dire che Volontè era un grandissimo attore ma aveva bisogno di avere intorno un clima teso e drammatico. Prendeva spunto da cose piccole come aver trovato brutto il suo camerino a Cinecittà, oppure da cose grandissime come il senso stesso del film. Dunque è stata una lavorazione difficile. Ma anche meravigliosa perché avevo il senso ogni giorno di stare creando, proprio con quel nevrotico geniale, una cosa seria.

Sul dibattito interno al Pci, c’era stato un undicesimo congresso dove Ingrao era stato obiettivamente sconfitto ma era stato di fatto in certo senso riconosciuto come leader di una corrente critica, cosa che in un partito leninista come il nostro – seppure grazie a Gramsci e Togliatti tanto coraggiosamente diverso dagli altri partiti della Terza internazionale – era una straordinaria novità. Io ero ingraiano anche se personalmente a quei tempi lo conoscevo poco.

Hai lavorato con Antonioni e Visconti, citi spesso i grandi registi francesi Carné, Duvivier, Renoir e hai in comune con Griffith, Hitchcock e Ford i titoli di tre film, Intolerance, Il sospetto e (Le) Ombre rosse. Ma c’è un regista che ti ha più ispirato di altri?

Sicuramente Visconti. Per me “La terra trema” è il più grande film della storia del cinema, ma, come era stato per Antonioni, era “Ossessione” il mio riferimento più diretto. Tuttavia Visconti è stato così importante per me soprattutto per aver lavorato con lui e aver potuto vivere con lui quella strana e non facilmente raccontabile concezione etica e morale del lavoro che facevamo scrivendo o dirigendo un film. Ricordo che una volta Antonio Pietrangeli disse che tutti noi che avevamo lavorato con Visconti ci riconoscevamo al volo per come eravamo diversi, per come portavamo dentro l’impronta di Luchino Visconti.

Dopo alcuni importanti lavori per la televisione, hai concentrato l’attenzione sull’universo femminile. Storia d’amore (1986) descrive con la vita di una donna, interpretata da Valeria Golino, il sottoproletariato romano. Il film ti valse il Leone d’argento – Gran premio della giuria e fece guadagnare il premio alla Miglior interpretazione femminile alla Mostra del cinema di Venezia del 1986. Codice privato (1988) vede come l’unica interprete del film l’attrice Ornella Muti, particolarità che mi ricorda sia il primo episodio del film Amore (1948) di Roberto Rossellini con Anna Magnani, sia, per certi versi, l’unica opera cinematografica di Samuel Beckett ovvero Film (1964) di Alan Schneider con Buster Keaton. Nella tua pellicola la donna spia la vita del suo uomo attraverso un computer. Seguono i due lavori con Nastassja Kinski. Ne Il segreto (1990) l’inquietudine al femminile ritorna in una borgata romana, nel successivo L’alba (1990) un amore clandestino si consuma in una stanza di albergo. Hai usato lo sguardo delle donne per leggere la società?

Non è questo il punto. Ho sempre considerato la condizione femminile come determinante. Ricordo che tentavo di affrontarla fin dalla fine degli anni quaranta, quando Cesare Zavattini, avendomi conosciuto e avendo visto il mio primo documentario, mi convocava quasi tutte le sere a casa sua insieme ad Attilio Bertolucci, Giorgio Bassani e Augusto Frassineti per pensare insieme un nuovo film oppure tanti diversi episodi da unire poi in un film. Zavattini è stato un altro dei grandi con cui ho avuto la fortuna di lavorare e di formarmi. In seguito, dopo un tentativo di sceneggiare anche con lui “La donna del giorno” (il mio secondo film purtroppo non riuscito per infinite ragioni) si creò con lui un sodalizio durato fino alla sua morte, relativo alle politiche culturali e cinematografiche dei governi democristiani cui ci opponevamo attraverso l’ANAC, la grande associazione degli autori cinematografici italiani.

Ma la condizione femminile (anche se riferita ormai a trenta anni fa) è il tema di “Storia d’amore“, film cui tengo molto. Bruna, interpretata straordinariamente da Valeria Golino, è una giovanissima proletaria romana, intelligente e spregiudicata, educata da un padre comunista, eccetera, che una bella mattina si ritrova a fare le pulizie di casa per consentire ai due maschietti che vivono con lei di parlare fra loro di cose serie, di lavoro, del loro futuro; tutti i temi che lei conosce e sui quali è molto più avanti di loro. Ma è scattata in lei una pulsione inconscia all’autoemarginazione e al ridursi ai ruoli antichi della “donna di casa” che sono storicamente e culturalmente tipici della condizione femminile e che essendo riemersi dall’inconscio Bruna non ha gli strumenti per combattere e si uccide. Non l’ho raccontato bene ma la sostanza è la persistenza a livello culturale – a volte a livello inconscio – degli antichi ruoli femminili. Anche perché nella sinistra si è forse trascurato troppo di lavorare anche sui fondamenti culturali spesso profondi della condizione femminile (per non parlare di quelli maschili…). Non a caso nel film si sente trasmessa dalla radio o cantata per strada una canzone musicata da Giovanna Marini che dice: “forse non era sulla scacchiera che si giocava quella partita… forse il nemico muto di ieri non è fra le torri i cavalli e gli alfieri”. In fondo il senso di “Storia d’amore” è tutto lì, anche se l’insieme del film dice molto di più: sulla vita delle periferie urbane, sulla fatica dei giovani per liberarsi dalle scorie dei ruoli stabiliti eccetera. Ripeto: ho cercato di esprimere tutta la complessità dei problemi attraverso la poesia delle immagini della periferia urbana, dei personaggi dei giovanissimi sottoproletari così diversi da quelli corrotti di Pasolini.

Nel corso della tua carriera hai realizzato diversi documentari collettivi. Da L’addio a Enrico Berlinguer (1984) ai più recenti Un altro mondo è possibile (2001) sulle contestazioni al G8 di Genova, Lettere dalla Palestina (2002) sulle atroci condizioni di vita quotidiana del popolo palestinese e Firenze, il nostro domani (2003) sul Social Forum Europeo svoltosi nel capoluogo toscano. Pensi ancora che un altro mondo sia possibile? La sinistra italiana è all’altezza?

Io faccio parte fin dalla sua nascita del Partito della rifondazione comunista. È ancora un partito piccolo, isolato e sabotato indecentemente dai media. Da militante di questo partito e da operatore della cultura lavoro perché la sinistra italiana, quella vera naturalmente, si unisca a noi per cambiare questa società e per cambiare il mondo. Non so darti altra risposta.

Hai ripercorso la tua vita nell’autobiografico Frammenti di Novecento (2005), ma sei uno dei pochi che non teme di parlare al presente del presente. Negli ultimi lavori affiora una volta di più il tuo “cinema verità”. Con l’episodio “Pietas” di Intolerance (1996) hai parlato di razzismo, tema assente nell’Intolerance (1916) di David Wark Griffith; in Cronache del terzo millennio (1996) il tuo occhio si è spostato sulla la lotta dei condomini contro la demolizione del loro stabile; in Civico zero (2007), ispirato al libro “Il nome del barbone” di Federico Bonadonna e interpretato da Ornella Muti e Massimo Ranieri, hai dato un volto a chi vive ai margini del benessere, senza fissa dimora (da qui il titolo); ne Le ombre rosse (2009) torni a criticare la sinistra da un centro sociale giovanile. E’ vero che l’architetto Massimiliano Fuksas non ha gradito riconoscendosi nell’architetto interpretato da Ennio Fantastichini?.

Si è vero e ha reagito in malo modo, senza “classe” come si dice. Sul fatto che col mio cinema parlo al presente del presente, è il più bel “complimento” che mi potevi fare: io cerco di parlare del presente (la società, la sinistra) al presente sia quando lo faccio direttamente come ne “Le ombre rosse” o nei film collettivi, sia quando parlo della storia del Pci, della condizione femminile o di un gruppo di condomini sfrattati che diventano sfruttatori identici a quelli che combattevano.

Per il tuo sguardo sulla realtà estremamente critico e non riconciliato, posso definirti l’ultimo neorealista?

Sì, se dai del neorealismo queste definizioni.

Il tuo essere un regista dichiaratamente di parte ha limitato la tua attività? Hai mai pensato, ad esempio, di realizzare un film tratto da un’opera di Shakespeare che molto amavi da ragazzo?

Sì, ha limitato la mia attività un po’ per le difficoltà che ho incontrate un po’ perché i temi politici che mi stanno veramente a cuore sono così complessi e particolari che io stesso ho difficoltà a tradurli in “soggetti cinematografici” e dunque in film. Un po’, a proposito di complessità, ci ho provato con “Le ombre rosse“. Ma non so quanto ci sia riuscito. Shakespeare? No, sinceramente no, mi ci stai facendo pensare te, adesso. Però ho pensato a Mann. Ai “Buddembrook”. Ma ho altre cose per la testa, non ancora del tutto chiare.

Hai diretto, tra gli altri, Lucia Bosé, Isa Miranda, Virna Lisi, Tomas Milian, Claudia Cardinale, Rod Steiger, Shelley Winters, Paulette Goddard, Monica Vitti, Rock Hudson, Gian Maria Volonté, Gabriele Lavia, Valeria Golino, Ornella Muti, Nastassja Kinski, Massimo Dapporto, Franco Citti, Massimo Ranieri, Ennio Fantastichini, Arnoldo Foà, Ricky Tognazzi, Amanda Sandrelli. Ma hai anche diretto interpreti semi sconosciuti, ne Gli sbandati debuttò Mario Girotti il futuro Terence Hill, e attori e attrici non professionisti. E’ più facile dirigere grandi “stelle” o dilettanti?

E’ più facile dirigere grandi stelle. Anche se devi ricorrere di volta in volta a modi particolari spesso anche furbi, perché non si sentano “diretti”, appunto.

maselli ingraoIl 27 settembre 2015 è morto Pietro Ingrao, il tuo pugno chiuso è stato il saluto più bello e sincero. In un articolo su Il Manifesto, scritto per i suoi cento anni, avevi ricordato il suo ruolo nel mondo del cinema. Ma la politica, il Governo dovrebbero e potrebbero fare qualcosa per creare quell’humus culturale capace di aprire una grande stagione del cinema italiano o siamo destinati ai “cinepanettoni” e a commedie di dubbio gusto?

Dipende molto da noi, dalle battaglie che noi cineasti e intellettuali di sinistra saremo capaci di fare, o meglio di riprendere a fare, sempre – per usare le antiche terminologie di Ingrao – intrecciandoci con la politica, con la sinistra politica, quella vera si intende. Ma nel mondo del cinema prevale oggi una “sublime indifferenza”, come scriveva Montale nei primi anni del novecento in “ossi di seppia”. Vedremo.

Hai in mente qualche lavoro? Come vedi il cinema del futuro?

Ho scritto due storie sempre pensando alla Kinski e a quel suo volto travagliato che mi ricorda quello che diceva Bela Balash di Greta Garbo: un volto che esprime tutta la drammaticità del presente. Non so se l’abbia anche scritto, ma lo disse a noi allievi del Centro sperimentale quando, invitato da Barbaro, venne in Italia nei tardi anni quaranta, quando al centro era tornato Chiarini e il clima politico-culturale era cambiato. Ma queste due storie non mi convincono fino in fondo, ci sto lavorando ancora. Anche di notte, dormendo come succede.

Dopo tutto quello che ci siamo detti, devi chiamarti Maestro o posso chiamarti Compagno?

Sicuramente e comunque Compagno. Maestro? Lo sono davvero?

fonte: la sinistra quotidiana


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